«Dio non è cattolico.
Parola di cardinale»
Sandro Magister su www.chiesa 12 novembre 2008
Osservazioni sulle "conversazioni notturne" di
Carlo Maria Martini e Georg Sporschill
di Pietro De Marco
Carlo Maria Martini pubblica un
libro "sul rischio della fede" e invita a diffidare delle definizioni
dottrinali, perché Dio "è al di là". Ma così il rischio è che svaniscano
gli articoli del Credo, obietta il professor Pietro De Marco. E spiega
perché
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L'ultimo libro del
cardinale Carlo Maria Martini uscito in Italia, come già qualche mese fa
in Germania e ora anche in Spagna, ha subito conquistato l'alta
classifica dei più venduti. È intitolato "Conversazioni notturne a
Gerusalemme. Sul rischio della fede", ed è in forma di intervista, col
gesuita tedesco Georg Sporschill.
Le volte in cui Benedetto XVI ha parlato in pubblico del cardinale
Martini – famoso biblista e arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002 – lo
ha sempre elogiato come "un vero maestro della 'lectio divina', che
aiuta ad entrare nel vivo della Sacra Scrittura".
In questo suo libro, però, il cardinale non appare altrettanto
magnanimo, nel giudicare gli atti di governo e di magistero degli ultimi
papi, da Paolo VI in poi.
In un precedente servizio, www.chiesa ha già riferito dell'attacco
frontale portato da Martini contro l'enciclica "Humanae Vitae".
Ma nel libro c'è di più. C'è una ricorrente accusa alla Chiesa di
"involuzione". Mentre all'opposto Martini reclama una Chiesa
"coraggiosa" e "aperta", come dicono i titoli di due capitoli del libro.
C'è soprattutto una descrizione di Gesù legata a un'ideale di giustizia
molto terreno. La distanza tra questo Gesù e il "Gesù di Nazaret" del
libro di Benedetto XVI è impressionante.
Il quotidiano della conferenza episcopale italiana, "Avvenire", nel dare
notizia del libro di Martini in occasione del suo lancio alla Fiera del
Libro di Francoforte, il 17 ottobre, ha scritto che "molte delle
considerazioni ivi espresse, comprensibilmente, faranno discutere".
Ma non ha aggiunto altro. "Avvenire" non ha sinora recensito il libro e
nessuno si aspetta che lo farà in futuro. Silenzio assoluto anche a
"L'Osservatore Romano".
In privato, ai gradi alti della gerarchia, le critiche all'autore del
libro sono severe e preoccupate. Ma in pubblico la regola è di tacere.
Il timore è che contestare pubblicamente le tesi di questo libro
aggiunga danno a danno.
Ma qual è, più analiticamente, il "rischio della fede" che il cardinale
Martini evoca?
Pietro De Marco, professore all'Università di Firenze e alla Facoltà
Teologica dell'Italia Centrale, lo porta alla luce e lo sottopone a
critica nel commento che segue.
Per De Marco il messaggio del cardinale appare "reticente quanto a
completezza della confessione di fede". C'è in esso molta frequentazione
delle Sacre Scritture, ma gli articoli del Credo "vivono in sordina come
fosse superfluo menzionarli".
Un'evanescenza dei fondamenti della dottrina che ha contrassegnato non
solo il percorso di un grande leader di Chiesa come Martini, ma larga
parte della Chiesa cattolica degli ultimi decenni.
Osservazioni sulle "conversazioni notturne" di Carlo Maria Martini e
Georg Sporschill
di Pietro De Marco
La forma di questo libro, una ben costruita intervista scandita in
capitoli introdotti da brevi testi, spesso domande, di "giovani", ne fa
un testimone importante della mente del cardinale Carlo Maria Martini. E
di quanti lo seguono dentro e fuori i confini ecclesiali.
Del libro sottolineerò quello che non mi sento di approvare e
specialmente quella che mi appare l'intima contraddizione, una
contraddizione che segna forse l’intera vicenda pubblica del gesuita,
già arcivescovo di Milano. Ma rendo omaggio, anche filiale, alla
personalità grande che si rivela, ancora una volta, in queste pagine,
scritte assieme a Georg Sporschill, anch’egli un religioso della
Compagnia di Gesù.
Parto dalla risposta del cardinale alla domanda: "come dovrebbe essere
oggi l’educazione religiosa?" (p.19). Che equivale a: come educare
qualcuno a essere un "buon cristiano"? Il cardinale aveva poco prima
detto: un buon cristiano si distingue "perché crede in Dio, ha fiducia,
conosce Cristo, impara a conoscerlo sempre meglio e lo ascolta".
Nello stile del libro, che sembra risolvere tutto nella dimensione
quotidiana, nella verità dei "mondi vitali", Martini inizia con
l'evocare scene familiari e "semplici usanze". Tra queste ultime fa
impressione vedere indicati anche il Natale e la Pasqua. Ci tornerò su.
L'educazione religiosa proposta dal cardinale è di "ascoltare le domande
e le scoperte dei giovani e accettarle", per arrivare al suo fondamento,
la Bibbia: "Non pensare in modo biblico ci rende limitati, ci impone dei
paraocchi, non consentendoci di cogliere l’ampiezza della visione di
Dio" (p.20).
Va certamente apprezzato tale fiducioso e ragionato primato dato alla
Scrittura, in anni in cui c'è chi propone nel cristianesimo una
“religione della ragione", ovvero una ricerca di Dio che elimina la
Bibbia quale coacervo di falsità. Ma quando il cardinale va a spiegare
in che cosa si esprime la "ampiezza della visione di Dio" dischiusa
dalla Scrittura, la indica in Gesù che si meraviglia della fede dei
pagani e accoglie in cielo il ladrone, o in Dio che protegge Caino che
ha ucciso il fratello. "Nella Bibbia Dio ama gli stranieri, aiuta i
deboli", prosegue il cardinale. E con ciò slitta nel troppo detto, nel
sermone, che prosegue nella risposta alla domanda successiva: "Dobbiamo
imparare a vivere la vastità dell’essere cattolico. E dobbiamo imparare
a conoscere gli altri. [...] Per proteggere questa immensità non conosco
modo migliore che continuare sempre a leggere la Bibbia. [...] Se
ascoltiamo Gesù e guardiamo i poveri, gli oppressi, i malati, [...] Dio
ci conduce fuori, nell’immensità. Ci insegna a pensare in modo aperto".
Si coglie qui un compendio di pensiero che merita un commento.
Intanto, se la fede/fiducia in Dio e la conoscenza/ascolto di Cristo
sono l’essenza della condizione cristiana, questa bella formula non può
essere usata come già per sé sufficiente. Il solo rimando a un
leggere/pensare biblico e ad una "apertura" di cuore resta del tutto
indeterminato. L'unica, minima determinatezza nelle parole del cardinale
è quella che procede dalla “apertura agli altri” alla Scrittura, per
ritrovare in questa quella medesima apertura. Una simile circolarità,
per quanto importante, è veramente poco rispetto all’immensità del
tesoro scritturistico. Che ne è della conoscenza delle cose divine? Del
timore e dell'amor di Dio? Della economia trinitaria? Se la Rivelazione
ci trasforma è perché essa implica “infinitamente” di più che un pensare
"in modo aperto" alla maniera dei moderni; un "aperto" che si oppone a
ciò che Sporschill liquida come "mentalità ristretta".
Questo orizzonte, che tanto piace all’intelligencija laica e cattolica,
spiega anche la riduzione che Martini fa delle grandi festività
dell’anno liturgico a "semplici usanze". Riduzione forse involontaria,
eppure rivelatrice. Quando mai nel pensoso e spesso profondo ragionare
del cardinale si intravvedono la "lex orandi" e la pienezza del mistero
liturgico? A lui sfugge il legame tra l’immensità del "pensare in modo
biblico" e l’immensità del culto cristiano che davvero ci apre a una
liturgia cosmica, anche se non siamo né diventiamo per questo degli
"spiriti aperti" alla maniera moderna. Non è questione da poco né
recente. I cattolici e ancor più gli ortodossi sono in questo su sponde
opposte rispetto alle comunità protestanti, alle quali non è bastato,
per far fronte alla modernità, il frequentare la Scrittura e "pensare in
modo biblico".
Il "vivere la vastità dell’essere cattolico" non si compie neppure nel
guardare "i poveri, gli oppressi, i malati". Quello che il cardinale
chiama il "rischio" della Chiesa di porsi come un assoluto non mi pare
evocato in maniera pertinente. L’assolutezza della incarnazione del
Logos nel cosmo e nella storia non è un "rischio" ma è il fondamento di
quella "vastità", è ciò che davvero ci fa "aperti".
Senza sottovalutare i "mondi vitali" che il cardinale predilige, è
nell’assolutezza che si radicano da sempre universalità e responsabilità
cristiane. Solo qualche pensatore laico insiste ancora, specialmente in
Italia, sull'equazione tra "pretesa di verità" e "chiusura"
intellettuale e morale. Mi preoccupa il passaggio in cui Martini dice:
"Gli uomini si allontanano dai [...] dieci comandamenti e si
costruiscono una propria religione; questo rischio esiste anche per noi.
Non puoi rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle
definizioni che noi stabiliamo. Nella vita ne abbiamo bisogno, è ovvio,
ma non dobbiamo confonderli con Dio". Mi preoccupa perché è
rischiosissima l’idea che una religione positiva sia in sé
allontanamento da un fondamento indeterminato che la precede e le è
superiore. Anche dal punto di vista della scienza delle religioni non
sussiste per sé un religioso indeterminato, comune e primario. Solo le
religioni sono religione.
Trovo infelice anche la formula del "Dio cattolico", quasi che le
teologie su Dio della "Catholica Ecclesia" rappresentino un’indebita
appropriazione e perdita del divino, invece che l’amorosa e gelosa
sollecitudine spirituale e gerarchica per quanto è rivelato in Cristo.
Certamente Dio è al di là delle nostre definizioni; ma non è "per la
vita", cioè per motivi di praticità, che noi stabiliamo delle
"definizioni"; infatti è molto più pratico non definire, come
preferiscono tanti moderni e postmoderni. La mirabile teologia
trinitaria dei concili e le "summae" teologiche sono più e altro che
contingenze. Sono monumenti di lode al Dio di Gesù Cristo eretti dalla
ragione cristiana. Forse è difficile per l’esegeta moderno, anche
cattolico e della generazione di Martini, capirlo.
Tutto il percorso di queste conversazioni notturne nasconde molti
passaggi rischiosi. Forse l’antica perizia da rocciatore di Martini li
predilige, li cerca. Per restare nel capitolo primo, a p. 18 il
cardinale dice: "Gesù si è battuto in nome di Dio perché viviamo secondo
giustizia". E a p. 24: "Gesù ha osato intervenire e mostrare che l’amore
di Dio deve cambiare il mondo e i suoi conflitti. Per questo ha
rischiato la vita, sacrificandola infine sulla croce. La sua
abnegazione, però, la vediamo già in precedenza. [...] Credo che questo
sia il suo amore, che sento nella comunione, nella preghiera, con i miei
amici, nella mia missione". Non ho alcun timore di impopolarità nel dire
che questa cristologia di taglio liberazionista sarà anche pastoralmente
utile con alcuni giovani aperti al progresso, ma mi appare seriamente
lacunosa. È inutile che io ricordi a un grande conoscitore dei testi del
Nuovo Testamento quanto sia criticamente infondato, oltre che
profondamente riduttivo del significato della Rivelazione, affermare che
Gesù "si è battuto in nome di Dio" come uno dei tanti ribelli religiosi,
ed è morto sulla croce per cambiare il mondo secondo le contingenti
istanze del mondo (pace e giustizia secondo chi e per chi?). Ammettiamo
che la lettura che Martini fa di Gesù implichi un antagonismo più
spirituale e meno “politico”; non vi scorgo, comunque, quasi niente
della tradizione trinitaria e cristologica. Tradizione che innerva
invece profondamente il "Gesù di Nazaret" di Joseph Ratzinger, sul quale
il padre Sporschill ironizza (“il buon Gesù di Ratzinger”) con scarsa
intelligenza.
Inappropriati sul terreno ecclesiologico sono, poi, diversi passaggi del
capitolo quinto dedicato all'enciclica di Paolo VI "Humanae vitae", che
hanno naturalmente fatto scalpore. Anche il sincero dispiacere che il
cardinale mostra per quella che egli considera una disavventura nel
pontificato di papa Montini finisce con una coda polemica. Il papa
pubblicò l’enciclica "con un solitario senso del dovere e mosso da
profonda convinzione personale", dice Martini, marcandone fortemente il
volontario isolamento. Ma ci si domanda: di chi Paolo VI poteva fidarsi,
fuori di Roma, nel 1968? Di episcopati travolti dalle crisi del
postconcilio? O di teologi trasformati in intelligencija ribelle? Appare
poco accorto anche lasciar scrivere provocatoriamente a padre Sporschill:
"Supponiamo che Benedetto XVI si scusi e ritiri l’enciclica Humanae
Vitae". Sbaglia Martini a coprire con la sua autorità la propensione di
correnti ecclesiali a "chiedere scusa", naturalmente non dei propri
errori ma di quelli della gerarchia: uno sport irresponsabile e senza
discernimento.
Anche la metafora dei quarant’anni trascorsi dopo la "Humanae Vitae", da
intendere come i quarant’anni di Israele nel deserto (p. 93), è ambigua.
Chi avrebbe guidato chi, in questa traversata costellata di infedeltà?
Pensa il cardinale Martini, come si pensa negli sparsi focolai della
contestazione, che sia il popolo di Dio a guidare alla Terra Promessa
una gerarchia resistente al richiamo dello Spirito? O riconosce che è
avvenuto il contrario: la profonda conferma della insostituibilità della
Chiesa "madre e maestra"? Il coraggio di Paolo VI, fondato nella sua
coscienza del ruolo di Pietro, fu enorme e, nella lunga durata della
sollecitudine della Chiesa per l’uomo, salutare, come possiamo valutare
oggi, dopo decenni di disorientamento e presunzione modernizzante.
Insomma, anche apprezzando in queste pagine tante osservazioni misurate
e di grande delicatezza pastorale, trovo nel cardinale una troppo debole
consapevolezza di ciò che è in gioco nell'attuale passaggio di civiltà.
Prevale in lui l’ascolto delle opinioni, delle preoccupazioni e delle
proteste, interne ed esterne alla Chiesa, e una programmatica sintonia
con esse, tipica dell'intellettuale. Valga la considerazione, davvero
eccessiva, che riserva alle tesi del filosofo tedesco Herbert
Schnädelbach in un saggio del 2000 sulle "colpe del cristianesimo".
Trovo rivelatrice anche la risposta di Martini alla domanda se ha mai
avuto paura di prendere decisioni sbagliate (p. 64): "Per paura delle
decisioni ci si può lasciar sfuggire la vita. Chi ha deciso qualcosa in
modo troppo avventato o incauto sarà aiutato da Dio a correggersi. [...]
Non mi spaventano tanto le defezioni dalla Chiesa. Mi angustiano,
invece, le persone che non pensano. [...] Vorrei individui pensanti.
[...] Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non
credenti. Chi riflette sarà guidato nel suo cammino. Ho fiducia in
questo".
Intravedo in queste formule un metodo talvolta adottato da uomini di
Chiesa e in particolare dalla Compagnia di Gesù: attrarre le persone che
pensano, non importa se credenti; non smarrirsi per le passate o
presenti defezioni dall’istituzione; avere fiducia nella guida e nella
correzione di Dio in questo genere di impresa. Questo coraggio spesso
appare efficace, anche se non sappiamo cosa ne scaturirà di più profondo
e decisivo per la formazione alla fede e per la Chiesa stessa. Ma c'è
qualcosa di essenziale che sfugge. Chi giudica delle "persone pensanti"?
E pensanti che cosa? Cosa intende esattamente il cardinale, se andiamo
oltre le generali e generose formule educative ed entriamo nel cuore
dell’istruzione cristiana?
È evidente che quella espressa dal cardinale è stata anche la scommessa
di parte della Chiesa nella lunga crisi di uomini e di fede del
postconcilio. È evidente anche l’ottimismo che regge una simile
pedagogia della provvidenziale realizzazione di sé nella libertà. Così,
però, si è sottovalutata e alla fine favorita la falcidie degli uomini
dell’istituzione, del clero. Non era difficile, in anni ancora vicini a
noi, sentir dire dai pastoralisti che la mancanza di clero è un falso
problema ed è anzi una chance per il rinnovamento della trasmissione
della fede e per la sua purificazione, naturalmente in senso "non
clericale".
L’ottimismo che accompagna la conversazione notturna del cardinale
Martini non può essere, dunque, proposto semplicemente alla futura
sperimentazione. Ha già segnato pratiche del passato. E i risultati di
questo ottimismo sono sotto il giudizio di tutti. Si può sospettare che,
dietro il fascino delle formule e il consenso di tanti amici non
credenti, tale ottimismo abbia alimentato quell’intima contraddizione di
cui il cardinale appare portatore: da un lato una visibilità cristiana
dotata di un profilo “aperto”, dall’altro un messaggio reticente quanto
a completezza della confessione di fede. Nel suo modello pedagogico, tra
frequentazione della Bibbia e confidenza con gli articoli del Credo lo
squilibrio è vistoso: uno squilibrio in cui la Tradizione e il Credo
vivono in sordina come fosse superfluo menzionarli.
Una contraddizione simile segna paradossalmente anche le pagine di Carlo
Maria Martini sugli esercizi spirituali di sant’Ignazio. Essi sono per
il cardinale "esercizi pratici e semplici che mantengono vivo l’amore. È
un po’ come nella vita familiare [...]. Anche l’amore per Gesù e
l’intimità con Dio vivono di una condotta quotidiana. Non riesco ad
immaginare la mia vita senza l’acquasanta ecc.". Accolgo queste formule
delicate, e alla base di esse la distinzione tra gli esercizi "nella
loro forma completa, solo per pochi", e i "numerosi esercizi facili" per
tutti (p. 88). Però perché riservare ai semplici la prima settimana,
dedicata (dico per semplicità) all’esame di coscienza, e non farli
accedere almeno alla seconda? Nel testo italiano del 1555, che traduce
la cosiddetta "vulgata", si legge: "La seconda settimana è contemplare
il regno di Iesù Christo per similitudine de uno re terreno il quale
chiama li suoi soldati alla guerra". L’autografo di Ignazio è più secco:
"El llamamiento del rey temporal ayuda a contemplar la vida del rey
eternal", ma non muta la sostanza. La regalità di Cristo e la sua
chiamata sono forse irrilevanti per il "buon cristiano" e per la sua
vita di fede?
Evidentemente per il cardinale Martini non è essenziale, anzi è
imbarazzante "considerare Christum vocantem omnes suos sub vexillum suum",
salvo forse in una versione tutta spirituale. Ma credo che anche parte
della Chiesa abbia troppo offuscato i propri "vexilla" e si sia
autolimitata al domestico, sia familiare sia comunitario. Ne hanno
sofferto i suoi necessari profili universali e pubblici. Ne ha sofferto
la sua stessa dedizione e chiamata alla Verità; poiché se a una famiglia
possono bastare la consuetudine privata del Pater Noster e la lettura
dei Vangeli o dei Salmi, questo non basta alla fede e alla missione. Né
può bastare, penso, alla Compagnia di Gesù, ai suoi uomini, alla sua
ragione di vita.
È stato necessario che fosse la cattedra di Pietro a fare attiva e
autorevole memoria di tutto questo, negli ultimi decenni.
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