S.E.
Mons. Rino Fisichella:
torna
su
“Porgo
il saluto di benvenuto a nome della Diocesi di Roma.
Anche
quest’anno abbiamo il piacere di celebrare la XV
Giornata di Amicizia e di Dialogo tra Ebrei e Cristiani.
Il mio più sincero e cordiale benvenuto a S. E. il Rav.
Riccardo Di Segni, Rabbino Capo della Comunità Ebraica
di Roma, che ormai è diventato ospite abituale a queste
nostre giornate. Il mio benvenuto anche a P. Giovanni
Odasso, Professore nell’Università Lateranense.
Questa XV
Giornata è per ricordare non solo che siamo amici e
fratelli, perché questa è una realtà che è
permanente. Gli amici non sono tali solo per un giorno:
quando l’amicizia è vera, sincera e profonda, quando
è radicata su una fede comune, perdura nei secoli e va
oltre lo spazio ed il tempo.
Ma ci
sono alcuni momenti in cui è importante e anche
necessario che questo rapporto di amicizia venga
esplicitato e sia reso visibile. Lo abbiamo fatto anche
in diversi momenti, lo scorso anno, come Diocesi abbiamo
partecipato all’invito ad essere presenti in Sinagoga
per dare la nostra solidarietà, in un momento
particolare in cui la Comunità Ebraica nel mondo era
colpita dalla violenza e ribadiamo oggi, qui alla
presenza del Rabbino Capo, il nostro desiderio e la
nostra volontà di approfondire sempre di più il nostro
rapporto di amicizia.
Quest’anno
la Conferenza episcopale ci ha indicato un versetto,
citato tra virgolette, e sono sicuro che ci sarà una
presentazione critica di questa espressione: “Serviranno
il Signore appoggiandosi spalla a spalla”, ispirato al
testo di Sofonia 3, 9.
Memore di
quello che era stata la lezione del Rav Di Segni l’anno
scorso quando aveva dichiarato di non aver trovato nella
Bibbia il testo proposto per la XIV Giornata, sono
andato ad aprire la Bibbia e anch’io non ho trovato
quello indicato per quest’anno! Ascolteremo, pertanto,
in particolar modo dal Rav Di Segni, il significato più
preciso del versetto.
Quello
che a me preme è esprimere il richiamo del profeta
Sofonia, cioè “il Signore protegge”.
Questo
testo è nato in un momento molto difficile della vita e
della storia di Israele, momento che ha delle affinità
con quello che noi stiamo vivendo: quanto più si
accresce il benessere, quanto più si ha tutto nella
vita, tanto più sembra venire meno il senso del
rapporto con Dio. Questo mi sembra il richiamo più
forte che emerge dal profeta Sofonia, un richiamo
critico al momento storico che viene vissuto, ma alla
luce di una profonda libertà: il profeta è sempre un
uomo profondamente libero davanti al potere civile, al
potere regale, al potere economico, davanti ad ogni
potere. Questa sua libertà proviene da una certezza:
Dio si fa conoscere, il Signore si manifesta, si rivela.
Questa è la bellezza della nostra fede: Dio rivelandosi
ci consente di raggiungere una novità talmente radicale
che la sola nostra riflessione umana non consentirebbe
mai di raggiungere. E’ necessario che sia Lui a farsi
conoscere e a rivelarsi. Vogliamo accogliere l’invito
del profeta Sofonia: la certezza del Giorno del Signore,
di questa presenza di Dio nella nostra vita che al di
là, o attraverso quello che gli uomini costruiscono,
porta a relativizzare ogni assoluto che noi facciamo,
costruiamo, per mettere davanti ai nostri occhi sempre e
soltanto la sua presenza salvifica. Con questa
brevissima introduzione, con la quale rinnovo il mio
ringraziamento ai due relatori per essere qui con noi e
per aiutarci a riflettere, do subito la parola al Rav
Riccardo Di Segni”.
Rav
Riccardo Di Segni: torna
su
“Sento
non solo il dovere ma anche il piacere di ringraziare
Mons. Fisichella per l’invito che ha voluto ripetermi
quest’anno a essere qui con voi questa sera. Da parte
di Mons. Fisichella è un ennesimo gesto di amicizia.
Lui stesso lo ha ricordato e ci ha fatto particolarmente
piacere la sua presenza in Sinagoga nelle scorse
settimane quando c’era stato un allarme terroristico
di un attentato in una Sinagoga europea. La sua presenza
mi ha particolarmente confortato.
Vorrei
affrontare il tema in due modi. In un primo momento, per
un chiarimento scritturale, leggere il brano di cui
stiamo parlando con una breve analisi di tipo rabbinico
e, in un secondo momento, cercare di vedere alla luce di
ciò che emerge da questo brano, quale possa essere il
senso, ma soprattutto la difficoltà attuale di
comprensione, di misurarsi con questo messaggio che
viene da un profeta chiamato Sofonia, terribile
trascrizione greca e poi latina del nome Tsefaniah
che può significare “Dio protegge” ma indica anche
“tsafùn” (nascosto), l’aspetto nascosto di
Dio. Pensate che nell’ebraico moderno “matspùn”
diventa “coscienza”, quindi in qualche modo la
coscienza di Dio che si rivela. Questo profeta parla
molto brevemente, abbiamo solo tre capitoli, in cui dice
delle cose molto dure, e anche il brano che stiamo
considerando è un momento di respiro in una profezia
estremamente dura perché al verso precedente ( Sof 3,8)
il Signore si rivela con l’ira, con il fuoco della sua
gelosia che divora l’intera terra e mette alla prova i
popoli. Solo a questo punto compare il verso 9 che
traduco letteralmente perché è importante l’analisi
letterale per comprendere la sfumatura che il testo ci
dà e tutto ciò che nasconde. “Perché allora
- dice il profeta - riverserò sui popoli una lingua
chiara (safah berurah), in modo che tutti chiamino o
invochino il Nome del Signore per servirlo appoggiandosi
spalla a spalla”. Letteralmente significa “una
spalla”. In realtà, la parola “shechem”
non significa la spalla anatomicamente, ma qualcosa che
sta dietro la spalla, molto più precisamente, il dorso.
Quindi letteralmente: servilo come se fosse un’unica
spalla. Questa spalla è la parte anatomica del corpo
che sostiene i pesi. Il giogo di cui si parla in questo
caso è la cosa che carica la persona, quindi, servire
Dio nel senso positivo di sopportare il peso di questo
servizio tutti quanti insieme. Perché è così
importante questo verso? Esso ha avuto un importante
riscontro nell’esegesi ebraica, prova ne sia il fatto
che il più grande commentatore della storia ebraica,
Rashì, quando parla del verso “Ascolta Israele, il
Signore è il nostro Dio, il Signore è Unico” (Dt
6), che è il testo che anche Gesù citava come testo
fondamentale e che per noi è la preghiera che recitiamo
due volte al giorno, al mattino e alla sera, prima di
coricarci. Questa frase fondamentale che esprime l’identità
della fede ebraica viene spiegata da Rashì nel senso
che il Signore è il nostro Dio, oggi è il Dio del
nostro popolo, ma il Signore sarà in futuro uno per
tutti quanti i popoli della terra, come dice appunto il
verso di Tzefaniah: “riverserò su tutti i
popoli un’unica lingua…”. Quindi la
centralità di quest’immagine è nel senso che essa
viene presa come il simbolo di tutti i popoli che
confluiranno nella fede del Dio unico che, al momento,
è la fede di Israele.
Questo
verso, per poter essere compreso nella sua dinamica,
richiede approfondimenti. L’immagine che credo sia
dietro a questa profezia è quella della torre di
Babele. Nella torre di Babele abbiamo una storia di
popoli tutti quanti uniti che pretendono di costruire
una città con una torre la cui cima arrivi al cielo, di
farsi un nome “venaaseh-llanu shèm”, una
fama perenne, per non disperdersi sulla faccia della
terra. Il Signore viene e confonde le lingue della terra
e disperde l’umanità che si raccoglie intorno a
questo progetto. Secondo il racconto della Genesi
evidentemente esiste un progetto iniquo da parte dell’umanità,
un progetto di falsa unione. L’unità di per sé non
è un valore positivo, bisogna vedere intorno a quale
tema ci si unisce. L’unità degli uomini della torre
di Babele era una unità di sfida nella quale ci si
vuole fare un nome che è mondano, non è un nome
spirituale, e contro questa unità che sfida il cielo si
scatena la punizione della confusione della lingua.
Contro questa unità di sfida esiste invece il progetto
dell’unità desiderata che ha valore intellettuale e
spirituale. Allora noi abbiamo due profezie che
insistono su questo tema, una è quella di Isaia cap. 2
che prefigura l’immagine dell’umanità che
confluisce tutta quanta su un’altura che è la casa di
Dio, Gerusalemme, e tutti quanti confluiscono verso
Adonaj. L’altro corrispettivo di questo racconto è l’idea
che prima gli uomini volevano farsi un nome, e adesso è
il Nome in cui l’umanità si deve riunire, è il Nome
di Dio, come dice Tsefaniah e tutti quanti
avranno una “safah berurah”. Ed ecco che la
lingua che prima era confusa, adesso diventa “lingua
chiara”. C’è anche un gioco di parole perché
confondere (bilbel) levalbel, da cui Babele -
secondo un’interpretazione mitica del racconto della
Genesi - invece qui “balal” diventa “barar”,
“confondere” diventa “chiarire”. Abbiamo così
una corrispondenza chiara del passaggio delle profezie.
Il modello di Tsefaniah è quello di ricomporre
la crisi della torre di Babele, ricreare l’unità dei
popoli intorno a un valore spirituale superiore.
Soffermiamoci
sul valore simbolico di questa misteriosa “spalla” o
“dorso” o “schiena”: l’idea è quella delle
forze unite, infatti nelle concordanze di Mandelchern
la traduzione dell’espressione “shechem echad”
è appunto “viribus unitis”, “le forze unite”.
Una riflessione rabbinica non può fare a meno del
significato di questa parola: ci sono dei riferimenti
simbolici estremamente forti. I sostantivi in ebraico
sono formati da tre radici - che sono tre consonanti -
da cui derivano i sostantivi e i verbi, variando le
vocali. Le tre consonanti che formano la parola “shechem
“sono le stesse del verbo che ha il significato di ‘alzarsi
presto al mattino’. Perché ci sia questa
corrispondenza è veramente misterioso! Ma chi è che si
alza presto al mattino? L’esempio di colui che si alza
presto al mattino è Abramo : “vajjashchem Abraham
babboker”. Abramo si alza presto al mattino due
volte per ripetere lo stesso tipo di sacrificio che
riguarda i due suoi figli (sacrificio per lui e per i
suoi figli): la prima volta quando si tratta di cacciare
via Agar con Ismaele e, subito dopo, al capitolo
successivo, quando si tratta di andare a fare il
sacrificio di Isacco. Questa “spalla” in realtà
indica “alzarsi presto al mattino” per fare qualcosa
di terribile. A cosa serve quella spalla? Se guardiamo
al brano del sacrificio di Isacco e al brano di Agar, ce
l’abbiamo la spalla perché nella coppia Agar -
Ismaele che viene cacciata via, Abramo carica sulle
spalle di Agar le provviste per la traversata del
deserto. Così anche Isacco porta la legna per il
sacrificio ed è evidente che non possa portare questo
carico altro che sulla spalla. Quindi, questa spalla che
viene evocata ha un riferimento molto suggestivo a
questi due tipi di sacrificio. Anche voi avete un
modello di sacrificio nel quale il peso viene portato
sulla spalla! Ci sono analogie ma ci sono anche
differenze: che significa il sacrificio di Isacco e che
cosa significa il sacrificio di Gesù? Sono uno la
prefigurazione dell’altro, come credono i cristiani,
oppure sono uno l’opposizione dell’altro, come
credono gli ebrei? C’è una radicalità di differenza
che non possiamo ignorare. Il problema della nostra
seduta è proprio che cosa fare di questa unica spalla
quando c’è questa radicalità di differenza?
C’è un’altra
strada interpretativa che riguarda questa spalla, e la
troviamo nella benedizione che Giacobbe dà al figlio
Josèph (Giuseppe) in Genesi 48,22. Alla fine della
benedizione usa l’espressione “shechem echad”
: “ecco io ti ho dato “uno shechem” in
più rispetto ai tuoi fratelli”. Che cosa
significa? Che rapporto c’è tra la benedizione di
Giacobbe e l’espressione di Tsefaniah? Su
quello che dice Giacobbe atteniamoci al contesto: la
parola shechèm può indicare il nome di una
persona, nel caso particolare il figlio del re Amòr
(che significa “asino”) della città di Shechem (Sichem).
Il figlio del re si chiama Shechem e violenta la
figlia di Giacobbe. A seguito di questa violenza c’è
l’episodio terribile della distruzione della città da
parte di due figli di Giacobbe. Atto di violenza
terribile che viene condannato dal patriarca, il quale
però a questo punto dice: “Ecco io ti do questa “shechem
echad” che io ho preso dall’Amorreo con
la mia spada e il mio arco”. Allora Giacobbe era
complice dei figli? Su questo la tradizione si è divisa
e ha suggerito due interpretazioni, una di tipo pratico
e una di tipo spirituale. La spiegazione pratica è che
effettivamente Giacobbe dà a Giuseppe la città di Shechem
(Sichem) e Giuseppe sarà sepolto a Shechem (Sichem).
L’episodio potrebbe riferirsi alla conquista
successiva oppure al fatto che effettivamente di quel
pezzo di terra dove Giuseppe è stato sepolto, la Bibbia
documenta che Giacobbe ne aveva preso possesso
materialmente.
L’altra
possibilità che la tradizione sottolinea è che questa
spada e questo arco sono le forze spirituali di Giacobbe
e sono la sua preghiera: la preghiera di Giacobbe con la
quale conquista una parte spirituale in più, la
primogenitura spirituale conquistata con la preghiera e
sottratta a Esaù.
Allora
questo “shechem” di Tsefaniah evoca un
passaggio di spiritualità, di primogenitura e anche,
forse, di possesso materiale che unisce tutti quanti.
Vediamo
come sia ricca questa visione e come apra tutta una
serie di prospettive. Cercando di riassumere quello che
l’esegesi rabbinica ha tirato fuori: cosa significa
questo verso? Che tutti gli uomini della terra lo
serviranno oppure che saranno uniti in un unico fascio?
Ma quando
tutti i popoli serviranno Dio? Una soluzione possibile
è che adesso tutti i popoli dissentono da Dio, ma nel
mondo futuro - che non è questa realtà - saranno tutti
uguali a servirlo. Qualcuno invece dice: non sono tutti
i popoli, ma è una cosa che si riferisce alla frase in
cui le persone giuste e corrette dei popoli del mondo
dicono al popolo di Israele: “Procediamo insieme a voi”.
E ancora qualcuno dice: “Nel mondo futuro non ci sarà
più distinzione nei precetti, nell’osservanza, tra
noi e gli altri. Secondo Maimonide sarà il Messia che,
dopo essersi imposto al popolo ebraico e aver realizzato
tutte le promesse, “ittanchèn”, correggerà
tutti i popoli della terra in modo che tutti quanti si
possa servire Dio insieme. (Mondo futuro? Il Messia?
Tutti i popoli? Non tutti i popoli? I precetti...?).
Secondo
lo Zohar - la tradizione mistica - si parla di
altre cose, cioè che i morti saranno insieme ai vivi,
risorgeranno e serviranno Dio.
C’è un
altro imput dello Zohar notevole, che la
parola “lingua” (safah) di cui si parla ha lo
stesso valore numerico di “Shechinah”, “Immanenza
divina”, per cui questa lingua è il contatto con la
presenza divina e tutti quanti arriveranno al contatto
con la presenza divina.
Queste
sono le prospettive di lettura.
Spostandoci
sul senso del nostro incontro, dobbiamo chiederci: il
verso di Tzefaniah si è realizzato? È in
corso? Si deve realizzare? Se ammettiamo che il verso di
Tzefaniah si sia realizzato, una cosa del genere
la possono sostenere non gli ebrei, forse alcuni
cristiani, dicendo che l’umanità si trova nelle sue
centinaia di milioni, unita intorno al messaggio
cristiano. Questa è una soluzione che possono
prospettare alcuni cristiani, ma non è una soluzione
che possono prospettare gli ebrei. Questa profezia è in
corso e, magari, è proprio il dialogo che la sta
realizzando? Sarebbe forse un po’ presuntuoso pensare
una cosa del genere. Se si realizza in questo senso è
soltanto una cosa che riguarda pochi. Si deve
realizzare? Ma in che modo? C’è uno spazio in questa
profezia per il pluralismo? Oppure non è semplicemente
altro che una profezia che dice: tutti quanti
arriveranno ad un unico modo di servire Dio, tutti
quanti insieme?
Che cosa
significa “unica spalla”? Ciascuno con le sue
differenze così radicali, oppure qualcuno dovrà
rinunciare a queste differenze radicali e diventeranno
tutti quanti la stessa cosa? Non possiamo nasconderci
che sia la teologia ebraica sia la teologia cristiana
ammettono soltanto il modello di “tutti quanti”.
Paolo, nella lettera ai Romani, dice che capisce il
fatto che in qualche modo gli ebrei rimangano lontani
dal messaggio di Gesù, ma alla fine tutti quanti
dovranno convenire su questo. E dall’altro punto di
vista, Maimonide dice la stessa cosa al contrario: il
cristianesimo ha un ruolo fondamentale nella storia
perché porta certe conoscenze, certe dottrine
fondamentali all’umanità, ma dovrà correggersi e
arrivare alla perfezione dell’idea del Dio unico, nel
futuro. Abbiamo un’idea che per ciascuno dei mondi
religiosi è un’idea che considera positivamente lo
sforzo dell’altro, ma - se lo mette nella prospettiva
escatologica - alla fine dei tempi, dovremo essere o
tutti da una parte o tutti dall’altra. Allora, il tema
fondamentale, la provocazione che abbiamo in questo
momento è che dobbiamo cercare di capire a che cosa
serva e in che modo possa essere fatto il dialogo.
Perché fino a poco tempo fa, malgrado le enormi
difficoltà che esistevano, il dialogo ebraico -
cristiano era semplicissimo: gli ebrei chiedevano
rispetto, chiedevano di farla finita con l’insegnamento
del disprezzo, ecc… Questi obiettivi non sono stati
ancora realizzati, ma sono stati fatti enormi progressi;
siamo entrati in una nuova fase nella quale il punto
interrogativo, il tema fondamentale, è quello di capire
a che cosa possa servire il dialogo. Certamente il
dialogo deve servire per evitare di mostrare al mondo il
pessimo spettacolo rappresentato fino a qualche decennio
fa, dove coloro che ritenevano di essere rappresentanti
dello spirito della crescita dell’uomo facevano il
possibile per disprezzare l’altro. Non possiamo più
permetterci di mostrare al mondo questo spettacolo
terribile, dobbiamo essere, insieme, uno spettacolo
edificante. Ma che cos’è che possiamo fare? Perché
nel dialogo stiamo arrivando - ed è molto positivo - a
forme di rispetto sostanziale dell’altro che ci fanno
conoscere i mondi, ma al di là del rispetto esiste la
teologia e la teologia può essere cambiata? Abbiamo
notato che ci sono stati progressi teologici
significativi nella visione dell’ebraismo da parte
della teologia cristiana. Il documento sulle Scritture
ebraiche dà importanza all’esegesi rabbinica, cosa
che non era mai stata fatta in precedenza, quasi a dire
che l’esegesi rabbinica della Bibbia ha acquistato un
valore teologico, entro certi limiti. Ci si può
aspettare una reciprocità sul piano teologico? Come a
dire: noi abbiamo concesso questo, voi adesso concedete
qualcos’altro? Questo è uno dei nodi più terribili e
probabilmente la reciprocità sul piano teologico non
esiste perché ciascuna teologia procede con il suo modo
di ragionare e la discussione teologica non è quella
dei politici che stanno intorno a un tavolo e dicono:
“ io ti do dieci Km di terra” o “metto la mia
ambasciata qua piuttosto che là”. Tra politici si
può discutere e si deve arrivare ad una soluzione, tra
teologi è già qualche cosa se non ci si ammazza! Ma le
concessioni sono cose molto difficili e questa
reciprocità mancata è in qualche modo il prodotto del
fatto che il legame che unisce ebraismo e cristianesimo,
un legame esclusivo che non esiste tra altre fedi, è un
legame assolutamente asimmetrico, dovuto proprio dal
tipo di evoluzione storica - il cristianesimo nasce dall’ebraismo
e non viceversa - il cristianesimo con notevoli sforzi
può introiettare dentro di sé e considerare parte
della sua spiritualità la concezione del mondo ebraico,
ma non è altrettanto così per l’ebraismo. Quindi il
nostro rapporto è differente. Oggi le domande che sto
facendo sono in realtà più verso l’ebraismo che
verso il cristianesimo, ma il tema di questa ‘spalla a
spalla’, di questa ‘unica spalla’, è veramente un
enorme punto interrogativo, per il quale trovare una
risposta è estremamente difficile e nel quale bisogna
sforzarsi con molta determinazione a capire qual è il
limite da porre a questo ideale e in che modo questo
ideale possa essere veramente interpretato oggi”.
S.
E. Mons. Rino Fisichella:
torna
su
“Ringrazio
il Rav Di Segni per questa non soltanto profonda esegesi
del testo di Sofonia, ma anche per le suggestive
provocazioni che nascono dalle domande poste alla fine.
Domande poste a tutti. Una domanda la si pone perché si
vuole un’intelligenza ulteriore. È anche vero che
le domande richiedono delle risposte, quelle che insieme
permettono di poter tendere verso un’unità o verso
una verità ancora più profonda che sarà sempre, nella
storia di tutti, una tappa per poter andare oltre. In
questo clima di domanda, di tentativo di andare sempre
più in profondità nella Parola di Dio, do la parola al
Prof. Odasso perché c’è anche una lettura diversa.
Giustamente il Rav Di Segni diceva che quando si fa l’esegesi
ci sono punti di partenza che sono differenti e l’esegeta
cattolico legge la Scrittura con le pre-comprensioni
della fede che lo fanno riportare tutto a Gesù di
Nazareth. Quindi in ogni caso c’è un punto di
partenza che può essere complementare per noi, per
andare ancora più in profondità al testo di Sofonia”.
Prof.
Giovanni Odasso: torna
su
“Ringrazio
di cuore S. E. Mons. Rino Fisichella per l’invito
rivoltomi, che mi concede di riflettere insieme con voi,
in questa XV Giornata di Amicizia e di Dialogo fra Ebrei
e Cristiani. L’intervento del Rabbino Capo della
Comunità Ebraica di Roma ha permesso a noi tutti di
avvicinarci alla ricchezza della tradizione ebraica e,
in particolare, alla suggestiva profondità dell’esegesi
rabbinica. Insieme alle domande finali, che
costituiscono un motivo di comune riflessione, le parole
di Rav Di Segni mostrano che i testi della Scrittura,
lungi dall’essere aridi documenti di un museo
inaccessibile, possono essere parola viva che irrompe,
con la sua energia vitale, nell’attualità della
nostra fede e illumina il cammino della nostra speranza.
Il mio
intervento si svolge in tre momenti. Nel primo si
richiama l’indole dei detti profetici contenuti nel
libro di Sofonia, come premessa necessaria per
comprendere il versetto che costituisce il tema di
questa Giornata. Successivamente si analizza il versetto
di Sof 3,9. Infine si delineano alcune possibili
conseguenze. La riflessione, qui sviluppata, intende
muoversi nell’orizzonte di una comprensione
esegetico-scientifica del testo biblico, pur essendo
evidente che, nella luce del NT, il cristiano può
cogliere delle correlazioni cristologiche che, come già
rilevava Rav di Segni, non possono essere condivise da
chi ha la fede ebraica.
Il libro
di Sofonia è costituito solo da 53 versetti,
distribuiti in tre capitoli. Tuttavia, questo “microcosmo
profetico” (W. Dietrich) contiene gli elementi
fondamentali sviluppati nella profezia biblica. In
concreto vi si incontrano detti di sventura contro il
popolo del Signore, detti di sventura contro gli altri
popoli, infine detti di salvezza per Israele.
Già nel
primo capitolo risuona un detto di sventura che annuncia
il giudizio del Signore contro il suo popolo:
“Stenderò
la mano su Giuda, su tutti gli abitanti di
Gerusalemme,
sterminerò da questo luogo gli avanzi di Baal
e il nome stesso dei suoi falsi sacerdoti […]
quelli che si allontanano dal seguire il Signore,
che non cercano né si curano di lui” (cf. 1,4-6).
Segue,
poco dopo, la celebre descrizione del giorno del Signore
che delinea l’intervento escatologico di Dio contro
tutte le genti:
«Giorno
d’ira quel giorno
Giorno di angoscia e di afflizione,
giorno di rovina e di sterminio,
giorno di tenebre e di caligine
giorno di nubi e di oscurità» (1,15)
La
descrizione, alla quale si ispirò l’autore della
sequenza “Dies irae dies illa”, si conclude
prospettando una catastrofe dalle dimensioni universali
e cosmiche:
«Nel
giorno dell’ira del Signore,
e al fuoco della sua gelosia,
tutta la terra sarà consumata,
poiché farà improvvisa distruzione
di tutti gli abitanti della terra (1,18).
Quest’ultima
descrizione si connette a quella iniziale dei vv. 2-3 e
forma con essa una cornice letteraria all’intero
capitolo. Il giudizio di Israele si trova al centro dell’intervento
divino e si comprende nell’orizzonte cosmico del
giudizio escatologico.
Ai detti
di giudizio, contro il popolo del Signore e contro le
genti, si contrappone la raccolta dei detti di salvezza.
Tra questi spicca la promessa che si incontra nel
capitolo 3:
«Farò
restare in mezzo a te
un popolo umile e povero;
si rifugerà nel Nome di JHWH
il resto di Israele» (vv. 12-13a).
È noto
che questa promessa, attraverso la versione della LXX (“popolo
mite e umile”), è richiamata nel Vangelo di Matteo
per presentare Gesù che, realizza la spiritualità
degli “anawim” in modo esemplare per i suoi
discepoli: “imparate da me che sono mite e umile di
cuore” (cf. Mt 11,29). La portata salvifica del detto
appare nell’invito alla gioia escatologica che
caratterizzerà l’esistenza del popolo rinnovato dall’amore
di JHWH che, con la sua presenza vittoriosa, si
manifesta Re e Salvatore:
«Rallegrati,
figlia di Sion, esulta Israele,
gioisci con tutto il cuore figlia di Gerusalemme!
ha revocato la tua condanna,
ha disperso il tuo nemico.
Re d’Israele è
in mezzo a te,
tu non vedrai più la sventura» (vv. 14-15).
I tre
tipi di detti (annuncio della sventura per Israele, per
le genti; annuncio della salvezza per il popolo del
Signore) svolgono un ruolo importante anche nella
struttura redazionale del libro di Isaia, di Geremia
(secondo il testo greco) e di Ezechiele. In questi libri
profetici i detti di giudizio contro Israele sono posti
all’inizio dell’opera; seguono i detti contro le
genti e, infine, i detti di salvezza del popolo del
Signore. Gli studiosi hanno visto in una simile
struttura l’espressione di una concezione escatologica
che si andò sviluppando dopo l’esilio, in particolare
sotto l’impulso della teologia deuteronomistica. Le
sventure, che la Parola divina minacciava a Israele per
la sua infedeltà all’alleanza, si sono realizzate con
l’esilio. Esse ora riguardano soltanto le potenze che
hanno oppresso o opprimeranno il popolo di JHWH. Il
futuro, che il Signore dischiude al suo popolo, è ormai
quello della benedizione nell’alleanza rinnovata (cf.
Dt 30,1-14).
Questi
rilievi preliminari, necessari per comprendere il
contesto generale nel quale si situa il versetto di
Sofonia, offrono una testimonianza preziosa della
profondità raggiunta dalla fede di Israele. Una
domanda, però, si impone: l’annuncio della sventura
che incombe sulle genti è forse l’unica prospettiva
presente nella tradizione biblica? Non è possibile un
futuro di salvezza anche per le genti? Il testo sul
quale riflettiamo offre una risposta positiva a questo
interrogativo.
È utile
anzitutto presentare il testo di Sof 3,9 con una
traduzione che si richiama direttamente al testo
originale:
«Allora
io trasformerò i popoli con un labbro puro (1)
perché tutti proclamino il nome di JHWH
e lo servano con un’unica spalla».
L’indicazione
temporale (“allora”) connette questo detto di
salvezza delle genti al versetto che precede, nel quale
si annuncia il giudizio di Dio che riversa la sua ira
non solo su Gerusalemme, ma su tutte le genti e su tutti
i regni, come risulta dall’espressione “dal fuoco
della gelosia del Signore sarà consumata tutta la terra”
(cf.1,18). Mediante il giudizio delle genti, il testo lo
insinua chiaramente, JHWH persegue un solo obiettivo:
che Israele tema il suo Dio. Il giudizio delle genti
appare, dunque, come una tappa orientata all’irruzione
della salvezza escatologica, quando il popolo di JHWH
non dovrà più arrossire per le sue precedenti
infedeltà e vivrà nella gioia della presenza salvifica
del suo Dio (cf. Sof 3,11).
Il fatto
che, mediante l’avverbio “allora” del v. 9, la
promessa della salvezza delle genti sia connessa
esplicitamente all’annuncio del loro giudizio ha un’importanza
decisiva. In questo modo, infatti, si afferma che il
giudizio delle genti è orientato alla salvezza
escatologica non solo del popolo del Signore, ma di
tutti i popoli.
La
condizione salvifica futura è indicata con un’espressione
che è difficile tradurre proprio per la densità della
sua formulazione. Solitamente il testo è reso in questo
modo: “allora io darò ai popoli un labbro puro”. Il
verbo ebraico, però, non è natan, dare, ma haphak.
Si tratta di un verbo che significa voltare, rovesciare,
trasformare. Esso ricorre, p. es., per descrivere
plasticamente la distruzione di Sodoma e Gomorra,
indicandone la loro completa rovina. In altri casi il
verbo connota la trasformazione totale che segna la fine
di una situazione presente e l’ingresso in una futura,
radicalmente nuova. Con questo significato il verbo può
presentarsi con un valore salvifico, come avviene nella
promessa di Ger 31,13:
«Allora
si allieterà la vergine danzando,
i giovani e gli anziani gioiranno.
Io trasformerò il loro lutto in gioia,
li consolerò e li renderò felici senza
afflizioni».
In questa
linea occorre comprendere il verbo haphak nel
testo di Sofonia. JHWH stesso compie la totale
trasformazione dei popoli. L’orizzonte della salvezza
escatologica, che qui si intravede, è luminoso e ricco.
In anni passati una simile concezione appariva così
diversa dall’idea dell’AT, quale si era sviluppata
nella cristianità occidentale, da indurre alcuni
critici a ritenere il testo corrotto e a suggerire di
leggere, invece del plurale “ammim” (popoli), la
forma singolare “ammi” (mio popolo). Ne risultava il
seguente testo: «io darò al mio popolo (non: ai
popoli!) un labbro puro». Si tratta ovviamente di un’ipotesi
destituita di qualsiasi fondamento scientifico. In
questa sede meritava di essere richiamata unicamente
perché il suo ricordo è una prova di quanto gli
orizzonti culturali e teologici possano condizionare l’uomo
e impedirgli di cogliere, in tutta la sua energia
profetica, il messaggio della Parola di Dio.
La
trasformazione salvifica, operata da Dio per tutti i
popoli, è qui indicata con il dono di un labbro “puro”
(o “chiaro”). Il termine ebraico, tradotto con “puro”,
è “berurah”. Si tratta di un vocabolo che
appartiene allo stesso campo semantico di “tahar”,
vocabolo che, nella sua accezione letterale, denota la
purità rituale. “Puro”, secondo il significato
letterale, rituale, del termine, è il fedele che può
legittimamente partecipare alle azioni cultuali e quindi
esprimere, mediante l’offerta del sacrificio, la
certezza di essere innalzato alla comunione con JHWH. In
senso traslato il vocabolo tahar, puro, indica la
condizione del singolo e di tutto il popolo che, essendo
fedele all’alleanza, vive nella comunione con il suo
Dio, comunione che è simbolicamente significata nel
culto. Proprio questo significato salvifico risuona
nella nota pagina di Ez 36,16-28, dove JHWH annuncia di
radunare il suo popolo, di purificarlo, donandogli un
cuore nuovo e uno spirito nuovo, ponendo in lui il suo
stesso Spirito. Questo senso teologico illumina il libro
del Levitico che mira a portare il popolo ad essere
purificato e quindi nella condizione di diventare ciò
che il Signore stesso richiede: «Siate santi, perché
io JHWH, vostro Dio, sono santo» (Lv 19,2).
Il testo
di Sofonia, l’abbiamo detto, non usa il termine che
contiene la radice tahar, ma un sinonimo, formato
con la radice barar. Il significato specifico di
questo termine è di indicare la condizione di chi è
“puro” non tanto secondo la denotazione rituale, ma
più specificamente secondo la connotazione
esistenziale, teologica. Così il Salmo 24, alla domanda
di chi salirà il monte del Signore risponde con la
seguente indicazione:
Chi
ha mani innocenti e il cuore puro,
chi non pronunzia menzogna,
chi non giura a danno del suo popolo”.
Una
conseguenza si va delineando chiaramente: Dio
trasformerà i popoli donando loro un labbro “puro”.
L’affermazione di Sof 3,9 è simile, nel suo
significato, a quella di 3,13, dove si descrive il
popolo escatologico di Sion, che si rifugerà nel Nome
del Signore, affermando: “Non commetteranno più
iniquità e non proferiranno menzogna, non si troverà
più nella loro bocca una lingua fraudolenta”. La
trasformazione, prospettata dal testo che esaminiamo,
orienta quindi a un futuro nel quale non solo Israele,
ma anche i popoli saranno liberati dall’iniquità e
dalla menzogna, dalla violenza e dall’inganno.
La
seconda parte del versetto 9 conferma questa interpretazione.
Trasformati dall’intervento salvifico divino, i popoli
proclameranno il Nome di
e lo serviranno “con una sola spalla”. Il sintagma “proclamare il Nome di” traduce l’espressione ebraica qara’
beshem. L’espressione ricorre talvolta in un
contesto di supplica e questo fatto ha favorito la
traduzione “invocare il Nome del Signore”, che
risulta appropriata solo in un contesto specifico di
supplica. Il più delle volte, infatti, il sintagma
significa proclamare il nome del Signore, riconoscerlo,
come Dio e salvatore, nella lode e nel ringraziamento.
A questo
riguardo sono illuminanti i testi della Genesi. In Gn
4,26 si afferma che a Set nacque un figlio che egli
chiamò Enos. Allora si cominciò a proclamare il Nome
di JHWH. L’espressione qui denota la fede che porta l’uomo
a vivere in relazione con JHWH mediante la confessione,
la lode il ringraziamento e la proclamazione del suo
Nome.
In Gn
12,8 si incontra Abramo. Dopo la vocazione, che lo rende
strumento della benedizione divina a tutte le famiglie
della terra, il patriarca costruisce un altare e
proclama il Nome di JHWH. Come risulta da Gn 13,8 non si
tratta di un’azione passeggera, ma di una realtà
permanente: la fondazione del culto a JHWH in quel
luogo.
Lo stesso
evento si verifica a Bersabea come risulta da Gn 21,33,
il versetto che precede immediatamente il racconto dell’Aqedah
di Isacco. La confessione del Nome di JHWH, che ha la
sua espressione visibile nel culto, guida il credente ad
ascoltare la voce del Signore in tutte le dimensioni
dell’esistenza umana, perché questa sia “sacrificio”
gradito a Dio e quindi sia innalzata alla comunione con
il Signore.
La
ricchezza semantica di questa espressione appare, in
modo speciale, in Gn 26. A Bersabea Isacco costruisce l’altare
e proclama il Nome di JHWH, dopo che questi gli si è
manifestato assicurandogli la sua presenza salvifica e l’adempimento
della promessa della benedizione e della discendenza:
Io
sono il Dio di Abramo tuo padre
Non temere perché io sono con te
Ti benedirò e moltiplicherò la tua discendenza
Dall’insieme
dei testi risulta che l’espressione è connessa con la
confessione del Signore in quanto è il Dio che si
manifesta con la potenza della sua promessa
(discendenza, vita, benedizione) e con la sicurezza
della sua fedeltà. In definitiva, la proclamazione del
Nome del Signore si fonda sulla manifestazione del
Signore che dischiude un futuro di vita per il suo
popolo e per l’intera umanità.
Questa
prospettiva è confermata e approfondita dai testi di Es
33,19 e 34,5. Il popolo liberato dall’Egitto si è
prostrato davanti al vitello d’oro, ponendosi in
questo modo nell’ambito della non salvezza: “Lascia
che distrugga questo popolo di te farò una grande
nazione” (Es 32,10). L’intercessione di Mosè,
narrata con un profondo intento teologico ottiene dal
Signore il perdono e con esso il dono della vita per il
popolo, che sarà nuovamente guidato dal suo Dio verso
il futuro della libertà promessa. In questo contesto,
la pagina di Es 34, che narra il rinnovamento dell’alleanza,
pone la proclamazione del Nome del Signore in bocca al
Signore stesso:
«,
Dio pieno di tenerezza e propizio
Lento all’ira
E immenso nell’amore e nella fedeltà» (Es 34,6)
Questo
testo, fondamentale all’interno del libro dell’Esodo
e di tutta la Torah, mostra che il popolo, proclamando
il Nome di JHWH, si pone in profonda sintonia con la
stessa automanifestazione del Signore, con la sua
Parola, con la sua salvezza. La proclamazione del Nome
del Signore, che avviene nell’esperienza del perdono,
implica la liberazione dalla maledizione e dalla morte e
confessa il dono della benedizione e della vita.
Nell’orizzonte
teologico appena delineato si comprende che la
proclamazione del Nome di JHWH costituisce la
caratteristica propria del sacrificio della “todah”,
nel quale il fedele, liberato da un grave pericolo di
morte, ringrazia JHWH che ha esaudito la sua preghiera e
gli concede nuovamente di camminare “nella terra dei
viventi”. L’orante, liberato dalla morte, alla
domanda «Che cosa renderò al Signore per tutto quello
che mi ha dato?» risponde: «Alzerò il calice della
salvezza e proclamerò il Nome del Signore». (Sal
117,13). Nel sacrificio todah proclamare il Nome
di JHWH significa confessare che egli è il Dio che
libera dalla morte. Quando, nella tradizione di Israele,
si sviluppò la fede nella risurrezione, si comprese che
la vera todah non è quella celebrata in questo
mondo, ma quella che si celebrerà nel mondo che deve
venire, quando Dio, con la risurrezione di “coloro che
scendono nella polvere”, avrà realizzato la
definitiva liberazione dalla morte. Questa prospettiva
si trova affermata esplicitamente nella tradizione
rabbinica: «Nell’età ventura cesseranno tutti i
sacrifici, ma il sacrificio todah non cesserà in
eterno; anche tutti i canti cesseranno, ma i canti todah
non cesseranno in eterno» (Pesiqta 79a)
La
conoscenza del ricco significato dell’espressione “qara’
beshem JHWH” è indispensabile alla comprensione
di Sof 3,9. Dio trasforma i popoli così che essi
possano proclamare il suo Nome. Nel futuro, delineato
dall’orizzonte escatologico di questo testo, tutti i
popoli confesseranno, insieme a Israele, JHWH, il Dio
fedele, che libera dalla morte e dischiude il sentiero
della vita. Questa interpretazione è confermata dal
fatto che il sintagma «perché proclamino il Nome di
JHWH» è parallela all’espressione «e lo servano “con
una sola spalla”».
La
locuzione “servire il Signore” è una formulazione
del comandamento fondamentale. Il significato
esistenziale di questa espressione appare nella pagina
teologica di Gs 24, dove Israele rinuncia a servire gli
dei per vivere perennemente nell’alleanza con JHWH. In
particolare, il verbo “servire” sottolinea che l’orientamento
totale, esclusivo e permanente al Signore pone il popolo
nella condizione di realizzare il disegno salvifico del
suo Dio e di testimoniare questo disegno in mezzo alle
genti. E’ noto che l’espressione “i servi del
Faraone” non indica i suoi schiavi, ma connota i suoi
ministri, coloro che più direttamente sono coinvolti
nell’attuazione del programma del suo governo.
Analogamente il titolo “servo del Signore”
sottolinea che Israele vive nella salvezza divina ed è
testimone del disegno salvifico di JHWH in mezzo alle
genti. La connessione tra “servire” e “testimoniare”
appare esplicitamente in Is 43,10: «Voi siete miei
testimoni - detto di JHWH - miei servi che io mi sono
scelto perché mi conosciate e crediate in me e
comprendiate che sono proprio io». Questo testo mette
in luce che l’essere servo di JHWH significa non solo
conoscerlo, credere in lui comprendendo profeticamente
il suo disegno e la sua Parola, ma anche essere
testimoni di lui, del suo disegno, della sua salvezza.
In questo
contesto la ricca portata del detto profetico di Sofonia
si delinea con sempre maggiore chiarezza e al tempo
stesso lascia intuire le sue inesauribili virtualità.
Nel futuro, descritto dal testo profetico, Dio
trasformerà i popoli in modo che proclamino il suo Nome
e lo servano: lo conoscano, credano in lui e siano suoi
testimoni.
In Sof
3,9 il sintagma “servire il Signore” è specificato
dalla locuzione “con una sola spalla”. Si tratta di
un’espressione che ricorre unicamente in questo testo
(il testo di Gn 48,22 non è pertinente) e che alcuni
traducono, piuttosto liberamente, “appoggiandosi
spalla a spalla”. Il linguaggio simbolico richiama l’immagine
dei portatori che trasportano un determinato carico
sulle proprie spalle. Nella Bibbia può essere
illuminante la frase di Nm 7,9 dove si presenta una
famiglia di leviti, i figli di Keat, che erano
incaricati del servizio degli oggetti sacri. I Keatiti
non potevano trasportare questi oggetti su carri, ma
dovevano portarli sulle loro spalle.
La
peculiarità di Sof 3,9 è che i popoli portano
concordemente, unendo insieme le loro forze, l’unico
carico del servizio di JHWH. Nell’orizzonte simbolico
teologico di questo versetto ciò significa che tutti i
popoli, insieme a Israele, saranno nella condizione
salvifica di “servire JHWH” e assumeranno questa
missione in una sincera e concorde comunione di vita
nella fedeltà all’alleanza con il Signore. Essi,
quindi, porteranno insieme a Israele, popolo santo, il
servizio di JHWH, la fede in Lui, la testimonianza del
suo disegno, la proclamazione del suo Nome. Essi
porteranno i doni propri della celebrazione cultuale (cf.
Sof 3,10; Is 18,7; 19,21), il dono di celebrare la Todah
nella proclamazione del Dio che ha fatto trionfare la
potenza della vita sulla forze sterminatrice della
morte, ha fatto trionfare la vita nella giustizia, nel
diritto, nell’amore e nella tenerezza sulle opere dell’ingiustizia
della violenza, dell’odio e dell’insensibilità.
In
sintesi, Israele e le genti porteranno insieme la Parola
di JHWH. Proprio questo aspetto, ci sembra, è
sottolineato dalla traduzione della LXX: «e lo servano
tutti sotto lo stesso giogo», espressione che, alla
luce di Ger 2,20 indica l’accoglienza della Parola e,
attraverso essa, la comunione con JHWH, sviluppata in un
itinerario di costante ricerca nella fede.
Questo
messaggio nella Scrittura non è una voce isolata. L’orizzonte
di Sof 3,9 si percepisce con forza nella pericope di Is
2,2-5 che è presente con leggere varianti anche nel
libro dei Dodici profeti (Mic 4,1-5): la moltitudine dei
popoli sale pellegrinante al monte di JHWH perché da
Sion uscirà la Torah, la Parola di JHWH. Analoga
prospettiva si incontra nella pagina teologica di Is
19,16-25, dove l’Egiziano e l’Assiro sono raggiunti,
insieme a Israele, dalla benedizione divina, e nel
messaggio escatologico di Is 25,6-8 dove si. presenta
JHWH che prepara per tutti i popoli il banchetto dell’alleanza
nell’esperienza della piena liberazione. L’espressione
“JHWH eliminerà la morte per sempre” ci testimonia
che questa pagina è stata riletta come annuncio del
banchetto nel mondo della risurrezione ed è quindi una
preziosa testimonianza che gli annunci escatologici
furono compresi nell’orizzonte proprio della fede
nella risurrezione (cf. Sal 22,28).
La
visione dischiusa da Sof 3,9, con la ricchezza del
messaggio escatologico che contiene, offre dei preziosi
orientamenti che interpellano anche la Chiesa.
Il testo
di Sofonia, in sintonia con la tradizione biblica,
orienta a vedere tutta l’umanità inclusa nel disegno
salvifico di Dio. Questo orizzonte illumina, con la
ricchezza delle Sante Scritture, la connessione “teologica”
che unisce in modo speciale la Chiesa a Israele. Questo
rapporto è chiamato ad esprimersi, a livello
storico-esistenziale, in un cammino concorde nella
realtà di un rispetto reciproco e nel coraggio di un
dialogo autentico. La Chiesa del NT ha nutrito, mediante
le Scritture, la propria fede nel Dio che ha adempiuto
le sue promesse con la risurrezione del Cristo. Il
cammino del dialogo autentico si percorre quando si
lavora insieme nella conoscenza e nella comprensione
delle Sante Scritture.
In una
prospettiva cristiana i testi come quelli di Sof 3,9
richiedono che sia tenuta sempre viva la consapevolezza
del rapporto dialettico tra il “già” e il “non
ancora”. La concretezza del “non ancora” libera da
ogni illusione trionfalistica e rende la comunità
cristiana pellegrina nella storia insieme a tutta l’umanità.
Senza dubbio la fede nel Cristo risorto assicura i
cristiani della loro trasformazione che li abilita a
proclamare il Nome del Signore e ad essere suoi servi e
testimoni. Tuttavia la nostra confessione del Signore e
il nostro essere suoi servi non sono ancora realizzati
in quella pienezza definitiva, che è propria del Regno
eterno, e non lo saranno mai all’interno della storia
umana. Nel pellegrinaggio noi, come cristiani, abbiamo
molto da imparare da ogni uomo, in particolare molto
possiamo imparare dall’esperienza di fede dei nostri
“fratelli maggiori”, dalla loro conoscenza vitale
delle Sante Scritture. Sotto questo profilo le loro
domande sono anche le nostre.
Una luce
particolare, in questo contesto, ci è data da Is 25,9.
Nel giorno in cui il Signore eliminerà la morte per
sempre, si proclamerà: «Ecco il nostro Dio: in lui
abbiamo sperato, perché ci salvasse; questi è JHWH,
nel quale abbiamo sperato: rallegriamoci, esultiamo per
la sua salvezza». La speranza nel Dio “pieno di
tenerezza e propizio, lento all’ira e immenso nell’amore
e nella fedeltà” (cf. Es 34,6) non potrebbe diventare
l’energia profonda del nostro “servire il Signore
con un’unica spalla”? La speranza, anzitutto,
implica la consapevolezza che il “già” della
salvezza non ha ancora raggiunto la sua pienezza
definitiva in Dio. Nel contempo, però, essa, pur
guardando al “non ancora” come al limite che è
realmente presente nell’uomo, rende sempre possibile,
nell’orizzonte della fede, la certezza che esso sarà
definitivamente superato dalla vittoria del Dio fedele,
dalla sua salvezza. In ogni itinerario di dialogo
autentico si anticipa qualcosa del canto futuro, si
anticipa la confessione della fede che matura
profeticamente nella speranza: “Ecco il nostro Dio”.
___________________
(1)
O anche "con un labbro chiaro"
S.
E. Mons. Rino Fisichella:
torna
su
“Ringraziamo
il prof. Odasso. Abbiamo avuto, direi, una lettura
complementare con delle accentuazioni differenti.
Abbiamo sempre piacere che questi momenti siano di
riflessione culturale, ma anche di provocazione e di
spiritualità. Quando si è davanti alla Parola di Dio,
due specialisti riescono sempre ex abundantia cordis a
far parlare il testo secondo le diverse tradizioni e
penso che abbiamo imparato ancora tanto questa sera. Da
parte mia un ringraziamento al Rav Di Segni, al Prof.
Odasso e a tutti coloro che hanno partecipato a questo
momento.
Gli
interrogativi che ci hanno lasciato i relatori rimangono
tali, ma a noi rimane l’impegno, giorno dopo giorno,
di costruire sempre di più la nostra fraternità, la
nostra amicizia e di guardare a quel Signore che si è
rivelato e ci ha donato la sua salvezza”.
Roma, 15 gennaio 2004
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