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Romano Amerio è la risposta a
Enzo Bianchi
Francesco Agnoli
Sono reduce dalla lettura dell’ultimo libro di Enzo Bianchi, Per un’etica
condivisa (Einaudi), e non posso non riflettere sulla spaventosa distanza che
esiste tra il pensiero di questo famoso monaco mediatico e l’ortodossia
cattolica. L’errore di fondo, che inficia tutto il ragionamento di Bianchi, è
quell’ottimismo mondano che si è insinuato profondamente nel pensiero
ecclesiastico e cattolico nell’epoca del post Concilio. Mondano, intendo, perché
ignora o sminuisce del tutto l’esistenza del peccato. “Quando la Chiesa,
scriveva parecchi anni fa il Cardinal Journet al cardinal Siri, prenderà
coscienza sino a che punto lo spirito del mondo è penetrato dentro essa, si
spaventerà”.
Ma come è penetrato questa mentalità, di cui Bianchi è oggi uno dei massimi
alfieri? A mio modo di vedere all’epoca del Concilio, allorché in molti si
diffuse l’idea che col mondo, inteso in senso evangelico, occorresse trovare un
modus vivendi pacifico e conciliante, sempre e comunque. Bisognerebbe anzitutto
ritornare a quegli anni, per evitare di costruire leggende e miti come quelli
che piacciono ai vari Melloni, Mancuso e, appunto, a Enzo Bianchi: il concilio
non fu una pacifica e simpatica riunione di vescovi e periti, tutti in perfetto
accordo tra loro, ma fu una lotta dura, che vide la presenza di posizioni
problematiche e critiche, rispetto alla volontà di “aggiornamento” e
“innovazione”, di molti uomini di grande spessore, dal cardinal Siri, più volte
papabile, ai cardinali Ottaviani, Ruffini, Bacci, sino al Coetus Internationalis
patrum, formato da centinaia di padri conciliari, e raccolto intorno a mons.
Marcel Lefebvre.
I documenti conciliari sorsero dunque in mezzo alla tempesta, agli scontri,
talora veramente aspri, tra “conservatori” e “progressisti”, con correzioni,
emendamenti, e ambiguità, inevitabili laddove un documento nasca come
mediazione, come compromesso tra posizioni divergenti. A mio modo di vedere,
l’ambiguità più grande fu quella sull’atteggiamento da tenere, appunto, rispetto
al mondo, allo spirito moderno e alle sue filosofie. Il concilio volle essere
pastorale, e quindi soffermarsi proprio e soprattutto, in questo caso senza
godere dell’infallibilità, sui modi, le strategie, per una nuova
evangelizzazione, efficace e fruttuosa. Il principio guida, che fu indicato da
Giovanni XXIII, fu quello di utilizzare, rispetto alla “severità” del passato,
la “medicina della misericordia”.
Ci fu insomma un cambio di passo,
che Romano Amerio, oggi riscoperto e
finalmente ristampato da Fede & Cultura, commentò tra l’altro con queste
profetiche parole:
“Questo annuncio del principio della misericordia
contrapposto a quello della severità sorvola il fatto che, nella mente della
Chiesa, la condanna stessa dell'errore è opera di misericordia, poiché,
trafiggendo l'errore, si corregge l'errante e si preserva altrui dall'errore.
Inoltre verso l'errore non può esservi propriamente misericordia o severità,
perché queste sono virtù morali aventi per oggetto il prossimo, mentre
all'errore l'intelletto repugna con un atto logico che si oppone a un giudizio
falso. La misericordia essendo, secondo S. theol., II, II, q. 30, a. 1, dolore
della miseria altrui accompagnato dal desiderio di soccorrere, il metodo della
misericordia non si può usare verso l'errore, fatto logico in cui non vi può
essere miseria, ma soltanto verso l'errante, a cui si soccorre proponendo la
verità e confutando l'errore. Il Papa peraltro dimezza un tale soccorso, perché
restringe tutto l'officio esercitato dalla Chiesa verso l'errante alla sola
presentazione della verità: questa basterebbe per sé stessa, senza venire a
confronto con l'errore, a sfatare l'errore. L'operazione logica della
confutazione sarebbe omessa per dar luogo a una mera didascalia del vero,
fidando nell'efficacia di esso a produrre l'assenso dell'uomo e a distruggere
l'errore” (Romano Amerio, Iota unum, Fede & Cultura).
Questo brano magistrale mi sembra possa essere utile per far fronte anche oggi a
questo ottimismo mondano, che nasce all’interno del mondo cattolico, e che si
presenta con alcune caratteristiche costanti: la condanna più o meno aspra delle
decisioni e della pastorale della Chiesa del passato; il ripudio della
Tradizione e il tentativo di presentare il Vaticano II come una sorta di nuova
Pentecoste, di vero e proprio atto di nascita della cosiddetta “Chiesa
conciliare”. Ottimismo mondano di cui il citato Bianchi costituisce uno degli
esempi più solari, in quanto espressione di un tipo di cattolicesimo adulterato
che ritiene che l’essenziale sia raggiungere una posizione condivisa, una
mediazione, un punto di incontro, quale esso sia, tra la Verità di Cristo e le
posizioni, anticristiche, del mondo. Se analizziamo il libro citato ne troviamo
subito, nell’incipit, il significato di fondo: Bianchi vuole fare pulizia,
anzitutto all’interno del mondo cattolico, mettere i puntini sulle i, spiegare
quale debba essere il comportamento dei suoi fratelli di fede. Costoro, scrive
Bianchi, debbono smetterla di riunirsi in “gruppi di pressione (sic) in cui la
proposta della fede non avviene nella mitezza e nel rispetto dell’altro, per
diventare intransigenza e arrogante contrapposizione a una società giudicata
malsana e priva di valori”. La lettura del seguito fa capire bene il significato
di queste parole, del tutto simili a quelle di un Augias o di un Odifreddi: esse
sono una condanna chiara, anche se un po’ ipocrita nelle modalità, della
posizione della Chiesa e dei cattolici, riguardo al referendum sulla legge 40 e
alla questione dei pacs-dico.
Una condanna, in generale, di ogni tentativo legale e leale da parte dei
cattolici, e non solo, di affermare valori non negoziabili in politica. Bianchi
lo ripete più volte, spiegando quello che è ovvio, e cioè che “il futuro della
fede non dipende da leggi dello stato”, ma dimenticando che i cattolici, come
tutti gli altri cittadini, sono chiamati ad esprimere la loro visione di
società, qui e oggi, e non a ritirarsi nelle sagrestie. Il cattolicesimo che
Bianchi vorrebbe è invece insignificante e inesistente sul piano culturale e
politico, e finisce addirittura per delineare una religiosità amorfa, astratta,
spiritualista, che è lontanissima dall’idea originaria del cattolicesimo.
Ogni scontro e polemica attuale, ogni rinascita odierna dell’anticlericalismo,
continua il monaco, è sempre colpa dei credenti, “è sempre una reazione a un
clericalismo che si nutre di intransigenza, di posizioni difensive e di non
rispetto dell’interlocutore non cristiano”. A parte che non si capisce bene, a
leggere queste parole, a quale dibattito abbia assistito Bianchi in questi anni,
il punto centrale è un altro: nel togliere al cristianesimo la sua capacità di
incarnarsi nella realtà, per plasmarla concretamente, Bianchi finisce per negare
cittadinanza al cristianesimo stesso e per scegliere come punto di riferimento
assoluto e ingiudicabile, quasi metafisico, la Costituzione repubblicana. Da
essa deriverebbe, udite, udite, “l’assoluto diritto dello stato di legiferare su
tutte quelle realtà sociali fondate o meno sul matrimonio (sia religioso che
civile)”. “Diritto assoluto”, scrive Bianchi: una affermazione, a ben vedere,
che oggi, dopo l’esperienza delle statolatrie totalitarie, neppure il più
laicista tra i giuristi arriverebbe, almeno nella teoria, a sostenere. In tutto
il suo argomentare Bianchi annulla il concetto di Verità, affermando un
relativismo pieno; sostiene la perfetta equivalenza tra fede e ateismo (“l’uomo
può essere umanamente felice senza credere in Dio, così come può esserlo un
credente”); nega di fatto in più passaggi, con linguaggio equivoco, ma chiaro,
il primato petrino, a vantaggio del “primato del Vangelo”, e propone come unico
riferimento del suo argomentare, da buon protestante, solo e soltanto la bibbia,
la sua “lettura personale e diretta” (sic), etsi Ecclesia non daretur.
“Per un’etica condivisa” è appunto un inno ad un “modo”, ad uno “stile”, al
“come”, con cui i cristiani dovrebbero presentarsi oggi ai non credenti: un
modo, uno “stile”, inaugurato dal Concilio Vaticano II, che sarebbe “importante
quanto il messaggio”. Coerentemente, in tutto il libro manca, appunto, il
messaggio! Non vi è mai una affermazione chiara di una verità teologica o
morale: si parla di “etica condivisa”, si lanciano sfrecciatine piuttosto
velenose ai cattolici, al centro destra, a Berlusconi, a Maroni, a Mel Gibson, a
Ferrara, come fossero loro i problemi della cristianità, ma poi non si arriva
mai ai contenuti: tutto puro stile, buonismo a buon mercato, mai una parola, una
posizione, quale che sia, sulla clonazione, la fecondazione artificiale, le
famiglia, l’eutanasia, la sessualità, e tutti i problemi più scottanti
dell’etica odierna. Al massimo qualche vago riferimento alla pace, e un accenno,
velatissimo, per carità, alla 194, la legge che legalizza l’aborto, ricordando
però, anzitutto e soprattutto, che i cattolici dovrebbero rispettare ogni legge
nata dal “confronto democratico”, e proclamata, lo si ricordi, da quello Stato
che ha potere “assoluto” di vita e di morte.
A Bianchi sfugge, come avrebbe detto Amerio, che lo stile è questione
secondaria, nel senso che viene dopo, logicamente e non cronologicamente, perché
l’Amore procede dalla Verità, e non viceversa. Gli sfugge, inoltre, che il suo
irenismo indifferentista e relativista è stato già bollato da san Pio X,
allorché deprecava quanti alla sua epoca si adoperavano per un “adattamento ai
tempi in tutto, nel parlare, nello scrivere e nel predicare una carità senza
fede, tenera assai per i miscredenti”, all’apparenza, ma in realtà priva di vera
misericordia, perché spoglia di verità. A chi continuava a sponsorizzare una
“conciliazione della fede con lo spirito moderno”, Pio X indicava il crocifisso,
e ricordava che certe idee “conducono più lontano che non si pensi, non soltanto
all’affievolimento, ma alla perdita totale della fede”. Perché se io non fossi
un credente, e leggessi, per cercavi una parola di verità, il libro di Bianchi,
arriverei alla conclusione che la verità non esiste, e che la mia sete di verità
è roba da persone senza “stile”. Caro Bianchi, la verità, nella carità, mi dice
sempre un’amica pro life, ma: la verità, per carità! Questo è l’unico stile,
della Chiesa, di Cristo e del suo Evangelo, cioè della buona novella (vede che
la novella, il messaggio, è importante?)
(Il Foglio, 26 aprile 2009)
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