«Le origini della
teologia occidentale e le radici della cultura europea»
Parigi, 12 settembre 2008
Incontro con il mondo della cultura al
Collège des Bernardins. La presenza del direttore generale dell'Unesco,
di rappresentanti dell'Unione europea e di personalità accademiche
internazionali ha conferito all'evento una dimensione universale. Del
resto, lo stesso messaggio è stato di carattere universale: "Quaerere
Deum", il grande Sconosciuto nel mondo di oggi...
[Commento
dell'Osservatore Romano]
[Commento del filosofo
Dominique Wolton]
[Commento di Giuliano
Ferrara]
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Cari amici, ci troviamo in un luogo storico, edificato dai figli di
san Bernardo di Clairvaux e che il Suo predecessore, il compianto
Cardinale Jean-Marie Lustiger, ha voluto come centro di dialogo tra la
Sapienza cristiana e le correnti culturali intellettuali e artistiche
dell’attuale società. Saluto in modo particolare la Signora Ministro
della Cultura che rappresenta il Governo, così come i Signori Giscard
d’Estaing e Chirac. Rivolgo ugualmente il mio saluto ai Ministri
presenti, ai rappresentanti dell’Unesco, al Signor Sindaco di Parigi e a
tutte le altre Autorità. Non voglio dimenticare i miei colleghi dell’Institut
de France, i quali conoscono la considerazione che nutro nei loro
confronti. Ringrazio il Principe de Broglie per le sua cordiali parole.
Ci rivedremo domani mattina. Ringrazio i delegati della comunità
musulmana francese per aver accettato di partecipare a questo incontro:
rivolgo loro i miei migliori auguri per il ramadan in corso. Il mio
caloroso saluto va ora naturalmente all’insieme del multiforme mondo
della cultura, che voi, cari invitati, rappresentate così degnamente.
Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle
radici della cultura europea. Ho ricordato all’inizio che il luogo in
cui ci troviamo è in qualche modo emblematico. È infatti legato alla
cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati
ad introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata e a
vivere meglio la loro missione. È questa un’esperienza che interessa
ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato? Per
rispondere, dobbiamo riflettere un momento sulla natura dello stesso
monachesimo occidentale. Di che cosa si trattava allora? In base alla
storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande
sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi
ordini statali che stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui
sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad
essi, veniva formata passo passo una nuova cultura. Ma come avveniva
questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si
riunivano? Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto?
Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non
era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una
cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il
loro obiettivo era: "quaerere Deum", cercare Dio. Nella confusione dei
tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa
essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre,
trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie
volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente
importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo
“escatologico”. Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se
guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un
senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo.
"Quaerere Deum": poiché erano cristiani, questa non era una spedizione
in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto. Dio
stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva
spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla.
Questa via era la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era
aperta davanti agli uomini. La ricerca di Dio richiede quindi per
intrinseca esigenza una cultura della parola o, come si esprime Jean
Leclercq : nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono
interiormente connesse l’una con l’altra (cfr "L’amour des lettres et le
desir de Dieu", p.14). Il desiderio di Dio, le désir de Dieu, include l’amour
des lettres, l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue
dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e
noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua,
a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così,
proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze
profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio
esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca
che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte
anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente.
Benedetto chiama il monastero una "dominici servitii schola". Il
monastero serve alla "eruditio", alla formazione e all’erudizione
dell’uomo – una formazione con l’obbiettivo ultimo che l’uomo impari a
servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della
ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in
mezzo alle parole, la Parola.
Per avere la piena visione della cultura della parola, che appartiene
all’essenza della ricerca di Dio, dobbiamo fare un altro passo. La
Parola che apre la via della ricerca di Dio ed è essa stessa questa via,
é una Parola che riguarda la comunità. Certo, essa trafigge il cuore di
ciascun singolo (cfr At 2, 37). Gregorio Magno descrive questo come una
fitta improvvisa che squarcia la nostra anima sonnolenta e ci sveglia
rendendoci attenti per Dio (cfr Leclercq, ibid., p.35). Ma così ci rende
attenti anche gli uni per gli altri. La Parola non conduce a una via
solo individuale di un’immersione mistica, ma introduce nella comunione
con quanti camminano nella fede. E per questo bisogna non solo
riflettere sulla Parola, ma anche leggerla in modo giusto. Come nella
scuola rabbinica, così anche tra i monaci il leggere stesso compiuto dal
singolo è al contempo un atto corporeo. “Se, tuttavia, "legere" e
"lectio" vengono usati senza un attributo esplicativo, indicano per lo
più un’attività che, come il cantare e lo scrivere, comprende l’intero
corpo e l’intero spirito”, dice al riguardo Jean Leclercq (ibid., p.
21).
E ancora c’è da fare un altro passo. La Parola di Dio introduce noi
stessi nel colloquio con Dio. Il Dio che parla nella Bibbia ci insegna
come noi possiamo parlare con Lui. Specialmente nel Libro dei Salmi Egli
ci dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui, portare la nostra
vita con i suoi alti e bassi nel colloquio davanti a Lui, trasformando
così la vita stessa in un movimento verso di Lui. I Salmi contengono
ripetutamente delle istruzioni anche sul come devono essere cantati ed
accompagnati con strumenti musicali. Per pregare in base alla Parola di
Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica. Due canti
della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle
labbra degli Angeli: il "Gloria", che è cantato dagli Angeli alla
nascita di Gesù, e il "Sanctus", che secondo Isaia 6 è l’acclamazione
dei Serafini che stanno nell’ immediata vicinanza di Dio. Alla luce di
ciò la Liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a
portare così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in
questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: “I monaci dovevano
trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo
redento ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si
sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli
cristologici dei singoli toni” (cfr ibid. p.229).
In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come
regola determinante la parola del Salmo: "Coram angelis psallam Tibi,
Domine" – davanti agli angeli voglio cantare a Te, Signore (cfr 138,1).
Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera comunitaria
in presenza di tutta la corte celeste e di essere quindi esposti al
criterio supremo: di pregare e di cantare in maniera da potersi unire
alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori
dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere. Partendo da ciò, si
può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle,
che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino per
giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era
affatto un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la
confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona
della dissimilitudine” – nella regio dissimilitudinis. Agostino aveva
preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo
stato interiore prima della conversione (cfr Confess. VII, 10.16):
l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del
suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine” – in una
lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa
dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo.
È certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti
dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da
se stesso. Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio.
Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere e che i
monaci con il loro pregare e cantare devono corrispondere alla grandezza
della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza. Da
questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e del cantarLo con le
parole donate da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si
trattava di una “creatività” privata, in cui l’individuo erige un
monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la
rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere
attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della
musica della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse
dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna
di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo e fa
risuonare in modo puro la sua dignità.
Per capire in qualche modo la cultura della parola, che nel monachesimo
occidentale si è sviluppata dalla ricerca di Dio, partendo dall’interno,
occorre finalmente fare almeno un breve cenno alla particolarità del
Libro o dei Libri in cui questa Parola è venuta incontro ai monaci. La
Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è
semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui
stesura si estende lungo più di un millennio e i cui singoli libri non
sono facilmente riconoscibili come appartenenti ad un’unità interiore;
esistono invece tensioni visibili tra di essi. Ciò vale già all’interno
della Bibbia di Israele, che noi cristiani chiamiamo l’Antico
Testamento. Vale tanto più quando noi, come cristiani, colleghiamo il
Nuovo Testamento e i suoi scritti, quasi come chiave ermeneutica, con la
Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso Cristo. Nel Nuovo
Testamento, con buona ragione, la Bibbia normalmente non viene
qualificata come “la Scrittura”, ma come “le Scritture” che, tuttavia,
nel loro insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di Dio
rivolta a noi. Ma già questo plurale rende evidente che qui la Parola di
Dio ci raggiunge soltanto attraverso la parola umana, attraverso le
parole umane, che cioè Dio parla a noi solo attraverso gli uomini,
mediante le loro parole e la loro storia. Questo, a sua volta, significa
che l’aspetto divino della Parola e delle parole non è semplicemente
ovvio. Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il
carattere divino delle loro parole non sono, da un punto di vista
puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e
l’umanità. Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale
che, a prima vista, sembra sconcertante: “Littera gesta docet – quid
credas allegoria…” (cfr Augustinus de Dacia, Rotulus pugillaris, I). La
lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè
l’interpretazione cristologica e pneumatica.
Possiamo esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha
bisogno dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è
formata e in cui viene vissuta. In essa ha la sua unità e in essa si
dischiude il senso che tiene unito il tutto. Detto ancora in un altro
modo: esistono dimensioni del significato della Parola e delle parole,
che si dischiudono soltanto nella comunione vissuta di questa Parola che
crea la storia. Mediante la crescente percezione delle diverse
dimensioni del senso, la Parola non viene svalutata, ma appare, anzi, in
tutta la sua grandezza e dignità. Per questo il “Catechismo della Chiesa
Cattolica” con buona ragione può dire che il cristianesimo non è
semplicemente una religione del libro nel senso classico (cfr n. 108).
Il cristianesimo percepisce nelle parole la Parola, il Logos stesso, che
estende il suo mistero attraverso tale molteplicità. Questa struttura
particolare della Bibbia è una sfida sempre nuova per ogni generazione.
Secondo la sua natura essa esclude tutto ciò che oggi viene chiamato
fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente
già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un
trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal
movimento interiore dell’insieme e perciò deve diventare anche un
processo di vita. Sempre e solo nell’unità dinamica dell’insieme i molti
libri formano un Libro, si rivelano nella parola e nella storia umane la
Parola di Dio e l’agire di Dio nel mondo.
Tutta la drammaticità di questo tema viene illuminata negli scritti di
san Paolo. Che cosa significhi il trascendimento della lettera e la sua
comprensione unicamente a partire dall’insieme, egli l’ha espresso in
modo drastico nella frase: “La lettera uccide, lo Spirito dà vita” (2
Cor 3,6). E ancora: “Dove c’è lo Spirito … c’è libertà” (2 Cor 3,17). La
grandezza e la vastità di tale visione della Parola biblica, tuttavia,
si può comprendere solo se si ascolta Paolo fino in fondo e si apprende
allora che questo Spirito liberatore ha un nome e che la libertà ha
quindi una misura interiore: “Il Signore è lo Spirito, e dove c’è lo
Spirito del Signore c’è libertà” (2 Cor 3,17). Lo Spirito liberatore non
è semplicemente la propria idea, la visione personale di chi interpreta.
Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che ci indica la strada. Con
la parola sullo Spirito e sulla libertà si schiude un vasto orizzonte,
ma allo stesso tempo si pone un chiaro limite all’arbitrio e alla
soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo
come la comunità e crea un legame superiore a quello della lettera: il
legame dell’intelletto e dell’amore. Questa tensione tra legame e
libertà, che va ben oltre il problema letterario dell’interpretazione
della Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l’operare del
monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale. Essa si
pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai
poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo
fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di
oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale
di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio.
Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua
distruzione.
Nella considerazione sulla “scuola del servizio divino” – come Benedetto
chiamava il monachesimo – abbiamo fino a questo punto rivolto la nostra
attenzione solo al suo orientamento verso la parola, verso l’ “ora”. E
di fatto è a partire da ciò che viene determinata la direzione
dell’insieme della vita monastica. Ma la nostra riflessione rimarrebbe
incompleta, se non fissassimo il nostro sguardo almeno brevemente anche
sulla seconda componente del monachesimo, quella descritta col “labora”.
Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il
saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose
spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a
quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel
mondo dello spirito. Assolutamente diversa era la tradizione giudaica:
tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una
professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore
del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la
vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma
sta nella comune tradizione del rabbinismo. Il monachesimo ha accolto
questa tradizione; il lavoro manuale è parte costitutiva del monachesimo
cristiano. Benedetto parla nella sua "Regola" non propriamente della
scuola, anche se l’insegnamento e l’apprendimento – come abbiamo visto –
in essa erano cose praticamente scontate. Parla però esplicitamente del
lavoro (cfr cap.48). Altrettanto fa Agostino che al lavoro dei monaci ha
dedicato un libro particolare. I cristiani, che con ciò continuavano
nella tradizione da tempo praticata dal giudaismo, dovevano inoltre
sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni,
con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il
Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5, 17). Il mondo greco-romano
non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro
visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione
della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una
deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e
unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e
sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro
faticoso della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio
stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita. Dio
lavora. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come
un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in
questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella
creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura
della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo
dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono
impensabili. Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì
che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano
un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa
misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la
formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione.
Siamo partiti dall’osservazione che, nel crollo di vecchi ordini e
sicurezze, l’atteggiamento di fondo dei monaci era il "quaerere Deum" –
mettersi alla ricerca di Dio. Potremmo dire che questo è l’atteggiamento
veramente filosofico: guardare oltre le cose penultime e mettersi in
ricerca di quelle ultime, vere. Chi si faceva monaco, s’incamminava su
una via lunga e alta, aveva tuttavia già trovato la direzione: la Parola
della Bibbia nella quale sentiva parlare Dio stesso. Ora doveva cercare
di comprenderLo, per poter andare verso di Lui. Così il cammino dei
monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai
all’interno della Parola accolta. Il cercare dei monaci, sotto certi
aspetti, porta in se stesso già un trovare. Occorre dunque, affinché
questo cercare sia reso possibile, che in precedenza esista già un primo
movimento che non solo susciti la volontà di cercare, ma renda anche
credibile che in questa Parola sia nascosta la via – o meglio: che in
questa Parola Dio stesso si faccia incontro agli uomini e perciò gli
uomini attraverso di essa possano raggiungere Dio. Con altre parole:
deve esserci l’annuncio che si rivolge all’uomo creando così in lui una
convinzione che può trasformarsi in vita. Affinché si apra una via verso
il cuore della Parola biblica quale Parola di Dio, questa stessa Parola
deve prima essere annunciata verso l’esterno. L’espressione classica di
questa necessità della fede cristiana di rendersi comunicabile agli
altri è una frase della Prima Lettera di Pietro, che nella teologia
medievale era considerata la ragione biblica per il lavoro dei teologi:
“Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione (logos)
della speranza che è in voi” (3, 15) (Logos deve diventare apo-logia, la
Parola deve diventare risposta). Di fatto, i cristiani della Chiesa
nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una
propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come
una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il
Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si
era mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo Figlio, dando con
ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli
uomini attendono. L’universalità di Dio e l’universalità della ragione
aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il
dovere dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine
culturale, che a seconda dei popoli è diversa, ma all’ambito della
verità che riguarda ugualmente tutti.
Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano “ad extra” – agli uomini
che, con le loro domande, sono in ricerca – si trova nel discorso di san
Paolo all’Areopago. Teniamo presente, in questo contesto, che l’Areopago
non era una specie di accademia, dove gli ingegni più illustri
s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma un tribunale
che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi
all’importazione di religioni straniere. È proprio questa l’accusa
contro Paolo: “Sembra essere un annunziatore di divinità straniere” (At
17, 18). A ciò Paolo replica: “Ho trovato presso di voi un'ara con
l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io
ve lo annunzio” (cfr 17, 23). Paolo non annuncia dei ignoti. Egli
annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono:
l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno
conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più
profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli
deve esistere. Che all’origine di tutte le cose deve ess erci non
l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la
libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo
sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21)
– questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non
è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui.
La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a
tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è
aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano consiste
in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un
fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella
nostra carne. "Verbum caro factum est" (Gv 1,14): proprio così nel fatto
ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è
ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter
accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio.
La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella
che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in
molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di
are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato
veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose
immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio
ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata
dalla domanda che riguarda Lui. "Quaerere Deum" – cercare Dio e
lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi
passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo
soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la
capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e
quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero
essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca
di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento
di ogni vera cultura.
Settecento intellettuali in silenzioso ascolto
Un nuovo capitolo nel dialogo tra fede e cultura
dal nostro inviato Mario Ponzi
È stato un discorso lungo e articolato quello rivolto dal
Papa ai rappresentanti del mondo della cultura francese. La presenza del
direttore generale dell'Unesco, di rappresentanti dell'Unione europea e
di personalità accademiche internazionali ha conferito all'evento una
dimensione universale. Del resto, il suo stesso messaggio è stato di
carattere universale: "Quaerere Deum", il grande Sconosciuto nel mondo
di oggi, perché "la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarlo - ha
affermato Benedetto XVI - sono il fondamento di ogni vera cultura". Il
luogo in cui è avvenuto l'incontro, lo storico Collège des Bernardins,
evoca proprio la globalità del sapere. Il Collège des Bernardins,
come alle sue origini, si ripropone quale prestigioso luogo di incontro
e di dialogo tra i saperi.
Ricevuto al suo arrivo dal cancelliere dell'Institut de France,
Gabriel de Broglie, il Papa si è trovato di fronte a un'assemblea
composta da oltre settecento persone. Tra loro i rappresentanti delle
grandi istituzioni culturali universitarie, artisti, scrittori, uomini e
donne, cristiani e no. C'erano rappresentanti delle cinque accademie che
compongono l'Institut de France, e naturalmente i diciotto membri
del comitato del Collège des Bernardins. C'erano personalità con
nomi famosi: Jacques Delors, Hélène Carrère d'Encausse, segretaria
perpetua dell'Accademia di Francia, lo storico israeliano Elia Barnavi.
Numerosi gli scrittori, tra i quali Denis Tillinac e Daniel Pennac. Gli
artisti erano rappresentati tra gli altri da attori di teatro assai noti
in Francia: Valère Novarina, Olivier Py, Henry Tissot; c'era il
direttore del museo D'Orsay, Guy Cogeval; e ancora filosofi, direttori
di istituzioni culturali, di quotidiani, di reti televisive e
radiofoniche. Il Governo francese era rappresentato dal ministro della
Cultura e della Comunicazione Christine Albanel. Presenti anche numerosi
rappresentanti della comunità musulmana che vive a Parigi.
Hanno offerto insomma l'immagine concreta della molteplicità culturale
che vivacizza l'attuale società francese.
Il Papa ha ascoltato con attenzione i saluti prima dell'arcivescovo di
Parigi, il cardinale André Vingt-Trois, e poi del cancelliere dell'Institut
de France. Quindi ha aperto un capitolo nuovo nel dialogo tra fede e
cultura. Non ha proposto una radiografia, tanto meno la denuncia di una
realtà; è andato molto oltre rivisitando radici significative della
cultura cattolica in occidente. Ne ha ripercorso il cammino, ha
ricordato il ruolo del monachesimo, ha spiegato i limiti all'arbitrio e
alla soggettività nell'interpretazione delle Scritture; ha riproposto i
termini della sfida, sempre attuale, tra legame e libertà, "fatale" per
la cultura europea - ha detto - "se potesse comprendere la libertà ormai
solo come mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente
il fanatismo e l'arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la
libertà, ma la sua distruzione". Bisogna ricercare Dio e comunicarlo
agli altri. Con umiltà. Quella stessa umiltà che è necessaria per
poterlo accogliere. "Occorre - ha ripetuto - l'umiltà dell'uomo che
risponde all'umiltà di Dio". "Ciò che ha fondato la cultura dell'Europa
- ha concluso - la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarlo,
rimane anche oggi il fondamento di ogni cultura".
I settecento invitati hanno ascoltato in silenzio. Sono addirittura
rimasti per un attimo sorpresi quando il Papa ha concluso. Poi
l'applauso deciso, persistente.
Copyright © - L'Osservatore Romano 14 settembre
2008
«Applausi dalla scettica Francia»
La sorpresa degli intellettuali, parla il filosofo Dominique Wolton
di Francesca Pierantozzi
La Francia laica non snobba il Papa. Al contrario, la visita di
Benedetto XVI è un successo.
Dopo aver ascoltato per più di un'ora il discorso del Papa nella
splendida cornice della Collège des Bernardins a Parigi, Dominique
Wolton ha pochi dubbi. Il filosofo francese, grande esperto di
comunicazione e dei rapporti tra individui, politiche, culture e
società, è stato tra i seicento selezionati ieri per ascoltare il
discorso del Pontefice «agli intellettuali».
Emozionato?
«La cornice era senz'altro sontuosa. Un luogo superbo. Ha contribuito a
sottolineare la solennità e l'importanza del momento».
Molti parlano di una Francia laica che ”snobba“ il Papa e le
religioni. E’ così?
«L'accoglienza che ho visto riservare a Benedetto XVI al Collège des
Bernardins, gli applausi, il parterre di personalità presenti, sarebbe
stato impensabile vent'anni fa. So cosa dico, perché allora ho lavorato
con il cardinale Jean-Marie Lustiger. Vent'anni fa ad ascoltare il Papa
sarebbero venute la metà delle persone».
Cosa significa? Che Benedetto XVI piace addirittura più di Giovanni
Paolo II?
«Significa innanzitutto che c'è un ritorno di interesse per la
religione. Attenzione, parlo anche di persone agnostiche, di non
credenti. Molti erano presenti al Collège des Bernardins. E' stata la
prova della possibilità di una laicità alla francese. Un luogo di
tolleranza».
Ritiene che anche i rappresentanti delle altre religioni la pensino
così?
«Una cosa mi ha colpito: è stato il lungo applauso riservato ai
rappresentanti musulmani. C'è stata sempre una grande difficoltà a
riconoscere che l'Islam è la seconda religione di Francia. Mi pare che
la stiamo superando».
Benedetto XVI ha pronunciato un discorso complesso, quasi «tecnico»
«È vero. Mi pare che il messaggio di fondo del discorso, consacrato al
monachesimo occidentale, sia stato quello di sottolineare l'importanza
del rapporto tra libertà, fede, ragione e lavoro. Alla Francia, cuore
della laicità, il Papa dice: non dimenticare la fede».
E la Francia laica lo ascolterà?
«Di sicuro gli intellettuali francesi riconoscono in Benedetto XVI
l'intellettuale rigoroso. Potremmo dire che per i non credenti, per gli
atei, questo Papa rappresenta un avversario di qualità, che forza al
rispetto. E' importante».
Questa visita è, dunque, un successo?
«È ancora presto per dirlo, ma direi che è cominciata molto bene».
© Copyright Il Messaggero, 13 settembre 2008
Il cantico francese del prof. Ratzinger
Giuliano Ferrara, su il Foglio 15 settembre 2008
Secondo il Papa, che ha tenuto venerdì un discorso bello e profondo
nella patria del razionalismo filosofico moderno, parlando alla cultura
francese riunita al Club dei bernardini, i benedettini di San Bernardo
di Clairvaux, l’universalità è un tratto che appartiene sia a Dio sia
alla ragione umana aperta verso il mistero o il trascendente.
Attenzione. Sono parole che pesano, che hanno un senso non accademico,
che non sono destinate agli addetti ai lavori soltanto, ai filosofi e ai
dotti. Sono atti programmatici di un papato giovanpaolino e benedettino
che segna il passaggio tra due secoli in cui la modernità è diventata un
problema in ogni campo storico ed esistenziale, e l’alleanza tra fede e
ragione è indicata come la soluzione.
È
noto che il Papa, programma parecchio ambizioso ma inevitabile,
vuole convertire e riconvertire l’Europa scristianizzata, ma intende
farlo riconoscendo le impronte decisive del suo secolarismo laico,
rileggendo insieme al popolo e alle classi dirigenti il vero significato
del patrimonio europeo e occidentale di cultura e di spiritualità, e
perfino (e forse principalmente) il suo immenso tesoro scientifico.
Fa parte di questo gioco teologico-politico l’idea indiscutibile che il
progresso della libertà umana e dei diritti della persona sia figlio
anch’esso del cristianesimo. Il palcoscenico francese è quello, dal
punto di vista di un illuminismo cristiano, che si presta meglio alla
bisogna.
È dunque universale, universalmente valido, l’operare di Dio, creatore
e attore della storia tramite l’Incarnazione e il Logos. Chi ha fede,
chi si sente figlio di Dio in Cristo Gesù, deve rendere ragione di
questa sua speranza, come è detto nella Prima Lettera di San Pietro. Il
che è possibile, appunto, perché la ragione non è solo ragione
particolare, che dà conto di questo o quell’esperimento, di questo o
quel fatto storico individuale, ma è ragione universalmente valida,
ragione che conosce e sa valutare anche il limite proprio, il confine
della sua stessa capacità di conoscere, appunto il mistero.
Per questo motivo, per il fatto che tra il divino e l’intelletto umano
vale una analogia nel segno della verità e del bene, due concetti e
criteri anche etici che stanno e cadono insieme, la laicità secolare,
cioè il nostro mondo della libertà individuale e del pluralismo dei
valori, del relativismo, deve essere aperta al significato e al senso
pubblico del sacro. E’ poi questa la laicità positiva o matura di cui ha
parlato con lungimiranza Nicolas Sarkozy nel suo discorso lateranense,
che ha aperto la via a questo viaggio e alla solenne “liturgia
filosofica” di ieri.
Il secolarismo laico non deve mai trasformarsi in una religione o in una
caricatura della religione. Per esempio: il giurista moderno può cercare
una misura di giustizia fondata su procedure conformi alla legge
positiva, a loro volta basate su convenzioni umane mobili, ma non deve
cancellare il significato di diritto naturale innato contenuto nei
principi non negoziabili. Per esempio: lo scienziato ha da essere libero
nella ricerca, curioso, aperto a sviluppi imprevedibili, ma non deve
considerarsi un “creatore deiforme” e non può pretendere di decidere
scientificamente e proceduralmente della differenza tra bene e male. Per
esempio: il politico democratico-liberale occidentale deve fondare le
sue scelte sul consenso possibile, ma non può credere e far credere che
la verità sia quel che stabilisce una maggioranza provvisoria.
“Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo
come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione
della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un
tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che
gravi”: questa è dunque la logica e ammonitoria conclusione del discorso
pronunciato ieri da Benedetto XVI, il secondo grande discorso
teologico-politico dopo Ratisbona.
I discorsi di questo Papa sono semplificabili in formule chiare a tutti
e che tutti richiamano alla responsabilità di pensare (o di assistere
per lo meno allo spettacolo del pensiero distogliendosi dalla noiosa
ripetizione dell’intrattenimento quotidiano).
Tuttavia i testi di Benedetto XVI, come quelli del cardinale
Ratzinger prima di lui, sono cesello teologico di qualità, spartito
gregoriano in prosa, e procedono sempre in modo sorprendente, generoso,
stringente e divagante insieme, letterariamente brillante proprio nel
senso dell’unione di quell’amor di Dio e di quell’amore per le lettere
richiamato ieri sulla scorta dell’opera del compianto monaco bernardino
Jean Leclercq.
(Legare le lettere a Dio e Dio alle lettere è un progetto di cui, in
fondo, la cultura francese non si è mai liberata, malgrado la finale e
provvisoria vittoria di Montaigne su Pascal).
Per arrivare al formulario o alla manualistica dell’antirelativismo, che
genera spesso tanti equivoci e tante pappagallesche imitazioni, il Papa
fa un giro lungo e argenteo, partendo dal monachesimo occidentale, dalla
sua ricerca di Dio come “ciò che permane per sempre”, come il
“definitivo”, quel quaerere Deum che si risolve in dedizione alla Parola
e alle parole, interpretazione della Scrittura e delle scritture in una
comunione spirituale che è il contrario dell’arbitrio culturale
individuale, è salmistica, è musica, è lotta per il bel canto angelico
contro il rischio della “dissimilitudine”. Sono concetti gioiosi e
lucenti che ci arrivano dal mondo antico e poi medievale, quei mondi che
il modernismo banale vorrebbe obliterare e raschiare via dalla storia
dello spirito umano in un superamento secolare definitivo e
irreversibile.
Nel discorso è specialmente notevole quel tratto che ho provato a
chiamare di liturgia filosofica.
Questo Papa insiste infatti nel tenere dei discorsi che hanno una
caratteristica unica: sono in parte omelie, in parte lezioni magistrali,
in parte manifesti culturali e politici, cioè filosofici, sulle grandi
questioni del tempo, e specie quelle incandescenti.
Come in una testarda insistenza dopo Regensburg e le aggressioni subite
per aver osato la verità, il Papa descriveva ieri nuovamente la
dialettica rabbinica e poi quella cristiana della parola, la vittoria
con San Paolo dello spirito sulla lettera, dell’allegoria e della
lettura di comunione della Bibbia sul nudo testo della Scrittura. La
Parola scritturale non è mai un dettato di Dio, ragion per cui, ed è una
conseguenza importante per la nostra cultura e il nostro modo di vita,
il cristianesimo non è propriamente una religione del libro. Noi
interpretiamo e facciamo esegesi e teologia della Parola, ecco il
deposito insieme culturale e di fede comunitaria dove abbiamo trovato
l’antidoto al letteralismo fondamentalista. Ecco la nostra libertà dello
spirito. E chi vuol intendere, intenda.
A un certo punto il Papa dice: “Questa tensione tra legame e libertà,
che va ben oltre il problema letterario dell’interpretazione della
Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l’operare del monachesimo
e ha profondamente plasmato la cultura occidentale. Essa si pone
nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli
dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista,
dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse
comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e
con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di
legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione”. La
libertà dello spirito è sempre in tensione con un legame “d’intelletto e
d’amore”, dice Benedetto XVI con formula delicata e stilnovista, e senza
quel legame, negato dagli esiti nullisti e libertari dell’approdo
moderno, la libertà si distrugge. A occhio e croce, sembrerebbe non
avere tutti i torti.
© Copyright Il Foglio, 15 settembre 2008
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