SOLENNITÀ DEI SANTI
APOSTOLI PIETRO E PAOLO
OMELIA
DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
Mercoledì, 29 giugno 2005
La Solennità di Pietro e Paolo, festa
dell’unità della Chiesa, afferma il Papa. E dà il benvenuto, con
anticipo, ad una delegazione del Patriarcato di Costantinopoli. [cfr.,
sul sito solennità 2004]. Il Papa agli Ortodossi: ci dividono
l'interpretazione e la portata del ministero petrino, ma sono molte le
cose che ci uniscono. Dopo l’Angelus, il Papa ha pranzato alla Domus
Sanctae Marthae con i membri della delegazione ecumenica inviata
dal Patriarca ecumenico Bartolomeo I, guidata dal metropolita Ioannis.
La festa dei santi Apostoli Pietro e Paolo
è insieme una grata memoria dei grandi testimoni di Gesù Cristo e
una solenne confessione in favore della Chiesa una, santa,
cattolica e apostolica. È anzitutto una festa della cattolicità.
Il segno della Pentecoste – la nuova comunità che parla in tutte le
lingue e unisce tutti i popoli in un unico popolo, in una famiglia di
Dio – è diventato realtà. La nostra assemblea liturgica, nella
quale sono riuniti Vescovi provenienti da tutte le parti del mondo,
persone di molteplici culture e nazioni, è un’immagine della
famiglia della Chiesa distribuita su tutta la terra. Stranieri sono
diventati amici; al di là di tutti i confini, ci riconosciamo
fratelli. Con ciò è portata a compimento la missione di san Paolo,
che sapeva di "essere liturgo di Gesù Cristo tra i pagani…
oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo" (Rm
15,16). Lo scopo della missione è un’umanità divenuta essa stessa
una glorificazione vivente di Dio, il culto vero che Dio s'aspetta: è
questo il senso più profondo di cattolicità – una cattolicità
che già ci è stata donata e verso la quale tuttavia dobbiamo sempre
di nuovo incamminarci. Cattolicità non esprime solo una
dimensione orizzontale, il raduno di molte persone nell’unità;
esprime anche una dimensione verticale: solo rivolgendo lo sguardo a
Dio, solo aprendoci a Lui noi possiamo diventare veramente una cosa
sola. Come Paolo, così anche Pietro venne a Roma, nella città che
era il luogo di convergenza di tutti i popoli e che proprio per questo
poteva diventare prima di ogni altra espressione dell’universalità
del Vangelo. Intraprendendo il viaggio da Gerusalemme a Roma, egli
sicuramente si sapeva guidato dalle voci dei profeti, dalla fede e
dalla preghiera d’Israele. Fa parte infatti anche dell’annuncio
dell’Antica Alleanza la missione verso tutto il mondo: il popolo di
Israele era destinato ad essere luce per le genti. Il grande salmo
della Passione, il salmo 21, il cui primo versetto "Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?" Gesù ha pronunciato sulla
croce, terminava con la visione: "Torneranno al Signore tutti i
confini della terra, si prostreranno davanti a Lui tutte le famiglie
dei popoli" (Sal 21,28). Quando Pietro e Paolo vennero a
Roma il Signore, che aveva iniziato quel salmo sulla croce, era
risuscitato; questa vittoria di Dio doveva ora essere annunciata a
tutti i popoli, compiendo così la promessa con la quale il salmo si
concludeva.
Cattolicità
significa universalità – molteplicità che diventa unità;
unità che rimane tuttavia molteplicità. Dalla parola di Paolo sulla universalità
della Chiesa abbiamo già visto che fa parte di questa unità
la capacità dei popoli di superare se stessi, per guardare verso
l’unico Dio. Il vero fondatore della teologia cattolica, sant'Ireneo
di Lione, ha espresso questo legame tra cattolicità e unità in modo
molto bello: "Questa dottrina e questa fede la Chiesa disseminata
in tutto il mondo custodisce diligentemente formando quasi un'unica
famiglia: la stessa fede con una sola anima e un solo cuore, la stessa
predicazione, insegnamento, tradizione come avesse una sola bocca.
Diverse sono le lingue secondo le regioni, ma unica e medesima è la
forza della tradizione. Le Chiese di Germania non hanno una fede o
tradizione diversa, come neppure quelle di Spagna, di Gallia, di
Egitto, di Libia, dell'Oriente, del centro della terra; come il sole
creatura di Dio è uno solo e identico in tutto il mondo, così la
luce della vera predicazione splende dovunque e illumina tutti gli
uomini che vogliono venire alla cognizione della verità" (Adv.
haer. I 10,2). L'unità degli uomini nella loro molteplicità
è diventata possibile perché Dio, questo unico Dio del cielo e della
terra, si è mostrato a noi; perché la verità essenziale sulla
nostra vita, sul nostro "di dove?" e "verso
dove?", è diventata visibile quando Egli si è mostrato a noi e
in Gesù Cristo ci ha fatto vedere il suo volto, se stesso. Questa
verità sull’essenza del nostro essere, sul nostro vivere e sul
nostro morire, verità che da Dio si è resa visibile, ci unisce e ci
fa diventare fratelli. Cattolicità e unità vanno
insieme. E l’unità ha un contenuto: la fede che gli Apostoli
ci hanno trasmesso da parte di Cristo.
Sono contento che ieri
– nella festa di sant'Ireneo e nella vigilia della solennità dei
santi Pietro e Paolo – ho potuto consegnare alla Chiesa una nuova
guida per la trasmissione della fede, che ci aiuta a meglio conoscere
e poi anche a meglio vivere la fede che ci unisce: il Compendio del
Catechismo della Chiesa Cattolica. Quello che nel grande
Catechismo, mediante le testimonianze dei santi di tutti i secoli e
con le riflessioni maturate nella teologia, è presentato in maniera
dettagliata, è qui ricapitolato nei suoi contenuti essenziali, che
sono poi da tradurre nel linguaggio quotidiano e da concretizzare
sempre di nuovo. Il libro è strutturato come colloquio in domande e
risposte; quattordici immagini associate ai vari campi della fede
invitano alla contemplazione e alla meditazione. Riassumono per così
dire in modo visibile ciò che la parola sviluppa nel dettaglio.
All’inizio c’è un’icona di Cristo del VI secolo, che si trova
sul monte Athos e rappresenta Cristo nella sua dignità di Signore
della terra, ma insieme come araldo del Vangelo, che porta in mano.
"Io sono colui che sono" – questo misterioso nome di Dio
proposto nell’Antica Alleanza – è riportato lì come suo nome
proprio: tutto ciò che esiste viene da Lui; Egli è la fonte
originaria di ogni essere. E perché è unico, è anche sempre
presente, è sempre vicino a noi e allo stesso tempo sempre ci
precede: come "indicatore" sulla via della nostra vita, anzi
essendo Egli stesso la via. Non si può leggere questo libro come si
legge un romanzo. Bisogna meditarlo con calma nelle sue singole parti
e permettere che il suo contenuto, mediante le immagini, penetri
nell’anima. Spero che sia accolto in questo modo e possa diventare
una buona guida nella trasmissione della fede.
Abbiamo detto che cattolicità
della Chiesa e unità della Chiesa vanno insieme. Il fatto che
entrambe le dimensioni si rendano visibili a noi nelle figure dei
santi Apostoli, ci indica già la caratteristica successiva della
Chiesa: essa è apostolica. Che cosa significa? Il Signore ha
istituito dodici Apostoli, così come dodici erano i figli di
Giacobbe, indicandoli con ciò come capostipiti del popolo di Dio che,
diventato ormai universale, da allora in poi comprende tutti i popoli.
San Marco ci dice che Gesù chiamò gli Apostoli perché
"stessero con lui e anche per mandarli" (Mc 3,14).
Sembra quasi una contraddizione. Noi diremmo: o stanno con lui o sono
mandati e si mettono in cammino. C'è una parola sugli angeli del
santo Papa Gregorio Magno che ci aiuta a sciogliere la contraddizione.
Egli dice che gli angeli sono sempre mandati e allo stesso tempo
sempre davanti a Dio: "Ovunque sono mandati, ovunque vanno,
camminano sempre nel seno di Dio" (Omelia 34,13).
L'Apocalisse ha qualificato i Vescovi come "angeli" della
loro Chiesa, e possiamo quindi fare questa applicazione: gli Apostoli
e i loro successori dovrebbero stare sempre con il loro Signore e
proprio così – ovunque vadano – essere sempre in comunione con
Lui e vivere di questa comunione.
La Chiesa è apostolica,
perché confessa la fede degli Apostoli e cerca di viverla. Vi è una
unicità che caratterizza i Dodici chiamati dal Signore, ma esiste
allo stesso tempo una continuità nella missione apostolica. San
Pietro nella sua prima lettera si è qualificato come "co-presbitero"
con i presbiteri ai quali scrive (5,1). E con ciò ha espresso il
principio della successione apostolica: lo stesso ministero che egli
aveva ricevuto dal Signore ora continua nella Chiesa grazie
all'ordinazione sacerdotale. La Parola di Dio non è soltanto scritta
ma, grazie ai testimoni che il Signore nel sacramento ha inserito nel
ministero apostolico, resta parola vivente. Così ora mi rivolgo a
Voi, cari confratelli Vescovi. vi saluto con affetto, insieme con i
vostri familiari e con i pellegrini delle rispettive Diocesi. Voi
state per ricevere il pallio dalle mani del Successore di Pietro.
L'abbiamo fatto benedire, come da Pietro stesso, ponendolo accanto
alla sua tomba. Ora esso è espressione della nostra comune
responsabilità davanti all’"arci-pastore" Gesù Cristo,
del quale parla Pietro (1 Pt 5,4). Il pallio è espressione
della nostra missione apostolica. È espressione della nostra
comunione, che nel ministero petrino ha la sua garanzia visibile. Con l'unità,
così come con l'apostolicità, è collegato il servizio
petrino, che riunisce visibilmente la Chiesa di tutte le parti e di
tutti i tempi, difendendo in tal modo ciascuno di noi dallo scivolare
in false autonomie, che troppo facilmente si trasformano in interne
particolarizzazioni della Chiesa e possono compromettere così la sua
indipendenza interna. Con questo non vogliamo dimenticare che il senso
di tutte le funzioni e ministeri è in fondo che "arriviamo tutti
all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato
di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di
Cristo", perché cresca il corpo di Cristo "in modo da
edificare se stesso nella carità" (Ef 4,13.16).
In questa prospettiva
saluto di cuore e con gratitudine la delegazione della Chiesa
ortodossa di Costantinopoli, che è inviata dal Patriarca ecumenico
Bartolomeo I, al quale rivolgo un cordiale pensiero. Guidata dal
Metropolita Ioannis, è venuta a questa nostra festa e partecipa alla
nostra celebrazione. Anche se ancora non concordiamo nella questione
dell'interpretazione e della portata del ministero petrino, stiamo però
insieme nella successione apostolica, siamo profondamente uniti gli
uni con gli altri per il ministero vescovile e per il sacramento del
sacerdozio e confessiamo insieme la fede degli Apostoli come ci è
donata nella Scrittura e come è interpretata nei grandi Concili. In
quest'ora del mondo piena di scetticismo e di dubbi, ma anche ricca di
desiderio di Dio, riconosciamo nuovamente la nostra missione comune di
testimoniare insieme Cristo Signore e, sulla base di quell'unità
che già ci è donata, di aiutare il mondo perché creda. E
supplichiamo il Signore con tutto il cuore perché ci guidi all'unità
piena in modo che lo splendore della verità, che sola può creare l'unità,
diventi di nuovo visibile nel mondo.
Il Vangelo di questo
giorno ci parla della confessione di san Pietro da cui ha avuto inizio
la Chiesa: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (Mt
16,16). Avendo parlato oggi della Chiesa una, cattolica
e apostolica, ma non ancora della Chiesa santa, vogliamo
ricordare in questo momento un'altra confessione di Pietro pronunciata
nel nome dei Dodici nell'ora del grande abbandono: "Noi abbiamo
creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio" (Gv
6,69). Che cosa significa? Gesù, nella grande preghiera sacerdotale,
dice di santificarsi per i discepoli, alludendo al sacrificio della
sua morte (Gv 17,19). Con questo Gesù esprime implicitamente
la sua funzione di vero Sommo Sacerdote che realizza il mistero del
"Giorno della Riconciliazione", non più soltanto nei riti
sostitutivi, ma nella concretezza del proprio corpo e sangue. La
parola "il Santo di Dio" nell'Antico Testamento indicava
Aronne come Sommo Sacerdote che aveva il compito di compiere la
santificazione d'Israele (Sal 105,16; vgl. Sir 45,6). La
confessione di Pietro in favore di Cristo, che egli dichiara il Santo
di Dio, sta nel contesto del discorso eucaristico, nel quale Gesù
annuncia il grande Giorno della Riconciliazione mediante l'offerta di
se stesso in sacrificio: "Il pane che io darò è la mia carne
per la vita del mondo" (Gv 6,51). Così, sullo sfondo di
questa confessione, sta il mistero sacerdotale di Gesù, il suo
sacrificio per tutti noi. La Chiesa non è santa da se stessa;
consiste infatti di peccatori – lo sappiamo e lo vediamo tutti.
Piuttosto, essa viene sempre di nuovo santificata dall’amore
purificatore di Cristo. Dio non solo ha parlato: ci ha amato molto
realisticamente, amato fino alla morte del proprio Figlio. È proprio
da qui che ci si mostra tutta la grandezza della rivelazione che ha
come iscritto nel cuore di Dio stesso le ferite. Allora ciascuno di
noi può dire personalmente con san Paolo: "Io vivo nella fede
del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal
2,20). Preghiamo il Signore perché la verità di questa parola si
imprima profondamente, con la sua gioia e la sua responsabilità, nel
nostro cuore; preghiamo perché irradiandosi dalla Celebrazione
eucaristica, essa diventi sempre di più la forza che plasma la nostra
vita.
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