Vespri a Regensburg,
“Diventare vedenti per dare testimonianza". La fede come
forza dell'amore.
La fede in Gesù
come Figlio di Dio, l’essere testimoni e l’agape sono i tre
aspetti che il Papa ha sottolineato, stasera, durante la
celebrazione dei vespri nel duomo di Regensburg. Innanzitutto,
è “la fede nel fatto che Gesù è il Figlio di Dio venuto
nella carne” che “ci distingue come cristiani”. “Nell'epoca
degli incontri multireligiosi – ha avvertito Benedetto XVI -
siamo facilmente tentati di attenuare un po' questa confessione
centrale o addirittura di nasconderla. Ma con ciò non rendiamo
un servizio all'incontro, né al dialogo. Con ciò rendiamo
soltanto Dio meno accessibile, per gli altri e per noi stessi”.
“In questa nostra comune confessione e in questo nostro comune
compito – ha aggiunto il Santo Padre - non esiste alcuna
divisione tra noi”. In realtà, “la confessione deve
diventare testimonianza”; anzi, “il testimone di Gesù
Cristo deve affermare la sua testimonianza con l'intera sua
esistenza, con la vita e con la morte”. Richiamando la I
Lettera di San Giovanni, il quale spiega che “perché ha
veduto, può essere testimone”, il Papa ha evidenziato che
ciò “presuppone, però, che anche noi – le generazioni
successive – siamo capaci di diventare vedenti, al fine di
potere, come vedenti, dare testimonianza”. Oltre a pregare il
Signore “di renderci vedenti”, Benedetto XVI ha esortato ad
aiutarci “a vicenda a sviluppare questa capacità, per poter
rendere vedenti anche gli uomini del nostro tempo, così che a
loro volta, attraverso tutto il mondo da loro stessi costruito,
riescano a riscoprire Dio”.
Per il Papa, oggi
“solo mediante l'incontro con Gesù Cristo la vita diventa
veramente vita”. “Essere testimone di Gesù Cristo significa
soprattutto”, perciò, “essere testimone di un determinato
modo di vivere”. “In un mondo pieno di confusione – ha
chiarito Benedetto XVI - noi dobbiamo dare nuovamente
testimonianza degli orientamenti che rendono una vita veramente
vita. Questo importante compito comune a tutti i credenti lo
dobbiamo affrontare con grande decisione: è responsabilità dei
cristiani, in questa ora, di rendere visibili quegli
orientamenti di un giusto vivere, che a noi si sono chiariti in
Gesù Cristo”. Agape-amore è la terza parola evidenziata dal
Santo Padre. “Agape – ha detto - non significa nulla di
sentimentale e nulla di esaltato; è qualcosa di totalmente
sobrio e realistico”. Insomma, “l’agape (l'amore) è
veramente la sintesi della Legge e dei Profeti. In essa è ‘avviluppato’
tutto; un tutto, però, che nel quotidiano deve sempre di nuovo
essere ‘sviluppato’”. “All'amore l'uomo può credere”,
ha proseguito il Papa, richiamando il versetto 16 della I
Lettera di San Giovanni, in cui “si trova la parola
meravigliosa: ‘Noi abbiamo creduto all'amore’”. “Testimoniamo
la nostra fede – ha concluso - così che appaia come forza
dell'amore, ‘perché il mondo creda’”.
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[Fonte: SIR 12 settembre 2006]
Testo
integrale del discorso
Cari fratelli e
sorelle in Cristo!
Ci siamo riuniti – cristiani ortodossi, cattolici e
protestanti – per cantare insieme le Lodi serali di Dio. Il
cuore di questa liturgia sono i salmi, nei quali confluiscono
l'Antica e la Nuova Alleanza e la nostra preghiera si unisce
all'Israele credente che vive nella speranza. Questa è un'ora
di gratitudine per il fatto che noi possiamo così pregare
insieme e nel nostro rivolgerci al Signore, possiamo crescere
contemporaneamente nell'unità anche tra noi.
Tra i partecipanti a questi Vespri vorrei salutare cordialmente
innanzitutto i rappresentanti della Chiesa ortodossa. Ritengo
già da sempre un grande dono della Provvidenza il fatto che,
come professore a Bonn, ho avuto modo di conoscere e di amare la
Chiesa ortodossa, per così dire, personalmente, cioè nelle
persone di due giovani Archimandriti, diventati poi Metropoliti,
Stylianos Harkianakis e Damaskinos Papandreou. A Ratisbona,
grazie alle iniziative del Vescovo Graber, si aggiungevano
ulteriori incontri: nei Simposi sul "Spindlhof" e a
causa dei borsisti che hanno studiato qui. Sono lieto di poter
rivedere qualche volto a me familiare e di trovare ravvivate le
vecchie amicizie. Fra pochi giorni si riprenderà a Belgrado il
dialogo teologico sul tema fondamentale della koinonia – nelle
due dimensioni che la Prima Lettera di Giovanni ci indica subito
all'inizio, nel primo capitolo. La nostra koinonia è anzitutto
comunione col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo nello Spirito
Santo; è la comunione con lo stesso Dio Trino, resa possibile
dal Signore mediante la sua incarnazione e l'effusione dello
Spirito. Questa comunione con Dio crea poi anche la koinonia tra
gli uomini, come partecipazione alla fede degli Apostoli e così
come comunione nella fede – una comunione che
nell'Eucaristia diventa "corporea", edificando
l'unica Chiesa che si espande oltre tutti i confini (cfr 1 Gv
1,3). Io spero e prego che questi colloqui portino frutti e che
la comunione col Dio vivente che ci unisce, come la comunione
tra noi nella fede tramandata dagli Apostoli, si approfondiscano
e maturino fino a quell'unità piena, dalla quale il mondo può
riconoscere che Gesù Cristo è veramente l'inviato di Dio, il
Figlio di Dio, il Salvatore del mondo (cfr Gv 17,21).
"Perché il mondo creda" è necessario che noi siamo
una cosa sola: la serietà di questo impegno deve animare il
nostro dialogo.
Saluto di cuore anche gli amici delle varie tradizioni della
Riforma. Anche in questo contesto si risvegliano molti ricordi
nel mio intimo: ricordi di amici del circolo Jäger-Stählin,
che ormai sono deceduti; con questi ricordi si mescola la
gratitudine per gli incontri di questa ora. Ovviamente, penso in
particolare all'impegno di faticosa ricerca per trovare il
consenso circa la giustificazione. Ricordo tutte le fasi di quel
processo fino al memorabile incontro con il defunto Vescovo
Hanselmann qui a Ratisbona – un incontro che poté contribuire
in modo essenziale al raggiungimento della conclusione concorde.
Sono lieto che nel frattempo anche il "Consiglio mondiale
delle Chiese metodiste" abbia aderito a tale Dichiarazione.
Il consenso circa la giustificazione resta per noi un grande
impegno, in realtà non ancora totalmente adempiuto: nella
teologia la giustificazione è un tema essenziale, ma nella vita
dei fedeli – mi pare – oggi appena presente. Anche se a
causa degli eventi drammatici del nostro tempo il tema del
perdono reciproco si mostra di nuovo in tutta la sua urgenza –
del fatto che ci è necessario innanzitutto il perdono da parte
di Dio, la giustificazione per mezzo di Lui, si è poco
consapevoli. In gran parte non risulta più alla coscienza
moderna il fatto che davanti a Dio abbiamo veramente dei debiti
e che il peccato è una realtà che può essere superata
soltanto per iniziativa di Dio. Dietro a questo affievolirsi del
tema della giustificazione e del perdono dei peccati sta in
definitiva un indebolimento del nostro rapporto con Dio. Per
questo, il nostro primo compito sarà forse quello di riscoprire
in modo nuovo il Dio vivente nella nostra vita.
Ascoltiamo ora con questo proposito ciò che san Giovanni
intendeva dirci poco fa nella lettura biblica. Vorrei
sottolineare in modo particolare tre affermazioni di questo
testo complesso e ricco. Il tema centrale di tutta la Lettera
appare nel versetto 15: "Chiunque riconosce che Gesù è il
Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio". Ancora
una volta, come già prima nei versetti 2 e 3 del quarto
capitolo, Giovanni mette in luce la confessione che, in fondo,
ci distingue come cristiani: la fede, cioè, nel fatto che Gesù
è il Figlio di Dio venuto nella carne. "Dio nessuno l'ha
mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del
Padre, Lui lo ha rivelato", si legge alla fine del prologo
del quarto Vangelo (Gv 1,18). Chi è Dio, lo sappiamo da Gesù
Cristo: dall'unico che è Dio. È mediante Lui che veniamo in
contatto con Dio. Nell'epoca degli incontri multireligiosi siamo
facilmente tentati di attenuare un po' questa confessione
centrale o addirittura di nasconderla. Ma con ciò non rendiamo
un servizio all'incontro, né al dialogo. Con ciò rendiamo
soltanto Dio meno accessibile, per gli altri e per noi stessi.
È importante che noi poniamo in discussione in modo completo e
non soltanto frammentario la nostra immagine di Dio. Per esserne
capaci, deve crescere ed approfondirsi la nostra comunione
personale con Cristo e il nostro amore per Lui. In questa nostra
comune confessione e in questo nostro comune compito non esiste
alcuna divisione tra noi. Vogliamo pregare, affinché questo
fondamento comune si rafforzi sempre di più.
Con ciò ci troviamo già dentro al secondo argomento che
intendevo toccare. Di esso si parla nel versetto 14 dove si
legge: "Noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre
ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo". La
parola centrale di questa frase è: μαρτυρουμεν – testimoniamo,
siamo testimoni. La confessione deve diventare testimonianza. La
parola soggiacente μάρτυς rievoca il fatto, che il
testimone di Gesù Cristo deve affermare la sua testimonianza
con l'intera sua esistenza, con la vita e con la morte. L'autore
della Lettera dice di sé: "Noi abbiamo veduto".
Perché ha veduto, egli può essere testimone. Presuppone,
però, che anche noi – le generazioni successive – siamo
capaci di diventare vedenti, al fine di potere, come vedenti,
dare testimonianza. Preghiamo dunque il Signore di renderci
vedenti! Aiutiamoci a vicenda a sviluppare questa capacità, per
poter rendere vedenti anche gli uomini del nostro tempo, così
che a loro volta, attraverso tutto il mondo da loro stessi
costruito, riescano a riscoprire Dio! Perché, attraverso tutte
le barriere storiche, possano di nuovo scorgere Gesù, il Figlio
mandato da Dio, nel quale vediamo il Padre. Nel versetto 9 si
dice che Dio ha mandato il Figlio nel mondo, perché noi
avessimo la vita. Non possiamo forse costatare oggi che solo
mediante l'incontro con Gesù Cristo la vita diventa veramente
vita? Essere testimone di Gesù Cristo significa soprattutto:
essere testimone di un determinato modo di vivere. In un mondo
pieno di confusione, noi dobbiamo dare nuovamente testimonianza
degli orientamenti che rendono una vita veramente vita. Questo
importante compito comune a tutti i credenti lo dobbiamo
affrontare con grande decisione: è responsabilità dei
cristiani, in questa ora, di rendere visibili quegli
orientamenti di un giusto vivere, che a noi si sono chiariti in
Gesù Cristo. Egli ha riassunto nel suo cammino di vita tutte le
parole della Scrittura: "Ascoltatelo!" (Mc 9,7).
Con ciò siamo giunti alla terza parola che, in questa Lettura,
volevo mettere in rilievo: agape – amore. È questa la parola
guida di tutta la Lettera e specialmente del brano che abbiamo
ascoltato. Agape non significa nulla di sentimentale e nulla di
esaltato; è qualcosa di totalmente sobrio e realistico. Ho
cercato di spiegarne qualcosa nella mia Enciclica Deus
caritas est. L'agape (l'amore) è veramente la sintesi della
Legge e dei Profeti. In essa è "avviluppato" tutto;
un tutto, però, che nel quotidiano deve sempre di nuovo essere
"sviluppato". Nel versetto 16 del nostro testo si
trova la parola meravigliosa: "Noi abbiamo creduto
all'amore". Sì, all'amore l'uomo può credere.
Testimoniamo la nostra fede così che appaia come forza
dell'amore, "perché il mondo creda" (Gv 17,21)! Amen!