“La
riforma di Benedetto XVI” - La Liturgia tra innovazione e tradizione
Intervista all'Autore, Don Nicola
Bux
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Professor Bux,
può definire, in poche parole, che cosa si
deve intendere per Liturgia?
La Sacra Liturgia è un annuncio, che ha
cambiato la mia vita ed ha da dire qualcosa
anche alla sua.
L’attrattiva della Bellezza è il percorso
ragionevole alla Verità. La Bellezza è lo
splendore della Verità. Facciamo un
sillogismo: siccome la sacra e divina
liturgia – che include arte e musica sacra –
è Bellezza, senza Verità non c’è liturgia,
culto a Dio. Se vogliamo è Gesù che lo
ricorda nel vangelo di san Giovanni: “I veri
adoratori, adoreranno il padre in spirito e
verità”. Ma per trovare la Verità bisogna
conoscere le creature.
Per capire la liturgia bisogna guardare alla
direzione in cui essa stessa guarda, indica,
non obbliga, come Gesù che non ci obbliga a
fare, però ci guida. E allora saremo felici
e sicuri. Seguire questo è convertirsi.
Seguendo la sacra liturgia, ad un certo
punto i riti e i simboli spariranno,
svelando il significato; il Mistero
penetrerà allora in tutte le direzioni:sarà
il cielo sulla terra, la rappresentazione
del Paradiso.
Quale posto occupa la tradizione nella
Liturgia?
Mi è semplice rispondere: la tradizione sta
alla Liturgia come le radici alla pianta. La
tradizione si occupa del passaggio della
verità attraverso la forma. Infatti, l’uomo,
e quindi la Chiesa, si è interrogata nei
secoli sul come celebrare il culto, cercando
di riflettere in esso un barlume della
bellezza infinita del Creatore e,
inoltrandosi nei misteri di Dio, non può che
vivere la bellezza come verità, non può
vivere se non in maniera dinamica la forma.
E siccome questa esprime la bellezza, in
quanto verità, senza verità non c’è culto e
non c’è Dio. L’oggettività della bellezza è
direttamente legata alla verità. La verità
si è fatta carne. Quindi, per conoscere la
verità, bisogna conoscere le creature.
Certamente, il limite della creatura, che
tende all’Infinito, in un processo ascetico,
non si porta a compimento su questa terra.
Qui, sulla terra, se ne intravedono i
bagliori e già quando questo avviene, basta
per essere folgorati. Guardi, se la Liturgia
fosse fatta di riti, di gesti e di carne –
come disse Benedetto XVI nella Via Crucis
del 2005 – sarebbe solo un’evasione, una
cabala, “una danza vuota attorno al vitello
d’oro che siamo noi stessi”.
Lei parla nel libro di arte e di musica
legati al luogo di culto. Perché?
C’è un grande nesso tra fede e arte. Gli
artisti spesso intuiscono quel che è
intraducibile dell’infinita bellezza dello
spirito creatore. Loro dipingono,
scolpiscono e traducono in musica solo ciò
che è un barlume di quello splendore, che è
balenato per qualche istante davanti agli
occhi dello spirito. Di quest’esperienza, il
credente non si meraviglia. Egli sa di
essere affacciato per un attimo su quell’abisso
di luce che in Dio ha la sua sorgente
principale. Non si dispiace, anzi, ne
gioisce. Ecco perché i veri artisti sono
pronti a riconoscere i propri limiti e a
riconoscersi nelle parole di Paolo, secondo
il quale “Dio non dimora nei templi
costruiti dalle mani dell’uomo”. Questo
significa che la bellezza, nell’anima del
credente, si coniuga al vero e, così, la via
dell’arte, consente alle anime di essere
rapite dal mondo sensibile all’eterno.
Chiunque ascolti un’antifona gregoriana, non
può che soggiacere alla bellezza della sua
cristallina struttura. In essa si esprimono,
nella costruzione musicale, i gradini che
l’anima percorre nell’ascesi a Dio. E, nella
coscienza di ciò, conosce la profondità più
intima dell’essere pensante. Insomma, l’arte
nella Liturgia non riecheggia solo la
rivelazione di Dio in Gesù Cristo, ma Cristo
stesso rivela, nel Suo quotidiano sacrificio
sull’altare, l’uomo all’uomo.
Che cosa intende per riforma della
Liturgia?
La Liturgia è un processo vitale e dinamico,
che non può essere ri-formato. È un
processo vivo, ineluttabile, necessario.
Ecco il vero senso della ri-forma, che non è
una sorta di ri-formulazione, ma è un
processo continuo. Ecco perché la Liturgia
si muove, non sta mai ferma. Il compito di
trasmettere qualcosa da una generazione
all’altra, non è proprio, forse, nella
tradizione? Il Concilio Vaticano II ha
ordinato una riforma dei libri liturgici, ma
non ha proibito i precedenti. Ciò sarebbe
estraneo allo spirito stesso della Chiesa.
Il concesso stesso di tradizione, spesso è
concepito in maniera errata. La tradizione,
in realtà, è il passaggio della verità
attraverso la forma.
Che cosa connota in modo sostanziale la
Liturgia?
La verità, il Mistero, che rinnova
continuamente la Liturgia. L’azione umana si
esplica nel rendere gli strumenti umani
docili al Mistero.
Benedetto XVI fece questo esempio: talvolta
il restauratore di un dipinto, con il
proposito ottimo di restaurarlo, aggredisce
l’opera e ne stravolge perfino l’assetto. La
Liturgia deve consentire all’uomo di
coltivare il suo stupore. È dallo stupore
che nasce la fede, il senso del mistero, che
è l’humus della fervente preghiera.
Quale segno più alto è lo sguardo del
celebrante alla Croce. Il popolo di Dio, di
riflesso, guarderà dove il sacerdote guarda
e questo sguardo diverrà collettivo e si
sposerà ad un cosmo che tutto genuflesso si
prostrerà davanti a Dio, che si fa pane di
Vita Eterna.
Qual è, quindi, il compito del sacerdote
nella Liturgia?
È
il sacerdote stesso che lo dice: “Ti
ringraziamo, Signore, per averci ammessi
alla tua presenza a compiere il servizio
sacerdotale”. Un volta, il sacerdote doveva
dire alcune preghiere prima della Messa,
doveva lavarsi le mani, dire ancora
preghiere prima di indossare ogni indumento
sacro.
Tutto questo non è stato abolito, è stato
accantonato. Il sacerdote è chiamato ad
esprimere la sua relazione e quella della
comunità con Dio. Egli è un ponte e, come
tale, deve rimanere umile e soprattutto
cosciente che celebrando l’Eucaristia
partecipa al mistero “che era fin da
principio”.
A mio parere, il sintomo evidente della
de-formazione della Liturgia è dato dalla
diversa posizione del sacerdote nella
seconda parte della messa. A differenza di
tutti riti orientali che sin dall’antichità
l’hanno conservata tuttora. Il primato,
quando si partecipa alla Liturgia, deve
essere dato a Dio.
È
Suo il primato; è Egli
stesso che dice: “Non siete voi che avete
scelto me, ma io che ho scelto voi”. La
Liturgia deve considerare che c’è un ‘prima’,
che è Cristo, il Verbo che si è fatto carne.
Santa Teresa d’Avila diceva che la preghiera
non inizia se non ci accorgiamo della sua
Presenza.
Il Concilio insiste sulla partecipazione
dei fedeli. Come dobbiamo intenderla?
Diceva Maria Callas che, in un contesto in
cui non c’è rispetto per la sacralità
dell’arte, non avrebbe potuto eseguire
un’opera lirica. Questo rispetto del sacro
dobbiamo intenderlo come devozione. Mi
spiego: è questa una parola dannata
all’oblio e confusa con il devozionismo.
Significa, invece, la dedizione dell’essere
umano a Dio, che culmina nell’offerta di sé,
della propria vita. San Paolo la descrive
come “offrire i propri corpi in sacrificio
vivente”. Il corpo sta ad indicare la
persona. Il sacrificio, per gli ebrei,
consisteva nell’atto dello sgozzamento delle
vittime animali: una cosa sacra, perciò
sacrificio. L’Apostolo, ora, dice che il
sacrificio non è più questo, ma l’offerta
totale di se stesso a Dio, che include mente
e cuore, parola e vita, perciò lo chiama –
nell’originale greco – loghikè latria, cioè
culto razionale, che coinvolge la
caratteristica fondamentale dell’essere, che
è la ragione. Questa è la devozione vera, a
cui deve giungere la partecipazione di cui
tanto si parla per i fedeli; ma innanzitutto
il prete deve celebrare con devozione,
guardando e pensando a Colui che è stato
trafitto per dare la vita. Questo libro,
spero di averlo scritto mosso da sincera
devozione e al fine di indicare a molti a
fare altrettanto.
È importante, quindi, la forma, nella
Liturgia?
Se il bello è lo splendore del Vero – lo
dice Sant’Agostino – la Liturgia non può
essere che una celebrazione del Vero: è
vivere il Mistero della presenza di Dio in
una realtà fisica. Allora, tutto, durante la
celebrazione della Santa Messa, deve
riecheggiare questa Bellezza, deve
orientarsi alla Suprema Croce del Salvatore.
E’ proprio dalla Croce, nel momento in cui
Dio si china sul Figlio, che si è fatto
“peccato” – come dice San Paolo – lì e solo
da lì inizia la Redenzione. Ecco perché è
importante la centralità della Croce
sull’altare e lo sguardo nella preghiera ad
essa rivolto.
Perché il Papa scrive il
Motu Proprio?
Il nostro Santo Padre, con questo atto,
consente ai figli della Chiesa che
desiderino esprimere il culto con l’antico
rito che è giusto chiamare, come fa Martin
Mosebach, gregoriano, la possibilità di
farlo liberamente. Cosa peraltro mai negata
dal Concilio Vaticano II. È
sintomatico che il defunto patriarca
ortodosso di Mosca, all’indomani della
pubblicazione del Motu proprio, abbia
plaudito dicendo che il ripristino della
tradizione, avvicina i cristiani tra loro.
Questo esprime la grande liberalità con cui
agisce Benedetto XVI, nel vero e unico
spirito di reale ecumenismo……nel solco della
figliolanza alla Santa Madre Chiesa. Il vero
paradosso è che quest’atto liberale venga
interpretato come sopruso. Ci sarebbe da
chiedersi: i liberali, oggi, sono
intolleranti e reazionari? La riabilitazione
dell’antico rito serve a ridar vigore al
nuovo che si inaridirebbe senza l’antico.
Per comprendere questo, basta leggere il
Discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana
sulla continuità del Concilio con la
tradizione (22 dicembre 2005).
È
in corso una “battaglia” sulla Liturgia?
Se c’è stata una “battaglia” sulla Liturgia
– che ancora oggi è terreno di scontro –
evidentemente qualcosa di sostanziale nel
tempo è mutato.
È
una situazione da riequilibrare e le due
forme liturgiche devono trovare oggi
conciliazione.
Ricordiamo quanto scriveva Benedetto XVI nel
Discorso del Papa ai Vescovi francesi del 14
settembre 2008: “Il culto liturgico è
l’espressione più alta della vita
sacerdotale ed episcopale, come anche
dell’insegnamento catechetico. Nel ‘Motu
Proprio’ Summorum Pontificum sono stato
portato a precisare le condizioni di
esercizio di tale compito, in ciò che
concerne la possibilità di usare tanto il
messale del Beato Giovanni XXIII quanto
quello di Paolo VI. Alcuni frutti di queste
nuove disposizioni si sono già manifestati,
e io spero che l’indispensabile
pacificazione degli spiriti sia, per grazia
di Dio, in via di realizzarsi”.
Dossier a cura di Danilo Quinto - Agenzia
Fides 7/4/2009