Il dibattito recentemente avviatosi a seguito (ed a commento)
della pubblicazione di due testi, uno di carattere storico (Roberto de Mattei,
Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino 2010) e
l’altro di carattere teologico (Brunero Gherardini,
Quod et tradidi vobis. La tradizione vita e giovinezza della Chiesa,
Casa Mariana, Frigento 2010), ha fatto emergere – accanto ad una diversità di
valutazioni – un problema centrale. Si tratta della questione della fondazione,
ovvero delle categorie intellettuali che reggono (e quindi sostanziano e
fondano) i giudizi. Una questione, come già si rileva di primo acchito, che
risulta decisiva e che offre l’opportunità per qualche riflessione, che
travalica la stessa occasione.Si tratta di una questione ineludibile per il
pensiero (e per il pensiero cattolico in ispecie). Potrebbe dirsi che la
questione preliminare che si pare profilarsi – come in casi analoghi, relativi,
ad esempio, alla dottrina sociale della Chiesa – è il problema epistemologico (e
con esso quello metodologico), precisando, però, che esso equivale,
essenzialmente, al problema del rapporto tra pensiero e realtà. Ciò che rileva,
in modo imprescindibile, anche allorché la realtà considerata è quella degli
avvenimenti storici (in ordine, quindi, alla storiografia) o quella di cui
trattano le verità della Rivelazione (in ordine, quindi, alla teologia).
Se il pensiero si pone di fronte alla realtà (quale che sia), in
atteggiamento contemplativo, mirando cioè a conoscerla in quanto è e per ciò che
è, esso mira a conoscere le cose e la loro essenza (o natura). Pensare in
termini di realtà è pensare in termini di verità. La verità null’altro è, se non
la realtà in quanto è conosciuta. Se, invece, il pensiero riduce la realtà ad
una sua rappresentazione, esso non conoscerà altro che la stessa
rappresentazione (propria o altrui). Se ridurrà la possibilità di conoscere le
cose alla formulazione di teorie che si inseguono e si contraddicono (nel
circuito medesimo in cui si danno) la realtà sarà in effetti identificata con un
modello teorico (svuotandosi del suo stesso essere).
In sostanza, come si rileva anche solo ad una prima riflessione, ogni
epistemologia (come ogni metodo) rimanda (implicitamente o esplicitamente) ad
una ontologia (ovvero ad una considerazione della realtà da conoscere). Pensare
una epistemologia, ovvero una prospettiva intellettuale (quale che sia) come
metafisicamente ed assiologicamente (cioè, quanto alla realtà ed al valore)
neutrale è impossibile. Ogni forma di pensiero presuppone un certo rapporto con
la realtà. Ed ogni conoscenza importa (direttamente o indirettamente) una
valutazione.
Ora, le diverse attitudini intellettuali che emergono nella contemporaneità
possono essenzialmente essere ricondotte a tre possibilità: il pensiero
operativo, il pensiero tipologico, il pensiero realistico (e teoretico). È
chiaro che ogni visione filosofica comporta la propria concezione del
significato della conoscenza. Ma in tal caso essa viene (più o meno ampiamente)
esplicitata. Mentre, in questo caso ci si riferisce ad atteggiamenti conoscitivi
spesso solo implicitamente assunti. Adottare l’uno, l’altro o l’altro ancora
(come qualsiasi altra attitudine intellettuale) per accostarsi ad un testo – di
storia, di teologia o di qualsiasi altra disciplina – non è affatto
indifferente. Dall’assunzione di una certa attitudine di pensiero –
prescindendo, ovviamente, da ogni valutazione delle intenzioni e senza alcuna
pretesa di dare giudizi sulle persone – dipende anche la considerazione nei
confronti dei testi (e delle tesi).
In questa prospettiva di riflessione, emerge, anzitutto, con chiarezza, una
questione di pertinenza: siccome si tratta, rispettivamente, di un testo storico
e di un testo teologico, le riflessioni e le valutazioni circa le argomentazioni
e le conclusioni di entrambi evidenziano la loro pertinenza se si collocano –
materialmente e formalmente – rispettivamente, sul piano storico e su quello
teologico. Nel primo caso, le questioni possono riguardare la genuinità e
probatività della documentazione ed il rigore argomentativo della ricostruzione.
Nel secondo caso, le questioni si possono riferire alla fondatezza – quanto alle
fonti della Rivelazione – ed alla correttezza (formale e sostanziale) delle
tesi, quanto all’esercizio della retta ragione, anzi della ratio manuducta
per fidem, e quindi dell’intellectus fidei. Diversamente, pretendere
di valutare un lavoro storico o teologico con categorie (e teorie) estranee a
tali discipline, finisce in sostanza per sovrapporre criteri estrinseci
all’indole (e quindi al contenuto) dei testi.
Venendo alla prima delle prospettive indicate, occorre dire che il pensiero
operativo è caratterizzato da una razionalità subordinata ad un obiettivo da
conseguire (nell’ordine della prassi). In questo senso ciò che dirige il
pensiero non è la realtà da conoscere (e da valutare) ma lo scopo da
raggiungere, la giustificazione (o la negazione) di una tesi o la modifica (in
qualsiasi direzione) di un certo stato di cose. Tale attitudine è quella propria
delle ideologie, ma si manifesta (obiettivamente, e con diversi gradi di
consapevolezza) tutte le volte che una certa prassi diventa il criterio di una
certa conoscenza (anche sorretto dalle migliori intenzioni). Ora, valutare un
complesso di tesi (in qualsiasi ambito di discorso) in termini di pensiero
operativo configura una opzione intellettuale che pregiudica in radice ogni
conclusione che ne deriva, giacché ciò che è dirimente non è in questo caso il
riconoscimento della realtà (e quindi la verità), ma il vantaggio o lo
svantaggio per questo o quel progetto, per questo o quel soggetto (individuale o
collettivo), per questa o quella opzione. Pensare in tal modo, in fondo,
significa, in fondo, sostituire all’indagine propria delle discipline la
preoccupazione del risultato da ottenere (“a favore”… o “contro”….).
D’altra parte il pensiero che può dirsi tipologico, riconduce l’esperienza
alla sua rappresentazione attraverso tipi, modelli, paradigmi. Essi attingono a
teorie, le quali – proprio in quanto tali – se mirano a ricondurre ad unità e
regolarità una determinata categoria di fatti, non mettono in discussione
teoreticamente (ovvero essenzialmente) le proprie premesse. Tale prospettiva
intellettuale si serve di generalizzazioni empiriche, in luogo di concetti (pur
se va ricordato che, in tal caso, i concetti o sono dati per presupposti, oppure
surrettiziamente le generalizzazioni empiriche vengono considerate “come se”
fossero concetti). Mentre i concetti pensano la realtà per ciò che è
essenzialmente, e non per ciò che di essa prevale empiricamente. Tale attitudine
è (esemplarmente) quella delle metodologie proprie della sociologia o della
psicologia. Queste discipline, come è noto, pongono attenzione all’esperienza
riconducendola al risultato dell’elaborazione di modelli, frutto della
applicazione delle metodiche stesse di tali analisi (su cui, come è ugualmente
noto, i loro cultori sono ben lungi dall’essere concordi). Così che dati e
situazioni sono ricondotti – secondo tipi o paradigmi (o prevalenze
quantitative) – alla rappresentazione che da tale tipificazione o teorizzazione
deriva.
Ora, se tale prospettiva è assunta (al di là della sua specificità e quindi
dei suoi limiti) come criterio autoreferenziale (ovvero esclusivo), essa giunge
(coerentemente) a surrogare e perciò a sostituire la realtà con una sua
particolare rappresentazione. D’altronde, se tale tipificazione si assume come
fondamento di altri ambiti di conoscenza, essi finiranno logicamente per
dipendere (sotto il profilo dell’argomentazione) proprio da tali tipologie e
teorie, le quali non potranno che ricondurre ogni altro campo di conoscenza alla
propria stregua. In tal modo, l’opinabilità di teorie, tipologie e paradigmi non
potrà che ricondurre a sé ogni conclusione da essi derivata (quale che ne sia il
contenuto).
Al riguardo, occorre ancora rilevare che i cultori di tale prospettiva di
inquadramento dell’esperienza sovente invocano o presuppongono (in modo più o
meno esplicito), come ad essa imprescindibile, l’avalutatività assiologica,
ovvero la pretesa di indagare fatti e contesti umani (individuali o sociali)
prescindendo da – anzi, tematicamente escludendo – ogni giudizio di valore. Ora,
è necessario osservare che l’avalutatività è impossibile in ogni campo di
indagine, tanto riguardo al conoscere quanto riguardo all’agire. Nulla vi è di
avalutativo nell’esperienza, nella scienza, nella morale, nel diritto e nella
politica. L’avalutatività è impossibile tanto nell’ordine dell’agire (per il
quale occorre comunque far proprio un fine), quanto in quello del conoscere (per
il quale occorre assimilare intellettualmente ciò che è e come è). Ogni sapere
presuppone ed implica il valore del vero, senza il quale (implicitamente o
esplicitamente) nessuna proposizione potrebbe essere accolta. Anche il
dubitabile, l’opinabile o il probabile sono tali in rapporto al vero, e senza di
esso semplicemente perdono di significato. Ogni azione presuppone ed implica il
valore del bene (che sia reale o apparente, va verificato caso per caso).
L’agire umano è l’agire morale. Non vi sono atti umani in concreto che non siano
buoni o cattivi (cfr. Tommaso d’Aquino, S. Th., I II, q. 18, a. 9; Duns Scoto,
Opus Oxon., II, d. 7; ivi, II, d. 40). Anche la negazione di un giudizio di
valore è un giudizio di valore. Anche l’avalutatività presuppone la
valutatività, per la quale essa, appunto, è valutata valida, in luogo del suo
opposto. La stessa autointerdizione del giudizio di valore presuppone il
giudizio di valore per il quale l’autointerdizione pretende di essere
giustificata.
Quanto, infine, al pensiero realistico, va detto che tale è essenzialmente il
pensiero che si accosta autenticamente alla realtà, la riconosce quale è, e non
quale appare o quale vorrebbe che fosse. In tal senso, esso è sempre realistico.
Si apre alla realtà, senza alcun altro obiettivo se non quello di capire, e
quindi di valutare. In ciò è la premessa di ogni sapere e di ogni scienza. Esso
non registra che due possibilità: il vero o il falso. Come per il pensiero
pratico (ovvero di argomento morale, e con esso anche giuridico e politico) non
vi sono che due risoluzioni valutative: la bontà o la malizia. In entrambi i
casi, tertium non datur. Un testo di storia o di teologia potrà sostenere tesi
vere o false. Ogni altro aspetto è obiettivamente irrilevante. La validità
dell’argomentazione è misurata dalla realtà delle cose, non dalla sua
funzionalità (anche al più nobile degli obiettivi). D’altra parte, nessuna
catalogazione può surrogare la valutazione. Nessun modello esaurisce la
concretezza (e la responsabilità) dell’esperienza. Il pensiero realistico non
indietreggia di fronte ad alcuna domanda. Anzi, proprio perché si dispone a
conoscere fino in fondo la realtà, non può che escludere il divieto di fare
domande. Del resto, è proprio del pensiero che riconosce la realtà quale essa è,
interrogarsi sulla natura delle cose, e quindi pensare teoreticamente ed
assiologicamente, mirando cioè a conoscere l’essenza ed il valore (delle cose e
delle azioni).
In definitiva, nel loro complesso, le diverse considerazioni proposte a
partire dalla pubblicazione dei due volumi (di cui si è detto in esordio)
sembrano vedere affiorare, come sullo sfondo (tra l’altro), una questione
ineludibile ed attualissima. Essa potrebbe essere sintetizzata in questi
termini: quali categorie di pensiero sono obiettivamente idonee ad argomentare
per scoprire il vero (empirico o essenziale) o per pensare il vero accolto
mediante la fede? In sostanza, per considerare il versante teologico, è il
problema già affrontato tanto dall’enciclica Pascendi, che pone a tema il nucleo
filosofico del modernismo (individuato nell’agnosticismo fenomenistico), quanto
dall’enciclica Fides et ratio, che indica la necessità (teoretica) – per
rettamente pensare – di andare dal fenomeno al fondamento (e non viceversa).
Se la fede (cristiana) è rationabile obsequium ed è una fides
quaerens intellectum, essa esige di essere pensata in termini teoretici
(ovvero in termini di verità essenziale). Il prassismo o il fenomenismo
(pur con le migliori intenzioni, che, del resto, non rilevano sotto il profilo
del valore dei giudizi) non consentono – proprio perché tali – di
pensarla in termini di verità.
D’altra parte, se alcuni documenti e atti pongono problemi, perché vi sarebbe
obbligo di ignorarli? Rilevare problemi significa incontrare domande che esigono
risposte. Ogni opportunità per porre a tema fatti e questioni non può che essere
considerata come propizia per l’esigenza di intendere – e quindi di penetrare
intellettualmente – andando al di là di ogni opinare. Cercare le risposte, in
termini di verità – con sagacia ed con accuratezza, con generosità e con
coraggio – costituisce, a ben vedere, l’unica strada autentica, ovvero razionale
e teologale, per soddisfare l’esigenza di capire e quindi anche quella di
rendere ragione (sotto il profilo storico, filosofico e teologico).
Prof. Giovanni Turco
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[Fonte: Il Settimanale di P. Pio, 23 gennaio 2011, n. 3, pp. 18-22]