Mons.
Michael Fitzgerald, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo
Interreligioso, sette anni fa era a capo della delegazione cattolica,
durante la precedente edizione della Conferenza, tenutasi a Salvador
de Bahia, in Brasile.
Monsignore, quali ricordi conserva dei
giorni della Conferenza di Salvador de Bahia? Quali valutazioni ne può
trarre?
«Avevamo
innanzitutto cercato di tener conto del contesto brasiliano. C’era
stata una presa in carico delle tradizioni religiose dell’America
Latina, che non sono solo cristiane. Il fatto che mi è rimasto più
impresso è un atto simbolico: alla Conferenza c’erano molti
afroamericani, e si decise di dedicare una giornata alla preghiera
silenziosa personale nel luogo in cui, a Bahia, un tempo sbarcavano
gli schiavi. Durante una cerimonia, gli africani portarono agli
afroamericani una pietra proveniente dal celebre fortino del Ghana, la
prima tappa obbligata per chi finiva nella tratta degli schiavi. È
stato un gesto forte: senza parole ha implicitamente riconosciuto una
parte di responsabilità anche agli africani che collaborarono alla
tratta. Una bella idea, perché questa comunione di sofferenza è
stata recepita dai presenti, insieme con la volontà di andare avanti:
nella missione non si può fare astrazione del problema della
giustizia, servono segni concreti».
Cosa
pensa del tema scelto quest’anno, “guarigione e
riconciliazione”?
«Che
su questo c’è molto da fare! Innanzitutto, bisogna cercare di
capirsi sul senso della missione: infatti, si creano problemi
quando il messaggio è proclamato in un modo che non rispetta la
cultura locale e provoca conflitti. Un esempio concreto è lo Sri
Lanka, dove sono state bruciate delle chiese a causa della
predicazione di alcuni cristiani che non mostravano rispetto per il
buddhismo. Esiste poi una riconciliazione da fare tra i cristiani,
anch’essa basata sul rispetto. Anche ad Atene, ritengo che i momenti
forti non saranno i grandi discorsi, ma le riflessioni a piccoli
gruppi sulle Scritture, cioè quando si condividerà la Parola che ci
unisce. Può essere uno stimolo per cercare l’unità».
Come
si costruisce, questa unità? In che direzione?
«Non
ci si deve accontentare di una unità facile: quella vera è un’unità
di fede che permette di giungere ad una comunione profonda. Non si
tratta di togliere le differenze di tradizioni, riti, preghiere,
teologie, ma di avere la stessa fede. Di certo, la Conferenza di Atene
sarà una grande ricchezza per i partecipanti, che poi potranno vivere
ancora quello spirito, rientrando nelle loro realtà quotidiane».
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[Fonte: nabot.org 10 maggio 2005]