in questi giorni ho potuto leggere il Suo nuovo libro
Perché dobbiamo
dirci cristiani. Era per me una lettura affascinante. Con una conoscenza
stupenda delle fonti e con una logica cogente Ella analizza l’essenza
del liberalismo a partire dai suoi fondamenti, mostrando che all’essenza
del liberalismo appartiene il suo radicamento nell’immagine cristiana di
Dio: la sua relazione con Dio di cui l’uomo è immagine e da cui abbiamo
ricevuto il dono della libertà. Con una logica inconfutabile Ella fa
vedere che il liberalismo perde la sua base e distrugge se stesso se
abbandona questo suo fondamento. Non meno impressionato sono stato dalla
Sua analisi della libertà e dall’analisi della multiculturalità in cui
Ella mostra la contraddittorietà interna di questo concetto e quindi la
sua impossibilità politica e culturale. Di importanza fondamentale è la
Sua analisi di ciò che possono essere l’Europa e una Costituzione
europea in cui l’Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma
trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria
identità. Particolarmente significativa è per me anche la Sua analisi
dei concetti di dialogo interreligioso e interculturale.
Ella spiega con grande chiarezza che un dialogo interreligioso nel senso
stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo
interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della
decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non
è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre
affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle
decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un
arricchimento vicendevole sono possibili e necessari. Del contributo
circa il significato di tutto questo per la crisi contemporanea
dell’etica trovo importante ciò che Ella dice sulla parabola dell’etica
liberale. Ella mostra che il liberalismo, senza cessare di essere
liberalismo ma, al contrario, per essere fedele a se stesso, può
collegarsi con una dottrina del bene, in particolare quella cristiana
che gli è congenere, offrendo così veramente un contributo al
superamento della crisi. Con la sua sobria razionalità, la sua ampia
informazione filosofica e la forza della sua argomentazione, il presente
libro è, a mio parere, di fondamentale importanza in quest’ora
dell’Europa e del mondo. Spero che trovi larga accoglienza e aiuti a
dare al dibattito politico, al di là dei problemi urgenti, quella
profondità senza la quale non possiamo superare la sfida del nostro
momento storico. Grato per la Sua opera Le auguro di cuore la
benedizione di Dio.
Benedetto XVI
© Copyright Corriere della sera, 23 novembre 2008
Non c’è liberalismo senza Dio
torna su
Il saggio di Marcello Pera con un testo del Papa. «Il
cristianesimo, chance dell’Europa»
Maria Antonietta Calabrò
«La mia posizione è quella del laico e liberale che si rivolge al
cristianesimo per chiedergli le ragioni della speranza», di una
«speranza» possibile per la nostra società, per la politica, per il
mondo delle istituzioni, ed in particolare per la vecchia Europa,
«la terra più scristianizzata dell'Occidente e se ne fa un vanto».
Dove vivere come se nessun Dio esistesse «non sta dando i frutti
promessi». Europa che al cristianesimo deve ritornare «se vuole
davvero unificarsi in qualcosa che assomigli ad una nazione, una
comunità morale». Nel suo nuovo libro (Mondadori), Marcello Pera si
mette sulle orme di Kant, (che nella Critica della ragion pratica
affermava: «La speranza comincia soltanto con la religione»), e di
Benedetto Croce («Non possiamo non dirci cristiani»). Ma ancora di
più segue la lezione «scientifica» dell'empirismo inglese di Locke
(che scrisse La ragionevolezza del cristianesimo), dei Padri
fondatori della nazione americana e di Tocqueville. E proprio a
partire dallo studio dei problemi drammatici di ordine morale,
politico, religioso posti dalla convivenza umana contemporanea (da
quelli bioetici a quelli dell'integrazione) giunge a spingersi più
in là: dal «non possiamo non dirci» al «dobbiamo dirci cristiani».
I cambiamenti dell'ultimo scorcio del XX secolo richiedono, secondo
Pera, per logica interna, questo ulteriore sviluppo, rispetto ai
tempi in cui la società era ancora per larga parte permeata dal
cristianesimo e dal suo spirito religioso. Perciò arriva a
sostenere, dimostrandolo, che «alzare la bandiera cristiana» [vedi
intervento Assisi 2004] è
l'unica occasione affinché non solo l'Occidente, ma anche ogni
singolo essere umano (il liberalismo è per sua natura non
etnocentrico, ma universalista) possa ancora avere una prospettiva
positiva, una chance. «Non si tratta — annota Pera — di conversioni
o illuminazioni o ravvedimenti». Sono queste «tutte cose importanti,
delicate e rispettabili ma che attengono alla sfera della coscienza
personale». «Si tratta di coltivare una fede (altra espressione
appropriata non c'è) in valori e principi che caratterizzano la
nostra civiltà, e di riaffermare i capisaldi di una tradizione della
quale siamo figli». E ancora: «I grandi Padri del liberalismo
classico, questo problema lo avevano chiaro (...). Oggi che è
diventato anticristiano, il liberalismo è senza fondamenti e le sue
libertà sono appese nel vuoto». Si potrebbe dire che le «equazioni
laiche» di Pera — ordinario di Filosofia della scienza a Pisa,
studioso di Karl Popper, già coautore insieme all'allora cardinale
Ratzinger del bestseller Senza radici — a
livello della «ragion pratica» o della phronesis aristotelica, fanno
il paio con quello che sul piano della metafisica è il teorema di
Gödel, che dimostra matematicamente la necessità dell'esistenza di
Dio.
Da una
parte: «Dio esiste necessariamente, come volevasi dimostrare ».
Dall'altra: «Per ciò e per concludere, dobbiamo dirci
cristiani». Pera scrive: «Liberalismo e cristianesimo sono
congeneri. Togliete al primo la fede del secondo, e anch'esso
scomparirà». Il liberale è «cristiano per cultura». Per lui il
«dono di Dio» è solo «un patrimonio di virtù, costumi, civiltà:
la nostra». Differente dal «cristiano per fede» in Gesù Cristo,
personalmente incontrato, seguito, amato. Ma essere solo
«cristiano per cultura», giunti ormai alla fine del primo
decennio del XXI secolo, non basta nemmeno più, secondo Pera:
«Colui che si limita o si sente limitato, a sentirsi cristiano
per cultura» non deve negarsi alla possibilità anche di credere
in Cristo. «È necessario che la ricchezza dell'esperienza umana
non sia amputata della presenza nella nostra vita del senso del
divino, del sacro, del mistero, dell'infinito». Naturalmente
questo è «un appello, motivato e drammatico, non ancora (se mai
lo sarà) una soluzione teoreticamente già disponibile». Sono
ragionamenti che hanno delle conseguenze «politiche» che faranno
molto discutere. Pera, ad esempio, confuta quelli che negli
ultimi anni sono diventati dei veri e propri tabù del dibattito
pubblico italiano e internazionale. E cioè che possa esistere il
cosiddetto «dialogo interreligioso». In questo, lo stesso
Benedetto XVI, nella lettera che introduce al volume (un evento
eccezionale, se non unico) e che qui pubblichiamo integralmente,
gli dà apertamente ragione. Si deve piuttosto parlare di
«dialogo tra culture ».
Allo stesso modo Pera dimostra la
contraddittorietà intrinseca del concetto di «multiculturalità».
Affinché quello che la ragione riconosce come necessario possa
accadere nella vita di ciascuno e nella storia di nazioni e
popoli, ci vuole una decisione. «Alla fine, sta a noi scegliere.
(...) La scelta cristiana, di darsi a Dio (credente in Cristo,
ndr) o di agire velut si Christus daretur (cristiano per
cultura, ndr) ha prodotto i migliori risultati. Quella scelta ha
grandi vantaggi, anche nel campo dell'etica pubblica. (...) Non
separeremo la moralità dalla verità, non confonderemo
l'autonomia morale con la libera scelta individuale, non
tratteremo gli individui, nascenti o morenti, come cose, non
acconsentiremo a tutti i desideri di trasformarsi in diritti,
non confineremo la ragione nei soli limiti della scienza, non ci
sentiremo più soli in una società di estranei o più oppressi in
uno Stato che si appropria di noi perché noi non sappiamo più
orientarci da soli». Ma una simile decisione, nessuno può
nasconderselo, può essere generata solo dall'incontro con un
fatto che susciti una fiducia e un'attesa.
Di Ratzinger, «Papa della speranza cristiana», Pera
scrive: «Posso solo dire che, nonostante tutte le mie
sollecitazioni interiori, questo lavoro non ci sarebbe stato se
Benedetto XVI non avesse scritto e parlato e non testimoniasse
ciò di cui scrive e parla». Un fatto, insomma, che mantenga
«aperta» la ragione a quella possibilità che tutto (il
relativismo, l'aggressività del fondamentalismo religioso, la
reificazione dell'uomo) «invoca » come necessaria.
Solo la speranza, di cui scrive Paolo nella Lettera agli Ebrei,
colma lo iato tra la condizione percepita dalla ragione come
necessaria e la realtà. È per questo che Charles Péguy, nel
Portico del Mistero della seconda virtù, fa dire a Dio: «La fede
che più amo è la speranza».
(© Copyright Corriere della sera, 23 novembre 2008)
Commenti leader ebrei e musulmani
torna su
Espressione, quella
dell'impossibilità di un dialogo interreligioso, che viene
accolta positivamente dalla comunità ebraica romana.
"Credo che bisogna essere molto grati al Papa per questa
precisazione e per la giusta chiarezza", dice ad Apcom il
rabbino Riccardo Di Segni, a capo della Comunità ebraica di
Roma, commentando la lettera che Benedetto XVI ha scritto al
senatore Marcello Pera, come prefazione al suo libro 'Perché
dobbiamo dirci cristiani', in cui sostiene che "un dialogo
interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile,
mentre urge tanto più il dialogo interculturale che
approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa
di fondo".
Da parte sua, l'Ucoii (Unione delle Comunità e organizzazioni
islamiche in Italia), sottolinea come "occorre precisare cosa il
Papa intende dire con dialogo interreligioso in senso stretto.
"Il dialogo fra credenti esiste - dice Izzeddin Elzir, portavoce
dell'Ucoii - certamente non dialoghiamo sulle nostre fedi,
perché ognuno crede in ciò che crede, ma dialoghiamo su come
possiamo convivere insieme, ciascuno nelle proprie diversità".
(© Copyright Apcom)
Lettera aperta a Benedetto XVI
torna su
di Magdi Allam
A Sua Santità il Papa
Benedetto XVI,
Mi rivolgo direttamente a Lei, Vicario di Cristo e Capo della
Chiesa Cattolica, con deferenza da sincero credente nella fede
in Gesù e da strenuo protagonista, testimone e costruttore della
Civiltà cristiana, per manifestarLe la mia massima
preoccupazione per la grave deriva religiosa ed etica che si è
infiltrata e diffusa in seno alla Chiesa. Al punto che mentre al
vertice della Chiesa taluni alti prelati e persino dei suoi
stretti collaboratori sostengono apertamente e pubblicamente la
legittimità dell’islam quale religione e accreditano Maometto
come un profeta, alla base della Chiesa altri sacerdoti e
parroci trasformano le chiese e le parrocchie in sale da
preghiera e da raduno degli integralisti ed estremisti islamici
che perseguono lucidamente e indefessamente la strategia di
conquista del territorio e delle menti di un Occidente cristiano
che, come Lei stesso l’ha definito, “odia se stesso”,
ideologicamente ammalato di nichilismo, materialismo,
consumismo, relativismo, islamicamente corretto, buonismo,
laicismo, soggettivismo giuridico, autolesionismo,
indifferentismo, multiculturalismo.
Si tratta di una guerra di
conquista islamica che ha trasformato l’Occidente cristiano in
una roccaforte dell’estremismo islamico al punto da “produrre”
terroristi suicidi islamici con cittadinanza occidentale, dove
la minaccia più seria non è tanto quella degli efferati
tagliatori di teste che impugnano le armi, quanto quella dei
subdoli tagliatori di lingue che hanno eretto la dissimulazione
a precetto di fede islamica, dando vita a uno stato islamico in
seno allo stato di diritto, basato su un’ampia rete di moschee e
di scuole coraniche dove si predica l’odio, si inculca la fede
nel cosiddetto “martirio” islamico, si pratica il lavaggio di
cervello per trasformare le persone in combattenti della guerra
santa islamica; di enti caritatevoli e assistenziali islamici
che in cambio di aiuti materiali plagiano e sottomettono le
menti; di banche islamiche che controllano fette sempre più
ampie della finanza e dell’economia mondiale accreditando il
diritto islamico; di veri e propri tribunali islamici che in
Gran Bretagna sono già riusciti a imporre la sharia, la legge
islamica, equiparata al diritto civile su questioni attinenti
allo statuto personale e familiare, anche se assumono delle
sentenze che violano i diritti fondamentali dell’uomo, quale la
legittimazione della poligamia e la discriminazione della donna.
Questi sono fatti: ci si creda o meno, piacciano o meno, ma sono
fatti reali, oggettivi, innegabili.
Questa conquista islamica
delle menti e del territorio si è resa possibile per l’estrema
fragilità interiore dell’Occidente cristiano: sono due facce
della stessa medaglia. Il nostro Occidente emerge sempre più
come un colosso di materialità dai piedi d’argilla perché
senz’anima, in profonda crisi di valori, che tradisce la propria
identità non volendo riconoscere la verità storica ed oggettiva
delle radici giudaico-cristiane della propria civiltà. E’ un
Occidente ideologicamente e concretamente colluso con
l’avanguardia dell’esercito di conquista islamico che mira a
riesumare il mito e l’utopia della “Umma”, la Nazione islamica,
invocando il Corano che legittima l’odio, la violenza e la
morte, ed evocando il pensiero e l’azione di Maometto che ha
dato l’esempio commettendo efferati crimini, come quello che lo
vide personalmente partecipe della strage e della decapitazione
di oltre 700 ebrei della tribù dei Banu Quraizah nel 627 alle
porte di Medina.
Ebbene, Sua Santità, come
non ci si può rendere conto che la disponibilità, o peggio
ancora la collusione con l’islam come religione, che a dispetto
delle apparenze mette a repentaglio l’amore cristiano per i
musulmani come persone, culmina nel rinnegare la fede nel Dio
che si è fatto Uomo e nel cristianesimo che è testimonianza di
Verità, Vita, Amore, Libertà e Pace? Ecco perché oggi è vitale
per il bene comune della Chiesa cattolica, per l’interesse
generale della Cristianità e della stessa Civiltà occidentale
che Lei si pronunci in modo chiaro e vincolante per l’insieme
dei fedeli sul quesito di fondo alla base di questa deleteria
deriva religiosa ed etica che sta screditando la Chiesa,
scardinando le certezze valoriali e identitarie dell’Occidente
cristiano, trascinando al suicidio della nostra civiltà: è
concepibile che la Chiesa legittimi sostanzialmente l’islam come
religione spingendosi fino al punto da considerare Maometto come
un profeta?
Sua Santità, mi limiterò a
indicarLe due recenti episodi di cui sono stato testimone.
Mercoledì scorso, 15 ottobre 2008, l’arcivescovo di Brindisi,
monsignor Rocco Talucci, mi ha fatto l’onore prima di
accogliermi nella sede della Curia Arcivescovile verso le 17 e,
mezz’ora dopo, di partecipare alla presentazione
dell’autobiografia della mia conversione dall’islam al
cattolicesimo “Grazie Gesù” nella Sala della Camera di Commercio
di Brindisi. Ad organizzare il tutto è stata la mia cara amica
Mimma Piliego, medico di base, volontaria presso il Seminario
Papa Benedetto XVI e la Comunità Emmanuel, dedita al recupero
dei tossicodipendenti. L’ho citata in “Grazie Gesù” come una
delle testimoni di fede che mi hanno affascinato per la sua
spiritualità.
L’arcivescovo mi è subito
parso un fine diplomatico, attento a valutare sempre i pro e i
contro di ogni situazione, cercando di accontentare tutti e di
non irritare nessuno. Non è esattamente il tipo di Pastore della
Chiesa o più semplicemente di persona che prediligo, anche se mi
sforzo di immedesimarmi nella condizione altrui per comprendere
le ragioni profonde di chi trasforma l’equilibrismo esistenziale
in prassi quotidiana, finendo per condizionare e determinare la
stessa scelta di vita. Senonché la mia disponibilità alla
comprensione delle ragioni altrui è venuta meno quando,
intervenendo dopo la mia presentazione del libro, l’arcivescovo
Talucci ha qualificato Maometto come “un profeta” e ha
sostanzialmente legittimato l’islam come religione in quanto
“espressione dell’aspirazione dell’uomo ad elevarsi a Dio”. Non
è assolutamente mia intenzione sollevare un caso personale nei
confronti dell’arcivescovo Talucci. Perché non è affatto un caso
isolato. Magari fosse così! Purtroppo è un atteggiamento diffuso
in seno alla Chiesa cattolica odierna.
Il secondo episodio
concerne il cardinale Jean-Louis Tauran, Presidente del
Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Intervenendo
al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini il 25 agosto
2008, nel corso di una conferenza stampa che ha preceduto
l’incontro pubblico dal titolo “Le condizioni della pace”, ha
ripetuto la tesi da lui già sostenuta in passato, secondo cui le
religioni sarebbero di per sé “fattori di pace”, ma che
farebbero paura a causa di “alcuni credenti” che hanno “tradito
la loro fede”, mentre in realtà tutte le fedi sarebbero
“portatrici di un messaggio di pace e fraternità”.
La tesi del cardinale
Tauran è che le religioni sarebbero intrinsecamente buone e che
quindi lo sarebbe anche l’islam. Ne consegue che se oggi
l’estremismo e il terrorismo islamico sono diventati la
principale emergenza per la sicurezza e stabilità
internazionale, ciò si dovrebbe imputare a una minoranza
“cattiva” che interpreterebbe in modo distorto il “vero islam”,
mentre la maggioranza dei musulmani sarebbe “buona” nel senso di
rispettosa dei diritti fondamentali e dei valori non negoziabili
che sono alla base della comune civiltà dell’uomo.
La realtà oggettiva, lo
dico con serenità e animato da un intento costruttivo, è
esattamente il contrario di ciò che immagina il cardinale
Tauran. L’estremismo e il terrorismo islamico sono il frutto
maturo di chi, a partire dalla sconfitta degli eserciti arabi
nella guerra contro Israele del 5 giugno 1967 che ha segnato il
tramonto dell’ideologia laica, socialista e guerrafondaia del
panarabismo, innalzando il vessillo del panislamismo ha voluto
essere sempre più aderente al dettame del Corano e al pensiero e
all’azione di Maometto. La verità, dunque, è che l’estremismo e
il terrorismo islamico corrispondono genuinamente al “vero
islam” che è un tutt’uno con il Corano che a sua volta è
considerato un tutt’uno con Allah, opera increata al pari di
Dio, così come corrispondono al pensiero e all’azione di
Maometto.
Alla radice del male non
vi è dunque una minoranza di uomini “cattivi”, responsabili del
degrado generale, mentre le religioni sarebbero tutte ugualmente
“buone”. La verità è che le religioni sono diverse, mentre gli
uomini – al di là della fede e della cultura di riferimento -
potrebbero essere accomunati dal rispetto di regole e di valori
comuni. La verità è che il cristianesimo e l’islam sono
totalmente differenti: il Dio che si è fatto uomo incarnato in
Gesù, che ha condiviso la vita, la verità, l’amore e la libertà
con altri uomini fino al sacrificio della propria vita, non ha
nulla in comune con Allah che si è fatto testo incartato nel
Corano, che s’impone sugli uomini in modo arbitrario, che ha
legittimato un’ideologia e una prassi di odio, violenza e morte
perseguita da Maometto e dai suoi seguaci per diffondere
l’islam.
La verità, lo dico sulla
base dell’oggettività della realtà manifesta e della
consapevolezza legata all’esperienza diretta, è che non esiste
un “islam moderato”, così come invece ha sostenuto lo stesso
cardinale Tauran, mentre certamente ci sono dei “musulmani
moderati”. Sono tutti quei musulmani che, al pari di qualsiasi
altra persona, rispettano i diritti fondamentali dell’uomo e
quei valori che non sono negoziabili in quanto sostanziano
l’essenza della nostra umanità: la sacralità della vita, la
dignità della persona, la libertà di scelta.
L’amara verità è che
quella parte della Chiesa ammalata di relativismo e di
islamicamente corretto rischia di diventare più islamica degli
stessi islamici. Mi domando se la Chiesa si rende conto
dell’arbitrio commesso nell’assumere la tesi del Corano creato
anziché increato, al fine di consentire l’interpretazione e la
contestualizzazione storica dei versetti, quindi la
rappresentazione di un islam dove fede e ragione sarebbero del
tutto compatibili, quando storicamente e a tutt’oggi la
stragrande maggioranza dei musulmani crede in un Corano increato
al pari di Allah, dove i versetti hanno un valore assoluto,
universale, eterno, immodificabili? Come può la Chiesa prestarsi
al gioco di chi strumentalmente e ideologicamente
decontestualizza, scorpora, seleziona arbitrariamente il
contenuto e il messaggio coranico, al fine di evidenziare quei
versetti che estrapolati da ciò che precede e ciò che segue,
consentirebbero di affermare l’esistenza di un “islam moderato”?
Come può la Chiesa legittimare sostanzialmente un sedicente
“islam moderato”, finendo per accreditare un personaggio abietto
e criminale, che non ha avuto alcuna remora a ricorrere a tutti
i mezzi, compreso lo sterminio di chi non aderiva all’islam, per
sottometterli alla sua mercé?
Mi domando se la Chiesa si
rende conto che se non afferma e non si erge a testimone
dell’unicità, assolutezza, universalità ed eternità della Verità
in Cristo, finisce per rendersi complice nella costruzione di un
pantheon mondiale delle religioni, dove tutti ritengono che
ciascuna religione sia depositaria di una parte della verità,
anche se ciascuna religione si auto-attribuisce il monopolio
della verità? Perché stupirsi poi del fatto che il
cristianesimo, posto sullo stesso piano di una miriade di fedi e
ideologie che danno le risposte più disparate ai bisogni
spirituali, cessi di affascinare, persuadere e conquistare la
mente e i cuori degli stessi cristiani, che disertano sempre più
le chiese, che rifuggono dalla vocazione sacerdotale e più in
generale che escludono la dimensione religiosa dalla propria
vita?
Per me il cristianesimo
non è una religione “migliore” dell’islam, o la religione
“completa” dal messaggio “compiuto” rispetto ad un islam
considerato come una religione “incompleta” dal messaggio
“incompiuto”. Per me il cristianesimo è l’unica religione vera,
perché è vero Gesù, il Dio che si fa uomo e che ha testimoniato
in mezzo a noi uomini tramite le opere buone la verità, il
fascino, la ragionevolezza e la bontà del cristianesimo. Per me
l’islam che riconosce un Gesù solo umano, che pertanto condanna
il cristianesimo come eresia perché crede nella divinità di Gesù
e come idolatria perché crede nel dogma della Santissima
Trinità, è una falsa religione, ispirata non da Dio ma dal
demonio. Per me l’islam che ottemperando alle prescrizioni
coraniche ed emulando le gesta di Maometto corrompe l’animo di
chi si sottomette e uccide il corpo di chi si rifiuta, è una
religione fisiologicamente violenta e si è rivelata storicamente
aggressiva e conflittuale, del tutto incompatibile con i valori
fondanti della comune civiltà umana.
Proprio la mia esperienza
di “musulmano moderato” che perseguiva il sogno di un “islam
moderato”, mi ha fatto comprendere che si può certamente essere
“musulmani moderati” come persone ma che non esiste affatto un
“islam moderato”. Dobbiamo pertanto distinguere tra la
dimensione della persona da quella dalla religione. Con i
musulmani moderati, partendo dal rispetto dei diritti
fondamentali dell’uomo e dalla condivisione dei valori non
negoziabili della nostra umanità, si può dialogare e operare per
favorire la civile convivenza. Ma dobbiamo affrancarci
dall’errore diffuso che immagina che per poter amare i musulmani
si debba amare l’islam, che per rapportarsi in modo dignitoso
con i musulmani si debba attribuire pari dignità all’islam.
Sua Santità Benedetto XVI,
la Chiesa, il Cristianesimo e la Civiltà occidentale oggi stanno
soccombendo per l’imperversare della piaga interna del
nichilismo e del relativismo di chi ha perso la propria anima,
sotto l’incalzare della guerra di conquista di natura aggressiva
dell’estremismo e del terrorismo islamico, in aggiunta alla
deriva di un mondo che si è globalizzato ispirandosi alla
modernità occidentale ma solo nella sua dimensione materialista
e consumista, mentre non ha affatto recepito la sua dimensione
spirituale e valoriale. Finendo per avvantaggiare coloro che
rincorrono una concezione materialista e consumista della vita,
scevra da valori e regole, violando i diritti fondamentali
dell’uomo, così come è certamente il caso della Cina e
dell’India. In questo contesto assai critico e dalla prospettiva
buia, Lei oggi rappresenta un faro di Verità e di Libertà per
tutti i cristiani e per tutte le persone di buona volontà in
Occidente e nel Mondo. Lei è una Benedizione del Cielo che
mantiene in piedi la speranza nel riscatto morale e civile della
Cristianità e dell’Occidente. Ci ispiriamo a Lei e confidiamo
nella sua benedizione per ergerci a Costruttori della Civiltà
Cristiana in grado di promuovere un Movimento di riforma etica
che realizzi un’Italia, un’Europa, un Occidente e un Mondo di
Fede e Ragione. Che Dio l’assista nella missione che Le ha
conferito e che Dio ci accompagni nel comune cammino volto
all’affermazione della Verità, all’accreditamento del bene
comune e alla realizzazione dell’interesse generale
dell’umanità.
Magdi Cristiano Allam
Le religioni e il destino del mondo
torna su
di Khaled Fouad Allam
Stiamo da tempo vivendo una crisi globale e proprio per questo
la riflessione sul dialogo tra islam e cristianesimo merita di
essere riproposta sotto una nuova angolazione. Le relazioni tra
queste due grandi religioni sono ovviamente antiche, non solo
per la prossimità geografica ma per la storia delle due
tradizioni spirituali. Da decenni – per molti aspetti, dal
concilio Vaticano II – i rapporti tra musulmani e cristiani
coinvolgono diverse dimensioni, tra le quali il confronto sul
piano religioso, anche se spesso non si riesce ad approfondirlo
e a evidenziarne luci e ombre, con il risultato che non di rado
emerge la nostra incapacità a pensare oltre.
Proprio per questa crisi generalizzata bisogna pensare il
dialogo tra cristianesimo e islam nella sua dimensione
filosofica, vale a dire nella ricerca e nell’analisi di ciò che
potrebbe aiutarci a individuare i pericoli di questa crisi e
come superarla. È sempre nell’esperienza del dolore, del male e
della sofferenza che gli esseri umani sono chiamati alle proprie
responsabilità dinanzi alla storia e all’eternità. Le catastrofi
degli ultimi vent’anni, la radicalizzazione delle coscienze,
l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, il ritorno
dell’intolleranza nei confronti di alcune fedi, sono il segnale
di un male che la nostra umanità sta vivendo.
Ma è proprio l’esperienza della sofferenza, individuale o
collettiva, che rende possibile l’incontro con l’altro, anche se
la sofferenza permane comunque intatta, e ineludibile. Non è
dunque un caso che, di nuovo, nella ricerca di un nuovo ordine
internazionale e di una convivenza pacifica fra popoli e
culture, la nozione stessa di dialogo investa, com’è ovvio,
terreni non inclusi in quelli delle tradizionali questioni
religiose.
Abbiamo difficoltà a entrare nel XXI secolo perché il XX secolo
pesa ancora troppo; e se alcuni lo definiscono come il “secolo
della storia”, è semplicemente perché ha occultato il rapporto
complesso fra storia ed eternità. Un inedito conflitto fra il
desiderio di eternità e il vivere nella storia ha prodotto
l’odierno oblio della sostanza delle cose; l’uso della parola
“modernità” è significativo di tutto ciò, perché la modernità ci
ha permesso di scordare che tutto è provvisorio su questa terra,
e che qui siamo ospiti.
Viviamo ancor oggi nell’ambiguità di questo rapporto: i nostri
comportamenti ne sono impregnati, al punto che spesso nelle
religioni – ad esempio nel caso dell’islam – la storia si
impadronisce dell’eternità, ad opera degli uomini meno adatti al
dialogo. È ciò che avviene nel radicalismo islamico, che in
alcune situazioni cerca di imporre il tragico ordine della
tirannia.
L'affrontare grandi questioni come la libertà di religione – un
problema importante nel mondo islamico – rivisitando il rapporto
fra storia ed eternità finirà per incidere sul dialogo tra
musulmani e cristiani e tra islam e mondo. Il divorzio fra
storia ed eternità si è tradotto nel senso di oblio – oblio
dell’eternità, della continuità, della nostra provvisorietà – ed
è in tale oblio che si sono fatte le guerre e le rivoluzioni, è
in esso che sono nati i totalitarismi. Ma l’oblio ha intaccato
anche le grandi questioni relative al destino dell’uomo, alle
manipolazioni genetiche e alla bioetica, questioni angoscianti
perché interrogano non solo l’individuo ma l’umanità intera.
Come ristabilire questo rapporto, come definire una reale
complementarità fra il nostro vivere nella storia e il nostro
desiderio di eternità? Ogni rivelazione si definisce come una
redenzione, ma ognuna è anche un modello da riformulare volta
per volta, perché una reale temporalità, un vero attraversamento
del Mar Rosso come fece Mosè con il popolo ebraico, ha senso
solo se si congiungono i due punti cardinali, storia ed
eternità.
È anche così che si può vedere l’odierna questione del dialogo
delle civiltà: un ipotetico nuovo ordine internazionale non può
che passare attraverso due paradigmi, che andranno definiti nei
contenuti: il primo è la democrazia, il secondo è il dialogo fra
popoli, culture e religioni. Le due questioni sono intimamente
legate, e il loro sviluppo sarà di primaria importanza per
uscire dalle turbolenza di questo nuovo secolo.
Mi preme aggiungere che il dialogo non solo è necessario, ha una
urgenza sociale e una valenza etica e morale. L’islam non è una
categoria astratta, è fatto di persone che hanno speranze e
sofferenze, che vivono anche nel cuore delle città d’Europa, che
desiderano integrarsi, anch’esse protagoniste di un’Europa che
ritorni alle sue radici, aperte agli altri continenti. In un
mondo attraversato da frontiere simboliche e culturali, è forse
giunto il tempo che l’universalismo rappresenti l’antidoto
all’odierna visione pessimistica del mondo, pessimismo che rende
l’uomo muto di fronte all’umanità.
Ma la geometria variabile del dialogo può assolvere anche
un’altra funzione: liberare l’islam dal monopolio della teologia
neofondamentalista, che occulta la simmetria del rapporto fra
storia ed eternità, che tende a considerare la storia come
eternità e l’eternità come storia, con l’effetto che l’islam si
svuota della sua dimensione spirituale e impoverisce la sua
stessa cultura. Di ciò i musulmani si devono rendere conto. Il
dialogo è in qualche modo legato a quella "salvezza", anche
nella sua versione profana, che dovrà illuminare il buio dei
nostri giorni.
© Copyright L'Osservatore Romano del 30 novembre 2008.
Il dialogo secondo Benedetto XVI
torna su
di Lucetta Scaraffia
Nella
lettera a Marcello Pera pubblicata nel
suo libro Perché dobbiamo dirci cristiani, Benedetto XVI ha
scritto che è necessario un "dialogo interculturale che
approfondisca le conseguenze culturali delle idee religiose di
base".
Anche se l'affermazione ha provocato molti commenti, non è certo
la prima volta che il Papa esprime questa convinzione e cerca di
indirizzare in questo senso il dialogo con le altre religioni.
Già in uno dei primi momenti del suo pontificato,
nel messaggio dopo la messa concelebrata con i cardinali il 20
aprile 2005, si è espresso a questo
proposito: "Non risparmierò sforzi e dedizione per proseguire
il promettente dialogo avviato dai miei venerati Predecessori
con le diverse civiltà, perché dalla reciproca comprensione
scaturiscano le condizioni di un futuro migliore per tutti".
Questa affermazione, seguita e confermata da diverse altre prese
di posizione, ha fatto capire che l'atteggiamento della Santa
Sede nei confronti del dialogo con le altre religioni - fra le
quali naturalmente spicca l'Islam - avrebbe preso un tono
diverso. Si sarebbe passati cioè da un clima di scambio più
teorico a un confronto concreto fra le civiltà che erano frutto
delle diverse tradizioni religiose.
La
dichiarazione Dominus
Iesus, infatti, ha chiarito in modo
irrevocabile che il dialogo interreligioso doveva prendere le
distanze da un percorso che poteva portare verso "il relativismo
delle religioni", pericolo che si correva realmente in un clima
divenuto - come il cardinale Joseph Ratzinger aveva sottolineato
in un'intervista al quotidiano italiano "la Repubblica"
pubblicata il 16 gennaio 2005 - "una sorta di anarchismo
morale e intellettuale" che "porta a non accettare più una
verità unica. Il dialogo interreligioso non deve diventare un
movimento nel vuoto".
Infatti, se il confronto avviene su temi teologici come la
natura di Dio e le vie della salvezza, è quasi impossibile non
scivolare, da una parte, sul piano della sterile
contrapposizione o, dall'altra nell'eccesso opposto, cioè quello
di considerare come ugualmente vere tutte le religioni.
La dichiarazione Dominus Iesus si proponeva di fare chiarezza
non solo - e questo è stato l'unico aspetto preso in
considerazione dai commentatori - rispetto ad alcune linee che
si stavano manifestando all'interno del processo di dialogo
interreligioso dal punto di vista teorico (e cioè di fronte a
nuove aperture da parte di teologi cattolici), ma anche nei
confronti di un processo concreto di pratica interreligiosa che
è in atto negli organismi mondiali. Intorno alle Nazioni Unite
si stavano infatti formando, sotto la veste di variegati
movimenti interreligiosi, dei gruppi internazionali ben
finanziati che si proponevano di cancellare le religioni
tradizionali per sostituirle con una religione mondiale, unica
per tutti, che avrebbe garantito la pace nel mondo. In un clima
sempre meno interessato alla libertà religiosa - e che proprio
per questo mette tutte le religioni sullo stesso piano, siano
esse tolleranti o intolleranti, confondendo volutamente il
proselitismo con la violenza - nei documenti ufficiali dell'Onu
è stato infatti ribadito più volte che chi considera vera la
propria religione a discapito delle altre è colpevole di
fanatismo, e ricade quindi in quello che viene considerato "odio
religioso", anche se il suo atteggiamento non contempla il
ricorso alla discriminazione e alla violenza. E oggi esiste una
rete mondiale, formata da una quindicina di organizzazioni
internazionali che si qualificano come interreligiose, che ha
già organizzato grandi incontri.
Proprio di fronte a questa realtà, di cui spesso i gruppi
cattolici dediti al dialogo interreligioso non si rendono conto,
si è imposta la necessità di porre dei punti fermi, cioè
l'unicità e l'universalità della salvezza costituita da Cristo
nella storia dell'umanità, e di conseguenza la necessità della
Chiesa come mediatrice assoluta di questa.
In sostanza, la Dominus Iesus ha chiarito i termini teologici
entro i quali può spingersi il dialogo con le altre religioni,
termini che senza dubbio sono poco flessibili. Ma Benedetto XVI
ha chiarito che il dialogo, invece, può e deve avvenire fra le
culture che di queste religioni sono frutto. Questo centrare il
dialogo su temi culturali permette del resto di affrontare nodi
centrali, come la dignità dell'essere umano, il rispetto della
donna e la libertà religiosa, temi che il dialogo teologico, o
la prassi di riunioni di preghiera non affrontavano.
Il primo incontro di Benedetto XVI con esponenti di altre
religioni
è avvenuto a
Colonia, all'inizio del quinto mese di
pontificato, nel corso della ventesima Giornata mondiale della
gioventù. Particolarmente significativo
è stato
quello con la rappresentanza dei musulmani
- con i quali il dialogo si è attenuto strettamente ai temi
"culturali" - il 20 agosto 2005. Il gesuita Samir Khalil Samir
ha commentato le sue parole sottolineando come il pensiero del
Papa sia rivelatore di una linea forte: "Il dialogo con
l'islam e con le altre religioni non può essere essenzialmente
un dialogo teologico o religioso, se non in senso largo di
valori morali. Esso deve essere un dialogo di culture e di
civiltà".
Perché - scrive ancora lo studioso gesuita - "si tratta di
affrontare il vivere insieme sotto gli aspetti concreti della
politica, dell'economia, della storia, della cultura, delle
usanze". Benedetto XVI propone cioè, se vogliamo trovare una
base comune, di "uscire dal dialogo religioso per mettere
fondamenti umanistici alla base di questo dialogo, perché solo
questi sono universali e comuni a tutti gli esseri umani".
Il fatto di spostare il confronto dalla sfera religiosa a quella
culturale ha permesso a Benedetto XVI non solo di affrontare
temi centrali come la dignità dell'essere umano e la libertà
religiosa, ma anche di prendere le distanze da alcuni aspetti
della modernità occidentale contrari alla tradizione cattolica.
Questo avviene soprattutto per un nodo centrale nel rapporto fra
l'Occidente e le altre culture: il ruolo della donna e di
conseguenza l'etica sessuale e familiare. A questo proposito il
Papa, pur difendendo con forza la dignità e l'uguaglianza della
donna, ha preso le distanze da un processo di emancipazione
femminile occidentale centrato sulla separazione fra sessualità
e riproduzione, cioè sulla presa di distanza delle donne dal
loro ruolo biologico di madri.
Benedetto XVI ha infatti denunciato più volte la crisi morale in
cui versa la civiltà occidentale, individuando già nel libro Il
sale della terra in essa la principale ragione del conflitto in
atto con i musulmani: "Poi è sopravvenuta la grande crisi
morale del mondo occidentale, che poi è il mondo cristiano. Di
fronte alle profonde contraddizioni dell'Occidente e alla sua
confusione interiore - di fronte alla quale contemporaneamente
si sviluppava una nuova potenza economica dei paesi arabi - si è
risvegliata l'anima islamica: siamo noi che abbiamo una identità
migliore, la nostra religione resiste, voi non ne avete più
nessuna. Così i musulmani hanno oggi la consapevolezza che
l'islam, alla fine, è davvero rimasto sulla scena come la
religione più vitale, che essi hanno da dire al mondo qualcosa e
che sono dunque la vera forza religiosa del futuro". Tanto da
dire esplicitamente che l'Europa "è arrivata ad odiare se stessa".
E non c'è dubbio che il cardinale Ratzinger ha individuato una
delle ragioni centrali di questa decadenza nella separazione fra
sessualità e procreazione che è diventato un "diritto"
imprescindibile. Rispetto a questa tendenza dei diritti tipica
di una certa cultura progressista occidentale il Papa ha preso
nettamente le distanze, e in questo modo ha aperto una
possibilità di confronto positivo con le altre culture che -
legate alla realtà naturale e a una etica familiare pure spesso
diversa da quella cristiana - vedono però con preoccupazione
questo processo in atto nei paesi occidentali.
In Occidente, infatti, si è cercato di togliere dal matrimonio
tutto ciò che costituiva rinuncia e sacrificio, quanto sembrava
incompatibile con il progetto di realizzazione individuale, e lo
si è distrutto, o almeno lo si è svuotato del suo vero
significato.
In questo contesto, con la sua prima enciclica Deus caritas
est Benedetto XVI ricorda con forza la ricchezza del
matrimonio cristiano sia alla secolarizzata cultura occidentale
sia alle altre culture: ancora una volta, cioè, un tema
teologico come l'amore e il matrimonio possono essere ricondotti
a un dialogo culturale, a un confronto non ideologico ma legato
alla realtà di vita degli esseri umani, a quella realtà di vita
quotidiana dove si sperimentano le convivenze possibili fra
tradizioni culturali diverse.
Quindi, proprio lo spostamento del dialogo dal terreno teorico a
quello delle più concrete forme di civiltà permette di
affrontare davvero i problemi principali invece di creare
apparenti ma falsi piani di collaborazione. E di far risaltare
le differenze fra la tradizione culturale che nasce dal
cattolicesimo e la deriva secolarizzata della cultura
occidentale.
(©L'Osservatore Romano - 5 dicembre 2008)
Nota di InternEtica
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Viene
spontaneo esprimere qualche perplessità: se è bene che parlino i
leader religiosi, le sfide della convivenza coinvolgono
direttamente i cittadini e la politica, sulla quale i leader
religiosi influiscono in maniera cogente solo nei paesi islamici
che sono teocratici, ammesso che la galassia islam si lasci
coinvolgere tutta dal dialogo...
Poiché dunque i problemi sul tappeto e le loro soluzioni
riguardano maggiormente, nella prassi comune da perseguire, i
cittadini e i politici di buona volontà, ad essi spetta il
dialogo in primis.
Secondo la sua Missione la Chiesa, più che sforzarsi di dialogare, deve
preoccuparsi di
rendere il vero culto a Dio e
custodire e diffondere le Verità di Fede... è solo da qui che
scaturiscono le virtù,
che riguardano la conversione e la trasformazione dei singoli e
la conseguente possibile rinascita culturale e sociale. Perché
la condivisione di sani valori
rimane un dato esteriore che è sempre meglio di niente ma non ha
in sé la vis
trasformante dell'esercizio delle virtù teologali... certo nella
loro pienezza esse sono un punto di arrivo; ma una volta che un
credente porta nelle sue relazioni una Fede viva, c'è già un
inizio del Regno di Dio in cammino... e solo su questo si può
pensare di costruire qualcosa di valido.
Appare invece difficile che un liberismo selvaggio come quello
che stiamo vivendo - che per essere quello che è ha già
estromesso Dio, mettendo al centro l'uomo, come del resto ha
fatto il comunismo - faccia del Signore Nostro Gesù Cristo e
soprattutto della Sua Divinità e della Sua Regalità il vero
fondamento... e diventa rischioso, in mancanza di una autentica
Signoria di Cristo, quello che ne può venir fuori. Potrebbe
addirittura darsi la strumentalizzazione del Cristianesimo come
'religione civile'!
In questo
senso il 'dialogo delle culture' propugnato dal Papa appare realistico e finalmente può consentire alla Chiesa di uscire
dalle ambiguità di un falso ecumenismo e di un dialogo
interreligioso privo di ricadute nella realtà, foriero piuttosto
di indebite intromissioni nelle questioni ecclesiali, e di
riprendere l'Annuncio...
È sintomatico che Fouad Allam
dica: "Il dialogo è in qualche modo legato a quella "salvezza",
anche nella sua versione profana, che dovrà illuminare il buio
dei nostri giorni". Sembra sia in qualche modo necessario
'accontentarsi' di una "salvezza in versione profana"; ma è vera
salvezza? Torna sempre il discorso su Chi è - e non su cosa - il
Fondamento su cui si vuole costruire...