«Tra noi e loro la pietra angolare, non il negazionismo»
Luigi Copertino su EFFEDIEFFE, 27-28 febbraio 2009

Una importante puntualizzazione sulle vicende storiche e dottrinali significative di questo nostro tempo post-conciliare, segnato da forti prese di coscienza e 'sapienziali' interventi di Benedetto XVI

Premessa

Non c’è che dire, questo 2009 si è aperto con eventi che, pur importanti nella loro immediatezza cronachistica, travalicano senza alcun dubbio il momento contingente proiettandosi verso una prospettiva teologica della storia, dunque verso l’Eternità. Dapprima, sul finire dell’anno passato, le accuse da Fini lanciate alla Chiesa circa il presunto silenzio sulle leggi razziali, poi lo sterminio genocidario dei palestinesi di Gaza ad opera dei criminali che sono al governo in Israele, quindi tutta la vicenda della povera Eluana Englaro (un tribunale che sulla base di un «sentito dire», tra l’altro smentito da successive contrarie dichiarazioni, decreta la condanna a morte di una innocente per fame e sete esattamente come sessanta anni fa, in un lager, allo stesso tipo di morte fu condannato San Massimiliano Maria Kolbe, sacerdote polacco), una vicenda che ha posto definitivamente la parola fine sull’Italia quale presunta patria del diritto.

Ma il centro di tutti questi avvenimenti, che a chi ben conosce il modus operandi dell’Iniquo si appalesano come tra loro evidentemente collegati, è stato il non ancora del tutto chiuso caso Williamson, il vescovo lefebvriano negazionista cui insieme ai suoi confratelli il Santo Padre, in un gesto di paterna misericordia, ha revocato la scomunica con l’obiettivo, come rilevava Maurizio Blondet su questo sito, di porre fine al più presto ad uno scisma doloroso per la Chiesa.

Gesto che ha trovato un notevole ostracismo intraecclesiale. I detrattori del Papa però non hanno affatto spiegato cosa diamine avrebbe dovuto fare un Pontefice di fronte ad alcuni dei suoi figli in difficoltà che chiedevano di essere riammessi alla comunione con lui (1). E’ ormai chiaro a tutti che è stata ordita una trappola ai danni del Papa da parte di quei nemici, interni ed esterni alla Chiesa, che a tutti i costi vogliono perpetuare quel doloroso scisma con l’intenzione di squalificare l'opera, ormai avviata da Benedetto XVI, di chiarificazione esegetica del Magistero, soltanto pastorale, del Vaticano II (2)

Queste consorterie nemiche della Chiesa usano, e non da oggi, la trappola dell’«affermazionismo /negazionismo», facendovi cadere più d’uno. Una dicotomia, questa dell’«affermazionismo/negazionismo» che, come tutte le false dicotomie, fanno perdere il senso concreto delle questioni poste sul tavolo. Questioni che, per i cattolici, sono e devono rimanere essenzialmente e squisitamente teologiche.

Maurizio Blondet più di una volta ha giustamente ricordato che è non solo pericoloso ma persino inutile stare a disquisire sulla questione «negazionista». Soprattutto se non si hanno le necessarie competenze storiche ossia se non si è storici professionisti ovvero assegnatari di una riconosciuta autorità accademica. autorità accademica che, del resto, non è sempre sufficiente ad evitare proscrizioni: figuriamoci se non se ne dispone.

Si tratta di una vecchia storia. Ogni epoca e società ha i suoi «idola tribus» destinati a passare con il cambiare dei tempi. Ora, evidentemente, è la volta dell’olocausto. In quanto cattolici - lo ribadiamo - non dobbiamo prenderci pena alcuna: tutto passa, solo Dio resta. Piuttosto quel che dobbiamo denunciare sono le strumentalizzazioni intese a inculcare nell’opinione pubblica ecclesiale la silente ammissione di un nuovo dogma di fede, quello appunto dell’«olocausto».

Una questione questa inevitabilmente intrecciata con quel «fumo di Satana», ossia la cattiva teologia ed esegesi, che è penetrato nella Chiesa approfittando del linguaggio poco chiaro usato dai documenti conciliari e dell’opera distruttiva di tanti neo-teologi invocanti lo «spirito del Concilio», che è poi soltanto quello delle loro elucubrazioni del tutto avulse dai documenti conciliari stessi, letti, però, nella luce della Tradizione. L’importanza della questione che si cela dietro il caso Williamson, che è questione, come si vedrà, del tutto teologica, ci ha costretti a metter giù questa riflessione in merito. Chiediamo scusa per l’ampiezza di certi concetti che si andranno ad esporre ma l’importanza fondamentale dell’argomento sotteso a quanto è successo in questi giorni è tale da non lasciare risparmiare le forze né in lunghezza né, memori dell’antico adagio «repetita juvant», in continue riaffermazioni di alcuni inderogabili contenuti della Fede cattolica.

L’esegesi storico-teologica di Gad Lerner

Uno dei «fabbricatori di opinione» più noti, Gad Lerner, ha rimarcato di recente la tesi della connessione tra l’«antigiudaismo cattolico» e l’«antisemitismo nazista». Una tesi propagandata ad arte proprio per inchiodare i cattolici ad un senso di colpa che non ha, sul piano storico, vere ragioni di essere. Le argomentazioni di Lerner sono state demolite da Franco Cardini il quale ha ricordato che tra antigiudaismo, da «rivedere criticamente» fin quanto si vuole e che comunque si pone sempre e solo su un piano teologico, ed antisemitismo, che invece nasce nel XIX secolo sull’onda della teosofia massonica e del darwinismo, dunque sull’onda di ideologie tipiche della modernità anticristiana, vi è una essenziale diversità che ne impedisce, sotto il profilo sia ideale che storico, la reductio ad unum(3).

E’ necessario leggere attentamente quanto scrive Gad Lerner a proposito dell’esegesi di parte ebraica di quel che egli definisce «il mistero della secolare persistenza ebraica» (4). Perché solo in tal modo trasparirà in tutta la sua chiarezza quale è la vera posta in gioco di tutta la querelle nata intorno al patetico caso Williamson. Scrive dunque Lerner : «Nel dire nuova, Dio ha reso antiquata la prima alleanza. Ma ciò che diventa antiquato e che invecchia è prossimo alla scomparsa (Lettera agli ebrei 8, 13). La profezia contenuta in questo testo apostolico tuttora inserito a pieno titolo fra le lettere di Paolo (benché l’attribuzione sia controversa) [facciamo incidentalmente notare che qui Lerner, che vorrebbe l’espulsione di quella Lettera dal canone proprio perché essa inchioda le false pretese del giudaismo post-biblico, mente sapendo di mentire: sull’attribuzione a San Paolo delle Lettere Paoline, o comunque, come nel caso della Lettera in questione, a discepoli di Paolo che ne hanno riportato fedelmente l’insegnamento, l’accordo tra gli studiosi è ormai oggi quasi unanime, ndr] ha subìto la smentita di diciannove secoli di storia. Sopravvissuti a innumerevoli persecuzioni e tentativi di sterminio, nel Novecento gli ebrei hanno rifondato uno Stato nella loro terra d’origine e sono tornati in milioni a parlare una lingua che pareva morta, a lungo rinchiusa nelle sole funzioni liturgiche. Un enigma, un miracolo, un accidente fastidioso?
Il mondo fatica a rispondere, e con esso la Chiesa che si era concepita come Nuovo Israele. ‘Se infatti la prima alleanza fosse stata irreprensibile, non se ne sarebbe cercata una seconda’ (8, 7), minacciava ancora gli ebrei quella Lettera contenuta nel Nuovo Testamento. Riecheggiando il celebre passo paolino della Lettera ai Romani in cui ‘l’indurimento’ della parte d’Israele restia a inchinarsi di fronte al Messia, comporterebbe la sua conversione come passaggio necessario alla salvezza universale».

Lerner gioca spudoratamente con la grande ignoranza dei cattolici, in genere poco esperti di cose esegetico-teologiche. Ciò che Paolo indicava come prossimo a scomparire non era il popolo ebraico in sé, che anzi, ai suoi tempi, si era già irreggimentato nel giudaismo post-biblico, ma il sacerdozio levitico che, in quella «Lettera agli Ebrei», Paolo ricorda essere inferiore al Sacerdozio Universale al modo di Melchisedeq rivendicato da Cristo in Persona con l’istituzione della Eucarestia, rito la cui materia è il Pane ed il Vino che l’antico Sacerdote dell’Altissimo, e Re di Salem, offrì ad Abramo che gli si sottomise pagando la decima (Genesi 14, 18-20). Ed anche l’Alleanza antica, diventata vecchia, è in effetti scomparsa riassorbita nella Nuova, come succede con il contratto preliminare, che proprio per essere soltanto preliminare non è «irreprensibile», ossia non è completo, e viene sempre riassorbito, mica negato o contraddetto, dal successivo contratto, quello per l’appunto definitivo. Piuttosto, se fossimo nei panni di Lerner, in tema di smentite storiche, ci preoccuperemmo molto di più della grandiosa smentita che la mal riposta speranza messianica dell’Israele post-biblico (il ritorno degli ebrei in Terra Santa quale «avveramento» dell’«era messianica» della Pace Universale) sta subendo. Una smentita epocale testimoniata dalla cronaca quotidiana appalesa ogni giorno di più, proprio a partire dal 1948, ossia da quando è iniziata la fase più acuta di quegli eventi che, con tutta probabilità, ci porteranno tutt’altro che la Pace Globale delle nazioni sotto il Regno del Dio di Israele.

Lerner porta la sua sottile e truffaldina strategia sul piano ecclesiale mediante quell’uso strumentale della storia che Cardini gli ha rimproverato: «La crisi del dialogo ebraico-cristiano decisa ieri dal rabbinato d’Israele - continua il nostro - in seguito alla mancata sanzione del vescovo Richard Williamson, scaturisce certo da un comportamento maldestro del Vaticano, ma evidenzia la difficoltà di Benedetto XVI nel trovare risposta al mistero della persistenza ebraica. Egli fa i conti con un vuoto di dottrina o, se si vuole, un’inadempienza teologica dentro cui i tradizionalisti lefebvriani hanno buon gioco a inserirsi, esprimendo un umore diffuso ben oltre il loro minuscolo drappello. Basti pensare alla potente voce antisemita di Radio Maria in Polonia. In coerenza con insigni dottori della Chiesa, come Ambrogio e Agostino, riconoscendosi in secoli di predicazione del disprezzo nei confronti dell’imperfezione e della colpevolezza ebraica legittimata da quella ‘teologia sostitutiva’ (la Nuova Israele che soppianta la vecchia), costoro approfittano della mancata trasposizione teologica dei deliberati conciliari. Negli ultimi quarant’anni i pontefici hanno revocato l’accusa di deicidio, hanno compiuto importanti gesti d’amicizia verso gli ebrei, hanno perfino riconosciuto (solo nei discorsi, mai in un documento teologico) la validità dell’alleanza contratta da Abramo e ribadita sul Sinai. Ma qui, sull’orlo dell’incognito, si sono fermati».

Dobbiamo certamente dare atto a Lerner che egli ha buon gioco nel suo argomentare proprio a causa di quel «vuoto dottrinale» che egli, giustamente, individua come la debolezza attuale della Chiesa e la forza del tradizionalismo lefebvriano. Infatti è innegabile che il linguaggio non inequivoco di un Concilio che si è voluto solo pastorale, e che invece ha indirettamente toccato anche il piano dottrinale, ha portato, nella fase post-conciliare, al crearsi di quel «vuoto» che se i documenti conciliari, e la stessa riforma liturgica, avessero avuto immediatamente una corretta esegesi e ricezione, la quale per essere corretta doveva essere quella che ne imponeva una lettura in continuità con tutta la precedente Tradizione Apostolica, non si sarebbe manifestato. Questo Lerner ma anche, benché da posizioni contrapposte, i neo-modernisti ed i sedevacantisti lo sanno benissimo. Ed è per questo che il fuoco incrociato su Benedetto XVI è iniziato subito all’indomani della sua elezione, conoscendosi da tempo le sue idee circa l’«ermeneutica della continuità» (al di là di ogni sofisma che pur si potrebbe fare, e si è fatto, sull’ambiguità di significato dello stesso, moderno, termine «ermeneutica»: una cosa è certa se per scrivere questo articolo usassimo il linguaggio e lo stile dell’italiano del XVIII secolo non credo che ciò gioverebbe al fine della comprensione di quanto andiamo dicendo da parte dei lettori).

Infatti Lerner, dopo aver spiegato a noi poveri cattolici che credevamo di aver tutto capito ma che nulla invece avevamo compreso fino a che la «luce giudaica» non è venuta ad illuminarci, giunge al fine a sparare sul regnante Pontefice: «E’ stato il cardinale Ratzinger nell’agosto 2000, con la ‘Dominus Jesus’, a delimitare la portata della richiesta di perdono agli ebrei voluta da Giovanni Paolo II; precisando che non vi è salvezza possibile senza il riconoscimento del Cristo. La reintrodotta preghiera latina del venerdì santo per ‘l’illuminazione’ degli ebrei, cioè per la loro conversione, è stato il passo successivo che ha indotto i rabbini italiani a sospendere il dialogo. Nel frattempo il Vaticano ha sposato una vulgata storica che separa nettamente l’antigiudaismo cattolico dall’antisemitismo nazifascista, con ciò escludendo - a dispetto di ogni evidenza - che vi sia stata anche una responsabilità cristiana nel concimare il terreno su cui hanno agito gli sterminatori. Basti pensare, solo un mese fa, alla reazione stizzita dell’‘Osservatore Romano’ nei confronti del presidente della Camera riguardo alle leggi razziali».

L’attacco ebraico frontale a Joseph Ratzinger è bene ricordarlo, partì sin da quando nelle sue vesti di Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede preparò, di comune accordo, ma questo Lerner lo tace, con Giovanni Paolo II, la «Dominus Iesus». La comunità ebraica già a quel tempo, l’anno 2000, individuò in Ratzinger il suo nemico, benché da parte del cardinale non vi era sicuramente nessuna ostilità antiebraica ma solo l’intenzione di iniziare il cammino di quell’ermeneutica della continuità che, è bene rimarcarlo, anche Papa Wojtila approvava avendo proprio lui scelto per l’incarico all’ex Sant’Uffizio quel teologo tedesco inviso ai suoi ex amici progressisti che lo ritenevano un traditore del fantomatico «spirito del Concilio».

Ma continuiamo l’esame della «dotta» esegesi di Gad Lerner. Il quale, spalleggiando l’operazione dicembrina alla quale si è prestato Gianfranco Fini, l’utile idiota noachico della comunità ebraica romana, attacca quella che lui chiama la «vulgata storica che separa nettamente antigiudaismo ed antisemitismo». Peccato per Lerner che quella «vulgata» è suffragata da una mole di documentazione storica e da ampie ricerche filosofiche e politologiche sulle origini pienamente moderne, sette-ottocentesche, dunque addirittura illuministe, dell’antisemitismo. Ed a quella che Lerner chiama «vulgata» nulla toglie la constatazione che il precedente antigiudaismo teologico in certe occasioni è stato usato, strumentalmente, dagli antisemiti razziali. Infatti, gli storici ben sanno che non era l’antigiudaismo teologico la vera giustificazione presa a propria base dall’antisemitismo razziale, come è ampiamente provato dall’incontestabile constatazione storica che proprio la Chiesa si oppose sempre, e spesso da sola, senza tentennamenti all’antisemitismo anche quando Essa ancora si esprimeva teologicamente con il linguaggio del tradizionale antigiudaismo.

Lerner, analogamente a quanto fa Mauro Pesce, cerca di addossare al Cristianesimo la responsabilità ultima di Auschwitz ed afferma che il vescovo Williamson: «non è un marziano, ma il prodotto degenere di una corrente di pensiero più vasta... sulla base di una dottrina legittimata dal Nuovo Testamento» che «vede l’ebreo come un essere imperfetto che ha misconosciuto la Verità fiorita sulla sua radice, necessariamente ha vissuto la nascita dello Stato d’Israele come evento sospetto, se non malefico». Qui Lerner, inconsapevolmente si fa portavoce di un’antica tradizione risalente ai Padri della Chiesa alla quale ancora si richiamava Soloviev nel suo «Il Racconto dell’Anticristo» e secondo la quale il ruolo dell’Israele post-biblico sarebbe stato certamente ambiguo, fino al giorno in cui gli ebrei, finalmente delusi dai molti «falsi messia» da loro aiutati ad «emergere» nella storia, non riconosceranno la Divino-Umanità Messianica di Cristo. Di questa ambiguità dell’Israele post-biblico, l’eventualità di una ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, attuale miraggio del rabbinismo fondamentalista ultraortodosso spalleggiato dal governo sionista israeliano, è la più recente e palese manifestazione.

Sbaglia, invece, Lerner laddove imputa tale convinzione, sullo Stato di Israele come «evento sospetto», ai cristiano-sionisti americani i quali, al contrario, aspettano il regno millenario di Israele governato congiuntamente dal redivivo re Davide unito al Cristo apocalittico del millennio. Cristo che, per i cristiano-sionisti, cosa che mette fortemente in evidenza una riduzione «umanitaria» ed un misconoscimento della Divino-Umanità, sarebbe soltanto, o prevalentemente, un «ebreo» mediante il quale alcuni noachici, ossia loro stessi, si salveranno agganciandosi alla «carne di Israele» (5).

Lerner chiude la sua requisitoria con un suadente invito ai Papi a oltrepassare l’ignoto ossia ad affermare chiaramente anche in documenti del Magistero che Cristo non ha tolto ad Israele il suo speciale ruolo di portatore del Dio di Abramo ai popoli tutti della terra, missione che - è sottinteso nelle parole di Lerner - inevitabilmente giustifica un primato teologico di Israele del quale, e qui senza saperlo Lerner parla lo stesso luciferino linguaggio dei cristiano-sionisti, Cristo sarebbe soltanto un’appendice: «E’ indubbio - chiosa il talmudico opinion marker - che la Chiesa stia faticando a elaborare una visione pacificata e amorevole d’Israele anche perché non ha risolto il problema teologico della persistenza ebraica nel mondo, senza conversione».

Dimentica, però, Lerner che la Chiesa sin da subito, dai tempi apostolici e patristici, ha già risposto al «problema teologico della persistenza ebraica», nel senso già segnalato dell’ambiguità del ruolo dell’Israele post-biblico prima del finale riconoscimento da parte sua della Divino-Umanità Messianica di Cristo. San Paolo stesso, il persecutore Saulo di Tarso, ancor prima e più dei tantissimi ebrei che nei secoli, come lui, si sono «arresi» a Cristo, è in qualche modo, con la sua folgorazione sulla via di Damasco, l’archetipo della sinagoga ostile alla Chiesa che alla fine entrerà devotamente in Essa.
Un «affare» essenzialmente teologico

Come si vede, in tutta la faccenda «Williamson» quel che è essenziale è l’aspetto teologico e storico-teologico ed è solo questo che deve essere oggetto delle nostre cattoliche preoccupazioni. Non il «negazionismo». Non dobbiamo assolutamente permettere nessuna confusione tra il livello teologico, che è il nostro, e quello della trappola «affermazionismo/negazionismo».

Affrontare la sfida teologica postaci, dopo Auschwitz, dal giudaismo post-biblico non significa affatto negare valore spirituale alla sofferenza degli ebrei nei campi ma rivendicare il Primato Salvifico Universale di Cristo anche per dare a quella sofferenza il suo giusto posto, l’unico dal quale può derivarle il massimo valore spirituale possibile: essere, essa, soltanto partecipazione alla Sofferenza di Cristo sulla Croce, di quel Gesù che dalla Croce ha invocato il perdono del Padre per i suoi carnefici (da non identificare certo con l’intero popolo ebreo ma solo con parte del sinedrio: infatti sinedriti erano anche Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea che pur avevano riconosciuto in Lui il vero ebraismo ed il Messia).

San Bernardo di Clairvaux, il mistico per eccellenza dell’età medioevale, predicava, allo scopo di fermare i pogrom, che nell’ebreo sofferente vi era il Cristo sofferente. Solo una ferma Teologia dell’Unicità Olocaustica della Croce può dare senso e significato metafisico a tutti gli stermini di cui la storia è purtroppo cosparsa. Infatti non è cristianamente possibile, né giusto, oscurare la memoria degli altri stermini in nome della sola memoria di quello ebraico, come se esso fosse l’unico della storia o fosse quello paradigmatico oltre il quale l’umanità avrebbe finalmente stabilito il suo irrevocabile «mai più». Un paradigma assolutamente smentito dai fatti del dopo Auschwitz che di stermini, fino a quello recente di Gaza, hanno riempito persino le cronache.

Ora, nonostante che gli eventi successivi abbiano abbondantemente smentito l’assolutezza di quel paradigma, Auschwitz, per ammissione del «dottor sottile» dell’intellighentia illuminista accademica, il già più volte ministro e capo di governo, Giuliano Amato, è diventata la «teologia civile dell’occidente». Si è, in altri termini, fatto assurgere la shoah ad un evento metafisico, teologico, salvifico.

Ebbene: se questa «metafisicizzazione» non è laicamente accettabile sul piano storico o politico, quello nel quale operano gli storici e dovrebbero operare uomini politici di cultura illuminista come Giuliano Amato, tantomeno è accettabile, sarebbe implicita apostasia, da parte della Chiesa cattolica, se non, come si è detto, nei termini di una partecipazione, alla stregua di quella di tutti gli altri popoli vittime di stermini, della sofferenza ebraica al Sacrificio Salvifico della Croce.

In una «memoria» unilaterale ed esclusiva, obbligatoriamente imposta come un neo-culto, un rito universale di massa, una religione civile, vi è, senza dubbio, molto dello Stato Etico e, dunque, vi è molto, moltissimo, di totalitario.

In altra occasione, abbiamo illustrato proprio questo aspetto della questione (6). Diversi interlocutori di formazione culturale laica hanno molto gradito quelle nostre osservazioni perché dal loro punto di vista «laico» le hanno recepite come un’accusa allo Stato repubblicano di aver ceduto ad un nuovo confessionalismo: ed in effetti questa accusa l’abbiamo esplicitamente formulata ma in modo «provocatorio», invocando cioè l’eterogenesi dei fini ossia facendo cattolicamente rilevare che due secoli di lotta contro la Chiesa per la laicizzazione dello Stato sembrano ora risolversi nella sua «talmudizzazione».

Fu in quella occasione che abbiamo avuto la riprova che di un culto, un dogma, effettivamente stiamo trattando. Infatti, nelle polemiche seguite al convegno nel quale esplicammo le nostre osservazioni, L’Unità, nell’allora gestione di Furio Colombo, in un articolo di fondo, a firma di Valentina Pisenty, trattò anche dei contenuti del convegno e del libro che li raccoglieva e a titolo dimostrativo tra tutti gli interventi, oltre ad un altro, citava proprio il nostro con la chiara intenzione di evidenziare il «sacrilegio», il «crimine di eresia», la «lesa maestà» alla memoria dell’olocausto.

Navigando tra Scilla e Cariddi per rispondere a Lerner

In questi «anni difficili», mantenere la necessaria serenità di giudizio e camminare sulla via dell’Amore di Dio, senza essere fraintesi dall’una o dall’altra parte, sta diventando sempre più arduo. Ci succede sempre più spesso di essere rimproverati da l’una o dall’altra parte di non brandire la spada verso gli «infedeli», siano essi gli ebrei o i mussulmani. Noi, però non siamo né antisemiti né antiarabi (distinzione tra l’altro ridicola dal momento che gli arabi sono semiti). Quel che ci interessa evidenziare è la perversione costituita dall’uso politico del Santo Nome di Dio, tipica di questi nostri tempi «apocalittici». In questo consiste, innanzitutto, il fondamentalismo, una malattia dalla quale, qui sta il pericolo comune, possiamo essere contagiati tutti.

Nell’articolo «Il martirio di Gaza tra politica ed escatologia» , pubblicato proprio su questo sito, ad esempio, abbiamo cercato di spiegare l’influsso che un certo equivoco millenarismo ebraico, a sfondo gnostico-cabalista, ha avuto sul sionismo e in tal modo abbiamo messo chiaramente in evidenza che se nella cultura politico-religiosa ebraico-israeliana ci sono fenomeni inquietanti, quelli che poi prendono forma nel fondamentalismo della destra rabbinica ultraortodossa, non bisogna affatto cadere nella tentazione della responsabilità collettiva e porre sul banco degli accusati tutti gli ebrei, molti dei quali sono persone oneste e critiche verso il loro governo, questo sì criminale.

Abbiamo, nell’occasione richiamata ed in altri scritti, ricordato che esistono ebrei che davvero restano fedeli al Dio di Abramo, che è Dio di amore per tutte le genti, sicché per questo quegli ebrei, magari senza ancora esserne coscienti, sono già sulla Via di Cristo, e che il vero ebraismo, già evidente nell’Antico Testamento, si è adempiuto e perfezionato nel Nuovo Testamento, in Cristo che era prima che Abramo fosse e che Abramo «vide» per grazia dall’Altissimo a lui concessa prima di morire (Giovanni 8, 56-58).

Lamentavamo, cioè, dell’odio che va riempiendo il mondo e che non porterà nulla di buono se non lo si ferma in tempo. Un odio che potrebbe inavvertitamente contagiare anche i cattolici spingendoli, per opposizione ai «novatori giudaizzanti», verso esiti marcioniti.

Una questione quella relativa al pericolo marcionita ed al vero «ebraismo», che è solo quello cristiano, che sta diventando cruciale proprio in parallelo alla «sacralizzazione» del genocidio ebraico. Sempre più spesso si mettono in opposizione Cristo, inteso come semplice e fallito profeta ebreo, e San Paolo al quale è attribuito, come propugnatore della «Ecclesia ex gentibus», il merito, o a seconda dei punti di vista, la responsabilità di aver «inventato» il Cristianesimo, cosa che non sarebbe stato affatto nelle intenzioni di Gesù. E’ questa l’esegesi di Mauro Pesce, divulgata da quel «lupo travestito da agnello» (si faccia caso ai suoi modi edificanti e gentili) che è Corrado Augias. Un’esegesi per la quale Cristo, «ebreo» e «non cristiano», sarebbe stato solo un errabondo ed oscuro predicatore ebreo del I secolo, morto tragicamente ed altrettanto tragicamente mal interpretato dai suoi discepoli i quali avrebbero inventato quella «cattiva» cosa che sarebbe il Cristianesimo responsabile, nelle sue realizzazioni storiche, in primis la Chiesa cattolica, dell’antisemitismo dilagato poi fino al culmine dell’olocausto. Da qui la tesi storica, falsa e preconcetta, dell’essenziale continuità tra «antigiudaismo teologico» ed «antisemitismo razziale», fatta propria dalla comunità ebraica e dai suoi succubi «noachici» come Gianfranco Fini. Come può constatarsi, la «teologia civile dell’occidente» ritorna ogni qual volta si vuole, come vuole Augias, attaccare la Cattolicità. Ed è questa la linea seguita anche da Gad Lerner nel suo articolo sopra esaminato. Essa è la linea di certo storicismo critico e, soprattutto, la linea del giudaismo post-biblico di oggi.

Onde evitare il marcionismo, da un lato, e, dall’altro, il «talmudismo», e soprattutto respingere la riduzione del cristianesimo ad una fallita «eresia ebraica», è assolutamente necessario, cruciale, stabilire quale sia il vero ebraismo: quello annunciato da Patriarchi e Profeti ed adempiutosi in Cristo in perfetta continuità spirituale e storica tra Antico e Nuovo Testamento oppure quello, diverso dal primo, già professato dal sinedrio che condannò Cristo e poi codificato dalla sinagoga nel testo masoretico e nel Talmud, quello cioè che prefigurava il Messia come liberatore politico per la gloria universale di Israele e che oggi, persa la speranza nel Messia individuo, ha identificato il messia nel popolo ebreo medesimo?

Nel II e I secolo avanti Cristo esistevano, infatti, molti «ebraismi» e di questi hanno avuto storicamente successo soltanto quello cristiano e, appunto, quello talmudico. Questa constatazione storica ci consente di rispondere in pieno alla provocazione di Gad Lerner sulla «persistenza ebraica nella storia». Qui, infatti, il mistero incontra, con tutta evidenza la storia, e già i Padri della Chiesa (San Girolamo apprese proprio dai rabbini certi metodi esegetici «tipologici» che poi gli permisero di meglio comprendere la Scrittura in vista della sua traduzione nella Vulgata) si ponevano domande sul senso del permanere di Israele dopo Cristo. La risposta, che già dava Paolo, era quella per la quale gli israeliti sono attualmente «rami recisi» dall’Olivo Santo di Israele, che, per l’appunto, nella chiara lettera ed intelletto di Paolo non è, come fa oggi intendere l’ambiguità verbale del cardinal Kasper (ci torneremo), l’attuale giudaismo ma la Fede di quell’Abramo che «vide» Cristo. La recisione degli israeliti resterà tale, per volere divino, in attesa che tutte le genti entrino nell’Alleanza del Dio di Abramo.

Alleanza che Giovanni Paolo II ha definito «non revocata» ma che, è necessario precisare per evitare una lettura antitradizionale di queste parole, è tale in quanto, appunto, adempiuta e perfezionata e quindi continuata e superata da Cristo nel passaggio tra Antico e Nuovo Testamento, come succede anche nella vita civile nel passaggio dei contraenti dal contratto preliminare a quello definitivo.

Ma la risposta che i Padri della Chiesa, sulla scorta del magistero apostolico, hanno sapientemente e profeticamente dato alla questione implica anche l’evidenziare una certa ambiguità spirituale nell’Israele post-biblico, che la storia si è poi incaricata di dimostrare essere effettiva. Quella stessa ambiguità che oggi si sta rivelando nella cultura politico-religiosa del rabbinato ultraortodosso e che già nei secoli passati ha avuto diverse manifestazioni nei tanti pseudo-messia e falsi messia che hanno contrassegnato l’intera storia ebraica post-biblica.

Quanto dice San Paolo (gli ebrei sono i rami recisi dall’Olivo santo di Israele, ossia dalla vera Fede di Abramo, per l’innesto al loro posto - qui è il senso vero della oggi troppo ripudiata teologia della sostituzione - dei gentili in attesa del loro reinnesto, quando tutto l’Israele, quello degli ebrei e quello dei gentili, sarà ricomposto nell’Unità originaria come voluta da Dio prima del peccato adamitico: e non si dimentichi che proprio l’affermazione della «recisione» dell’Israele post-biblico permetteva a San Paolo, che pure si struggeva per i suoi fratelli nella carne, dei quali rammentava l’«elezione irrevocabile» - attenzione: non l’«Alleanza» - di ingiungere, nella Lettera a Tito 1,14, al suo interlocutore a proposito di certi giudaizzanti «redarguiscili recisamente, perché si risanino nella fede, non dando retta a favole giudaiche e a precetti d’uomini che voltano le spalle alla verità») trova il suo principale fondamento nelle parole stesse di Gesù rivolto ai dottori del Tempio: «Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato ad un popolo che lo farà fruttificare» (Matteo. 21, 43). Quel «popolo che farà fruttificare il Regno» è la Chiesa, il Nuovo Israele, popolo non etnico perché composto da tutti i popoli chiamati in Cristo, non nell’Israele post-biblico!, ad entrare nell’Alleanza di Abramo.

Non dimentichiamo che Saulo parlava ed agiva su esplicito mandato di Cristo in Persona, mandato ricevuto sulla via di Damasco, e che l’«Ecclesia ex gentibus» non è solo paolina ma anche assolutamente petrina. Fu la voce di Cristo a rimproverare Pietro, che da buon ebreo, ancora incapace di comprendere l’universalità della fede già presente nel Vecchio Testamento, si rifiutava di entrare nella casa del centurione Cornelio, ammonendolo di non disprezzare come impuri coloro che Lui aveva, con il Suo Sacrificio, resi puri, ossia i gentili. Pietro, con grande scandalo degli altri ebrei, e persino di Giacomo ed altri ancora chiusi nell’esclusivismo ebraico, entrò in casa di Cornelio dove si manifestò lo Spirito Santo, lo stesso che, a Pentecoste, aveva permesso, segno di Universalità, ai pagani presenti alla sua, di Pietro, predicazione di comprendere nelle loro rispettive lingue quel che egli annunciava in ebraico o aramaico (Atti 2, 10 e 11). Non a caso Pietro fu condotto dalla Provvidenza a testimoniare Cristo con il martirio a Roma, l’Urbe che sin dalle sue origini «mitiche» fu contrassegnata con lo stigma dell’universalità per raccogliere, in vista dell’Incarnazione, le genti sparse sulla terra: così è stato anche secondo la visione, del profeta Daniele, relativa ai quattro imperi, dei quali l’ultimo era appunto quello romano, che avrebbero preceduto ed accolto il Messia. Non a caso Saulo di Tarso era, al contempo, fariseo e cittadino romano (7).

Dunque, il vero fondatore del cristianesimo è, in ultimo, Cristo stesso. Non San Paolo come certa esegesi tende oggi a far credere, usando il metodo storico-critico contro la Tradizione e non a suo appoggio (non è il metodo storico, in sé, ma l’uso fazioso e fondato su pregiudizi razionalisti preventivi che se ne fa, o che ne fanno certuni, come Mauro Pesce o Cacicchi, ad essere contrario alla Tradizione apostolica). Paolo, tra gli apostoli, insieme a Pietro sulla cui roccia Cristo ha fondato la Chiesa (San Gregorio Magno parlava di Pietro e Paolo come dei pilastri incrollabili della Chiesa romana ossia della Chiesa Universale), è stato soltanto il più grande nell’opera di iniziale diffusione della Buona Novella.

Assoluta necessità, in un’ottica di continuità ermeneutica, di un intervento chiarificatore da parte del magistero

Ma torniamo alla questione degli illegittimi risvolti teologici della querelle sul «negazionismo». Non senza aver osservato però che la storia è di per sé sempre revisionista e che pertanto da un lato si deve evitare di confondere i «revisionisti» con i «negazionisti» e dall’altro non si può accettare, in uno Stato liberale di diritto, o che pretende di essere tale, e che aspettiamo ora alla prova dei fatti, la soppressione della libertà di ogni seria ricerca storica mirata alla verifica il più possibile esatta di quanto accaduto nel passato. Tuttavia, come si è già detto, quel che non può essere lasciato passare, non solo cattolicamente, per ovvie ragioni confessionali, ma anche laicamente, è il fatto che uno sterminio, tra i molti che purtroppo nella storia vi sono stati, e che nessuno ha intenzione di discutere nella sua realtà storica (cosa che lasciamo ben volentieri agli storici di professione non avendo noi alcun titolo per farlo né vantando in proposito l’arroganza del dilettante che dimostrano sovente molti negazionisti) sia diventato, e proprio nell’Occidente così fiero, ad esempio a proposito dell’assassinio legalizzato della povera Eluana Englaro, della raggiunta «laicità» dello Stato, un evento teologico-messianico da celebrare ritualmente in termini sacrali e confessionali.

Termini tali da costituire, lo si voglia o meno, una sfida che l’ebraismo post-biblico, quello per il quale il vero «messia collettivo» sarebbe lo stesso popolo ebreo che soffre per la salvezza intramondana del mondo (l'era della Pace universale), sta portando al cristianesimo. Non è Cristo, dicono ormai apertamente i «fratelli maggiori», sulla scorta del medioevale Maimonide, il messia e noi di Lui non abbiamo bisogno, Lui va bene solo per voi goym: si rileggano, ad esempio, le recenti dichiarazioni del rabbino di Venezia e del rabbino Di Segni, contro Benedetto XVI, accusato, a proposito della reintroduzione con la Messa tradizionale della preghiera per la conversione degli ebrei, di aver preteso, dopo la Nostra Aetate, di riaffermare l’Universalità e Unicità della Mediazione Salvifica di Cristo.

Come si vede la questione non è quella del «negazionismo». La questione è squisitamente teologica. E rientra, in una prospettiva storica illuminata teologicamente, nel generale processo di apostasia e di raffreddamento della amore e della fede in Cristo. Questo è il motivo per il quale ciò che ci preme è soltanto che la Chiesa proclami apertamente urbi et orbi, pur senza negare l’innegabile, che la persecuzione nazista non ha, non può avere, nessuna valenza teologica o salvifica o messianica o, appunto, «olocaustica». Proclamazione che, come si è già detto, non sarebbe affatto in contraddizione, né teologicamente né umanamente, con il pur esplicito riconoscimento che certamente anche la sofferenza degli ebrei, nei lager come in altre occasioni, alla pari del resto di quella di qualsiasi uomo o popolo a qualsiasi latitudine o in qualsiasi epoca, è partecipazione all'unica sofferenza salvifica, quella di Cristo sulla Croce.

Abbiamo letto tutti le parole pronunciate dal Santo Padre in apertura dell’udienza del 28 gennaio 2009 con le quali ha affermato un chiaro «no» ad ogni negazionismo o riduzionismo circa la Shoah (8). Affermazioni sostanzialmente ripetute il 13 febbraio a cospetto dei rappresentanti delle comunità ebraiche americane in Vaticano. Un «no» senza se e senza ma. Figli obbedienti di Santa Romano Chiesa ne prendiamo rispettosamente atto, pur rimarcando che non si tratta per niente di un pronunciamento dogmatico ex cathedra come falsamente presentato dalla stampa. Né abbiamo difficoltà a prendere atto delle parole del Papa neanche da un punto di vista più «laico» ossia storico, pur ribadendo che la libertà di ricerca storica non può mai essere messa in discussione.

Tutto ciò, però, non ci impedisce anzi, dal momento che i media hanno mestato nel torbido, ci obbliga ad auspicare che il Papa stesso intervenga in sede interpretativa nel senso di precisare, conformemente alla fede cristiana, che se è vero che chi nega la sofferenza degli ebrei durante la persecuzione nazista (non è in questione l’entità di tale sofferenza proprio secondo quanto ha detto lo stesso Papa: la violenza su uno equivale alla violenza su milioni) nega la Croce, è però cristianamente altrettanto e prioritariamente vero, anzi verissimo, che quella sofferenza non è, autonomamente, un «olocausto» alternativo, con il quale magari oltraggiando le vittime si pretenda oggi di giustificare politiche di sterminio e di apartheid nel Vicino Oriente, perché - ripetiamo -, per la dottrina cristiana, la sofferenza di ogni e qualsiasi uomo o popolo, in ogni epoca storica e ad ogni latitudine, dunque anche la sofferenza degli ebrei nei campi, ma non solo la loro, è soltanto partecipazione alla Sofferenza di Cristo sulla Croce, unico vero Olocausto salvifico riconoscibile per tale da un cristiano. La sofferenza degli ebrei ieri come quella dei palestinesi oggi è solo partecipazione al Calvario nel senso che, per stare alle parole dell’Apostolo, le sofferenze umane completano ciò che manca alla Sofferenza di Cristo, l’unica veramente Salvifica.

Ben ha compreso la questione un utente di questo sito, il signor Alessandro ..., che in una lettera indirizzata al direttore Blondet e debitamente pubblicata il 3 febbraio 2009, ha giustamente parlato, a proposito della questione in esame, di «analogia (non… equivalenza escatologica…) tra il Cristo - innocente - morto per noi e la morte di qualsiasi altro innocente lungo il corso della storia: il che non significa che quest’ultima morte possa o debba avere lo stesso valore salvifico di quella di Gesù. Il raffronto, insomma, diviene un invito alla carità e alla compassione, secondo… l’esempio di Papa Pacelli e Oskar Schindler».

Il da noi auspicato intervento esegetico del Papa, circa le sue affermazioni nelle ricordate occasioni, è quanto mai necessario al fine di evitare pretestuosi equivoci o usi inappropriati delle sue parole e per riconfermare noi cattolici nella fede tradizionale per la quale il popolo ebreo, dopo Cristo, benché caratterizzato dalla sua natura teologica più che etnica, è però un popolo come tutti gli altri non avendo esso alcuna speciale missione messianica da adempiere. Ora questo chiarimento ci sembra sempre più urgente proprio nella prospettiva di quell’«ermeneutica della continuità», se davvero tale vuole essere, fatta propria dal magistero di Benedetto XVI. Infatti, è innegabile che dal Concilio Vaticano II in poi molta teologia «giudaizzante» vuol far passare nella Chiesa, accettandola più o meno implicitamente, la pretesa «messianica» dell’Israele post-biblico, mettendo così a repentaglio l’Universalità ed Unicità della Mediazione Salvifica di Nostro Signore Gesù Cristo, da ultimo ribadita da Giovanni Paolo II nella Dichiarazione «Dominus Iesus» a suo tempo preparata dal cardinal Ratzinger. Si torni, dunque, con i Padri della Chiesa e molti dottori e mistici della lunga storia della Chiesa, ad interrogarsi sul ruolo ambiguo, verso la Fede cristiana, del giudaismo post-biblico. Una precisazione teologica, questa del carattere «ambiguo» di certe tendenze spirituali che nel corso dei secoli si sono manifestate in ambito giudaico-postbiblico, che del resto trova conferma nella ricerca storica, quella seria e non quella dei negazionisti, che ha appurato (si vedano in proposito gli studi dello storico ebreo George Mosse o del politologo Giorgio Galli) il carattere a suo modo «nazista» dell’ideologia sionista nonché le radici esoteriche (gnostico-cabaliste) di entrambi, nazismo e sionismo.

Se il magistero oggi utilizzasse un linguaggio più chiaro, tenendo conto che non tutti hanno le giuste competenze storiche e teologiche per leggere tra le righe, non si avrebbero ridicole dichiarazioni come quelle del vescovo di Regensburg, il quale, in occasione dell’affaire «Williamson», si é affrettato a dire che non permetterà al presule lefebvriano di mettere piede in alcuna proprietà della sua diocesi, perché sarebbe «fuori della Chiesa». Ci sembrava che il Santo Padre avesse revocato la scomunica e che, pur sussistendo molti altri problemi da chiarire tra Roma ed Econe, non si possa più tecnicamente parlare di esclusione dalla comunione ecclesiale.

Ma secondo il vescovo di Regensburg, Williamson sarebbe ancora al di fuori di tale comunione per aver detto cose «disumane e sacrileghe». Concetti analoghi ha espresso anche il cardinale arcivescovo di Lione, Philippe Barbarin, e quello di Salisburgo, Alois Kothgassen, che, insieme al cardinale Lehmann, si è messo a capo della fronda antiratzingheriana dell’episcopato austro-tedesco ed ha cianciato in questi giorni di «cessata fiducia, da parte della Chiesa locale, nell’Autorità centrale della Chiesa Universale» domandandosi con sfacciata spudoratezza «antiromana» se «E’ necessario che la Chiesa cattolica sia ‘purificata’ per essere ridotta a una setta nella quale resterebbe solo un pugno di membri fedeli alla linea ufficiale?» (ASCA-AFP 11 febbraio). Queste scandalose dichiarazioni di ribellione antiromana dimostrano quanto la «teologia dell’olocausto» abbia già inciso anche nella Chiesa. L’utilizzo di una categoria come quella del «sacrilegio» a proposito della discussione su un evento storico, tragico quanto si vuole ma non salvifico o messianico, é indicativo di tale incidenza. Siamo sicuri che se Williamson avesse confessato di avere dubbi circa il dogma dell’Immacolata Concezione non avrebbe avuto nessun problema ed il vescovo di Regensburg lo avrebbe magari invitato a presenziare qualche dotta catechesi al suo, sventurato, gregge!

Un nostro carissimo amico di profonda fede cattolica ci scriveva in questi giorni molto preoccupato. Con il suo consenso riportiamo le sue notevoli osservazioni: «Facevo alcune considerazioni su ciò che ha detto il Papa oggi a riguardo della Shoa: ti confesserò che tempo fa avrei pensato ad un ennesimo cedimento di fronte ai diktat della lobby sionista. In effetti i giornali oggi gongolano dicendo che il rabbinato di Israele ha affermato essere le parole del Papa ‘un passo avanti’ anche se però ‘esigono le scuse’. Ma nel discorso del Papa io vedo che esprime ‘piena e indiscutibile solidarietà con i nostri fratelli destinatari della prima alleanza’. E qui, mi sbaglierò, è già un affermare a chi ha orecchie per intendere che è ormai in atto la Nuova Alleanza e conseguentemente un riaffermare implicito che il Messia ed il nostro Unico Salvatore è Gesù Cristo, e non so quanto un talmudico possa essere contento di questo. Poi dice: ‘In questi giorni nei quali ricordiamo la Shoah, mi tornano alla memoria le immagini raccolte nelle mie ripetute visite a Auschwitz, testimonianze delle vittime innocenti di un odio razziale. Auspico che la memoria della Shoah induca l’umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell’uomo. La sua memoria sia per tutti monito contro l’oblio, il negazionismo e riduzionismo perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti. La Shoah insegni specialmente sia alle vecchie sia alle nuove generazioni che solo il faticoso cammino dell’ascolto e del dialogo, dell’amore e del perdono conduce i popoli, le culture e le religioni del mondo all’auspicato traguardo della fraternità e della pace nella verità. Mai più la violenza umilii la dignità dell’uomo’. Premetto (come già ti scrissi) che il Papa ha vissuto quegli anni tremendi e siccome Cristo si fa incontrare negli avvenimenti umani non può certamente prescindere da ciò che ha vissuto. Lui non mi pare stia a sindacare sui numeri e sulle modalità con cui si esplicò un odio verso gli ebrei, ma anche contro gli zingari, di cui non si parla mai, gli slavi, i cattolici (vietatissimo dirlo), e tutti i diversi (von Galen ebbe il coraggio rischiando la vita di denunciare la uccisione dei malati di mente): questo è compito degli storici (o meglio lo sarà in tempi meno ideologicizzati e più sereni). Lui, almeno mi pare, mette giustamente in guardia contro chi vuole negare che vi sia stato odio e che quest’odio abbia avuto conseguenze: anche se fossero stati ‘solo’ 300.000 ed anche fossero morti di fame e stenti (come è morta oggi, nella ‘libera e democratica repubblica italiana nata dalla resistenza al nazifascismo’, la povera Eluana Englaro, nda) e malattie anziché nelle camere a gas, sarebbe stato un genocidio comunque. Come pure se la prende con il rischio di un riduzionismo (‘... ah, ma se allora sono di meno allora la cosa non è stata così grave!’): un po’ come sta succedendo con i morti di Gaza. Sono rimasto senza parole quando ho ascoltato un commento di padre Livio Fanzaga che, accreditando tranquillamente un articolo (negazionista) di Lorenzo Cremonesi in cui diceva che i morti ‘sarebbero stati solo 600’ diceva che insomma bisogna stare attenti alle notizie. Ma insomma!!! Anche se fossero stati ‘solo 600’ hai il coraggio di stare tranquillo? Ma con Gaza evidentemente si può fare: si può essere negazionisti e riduzionisti. Riporto di nuovo: ‘Auspico che la memoria della Shoah induca l’umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell’uomo. La sua memoria sia per tutti monito contro l’oblio, il negazionismo e riduzionismo perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti. ‘Caspita! questo è sacrosanto! Io non credo che ciò che è successo a Gaza sia stato ininfluente su questa frase. L’odio viene fuori anche da chi è animato delle migliori intenzioni. Ed a questo proposito hai fatto benissimo Luigi a notare come spesso anche nei commenti… vi sia questo rischio. Nessuno è esente da questo rischio (personalmente credo anche vi sia una buona quota di provocatori che capitano non a caso in siti… che cercano di essere critici su ciò che stiamo vivendo). Insomma credo che più si vada avanti più risulti che, nonostante qualche limite ‘professorale’ su cui abbiamo già discusso, il Papa sia veramente mosso dallo Spirito Santo: ti rendi conto? Ha avuto il coraggio (santo coraggio) di togliere la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani, di fare questo ‘atto di paterna misericordia’ (ed il vescovo ‘incriminato’ le sue dichiarazioni, la stampa non lo dice, le aveva fatte già qualche mese fa). Di agire insomma come un vero padre. Come pure di parlare per tramite di Martino su Gaza denunciando la situazione. Certamente ha un suo stile, diverso da Giovanni Paolo II. Ma credo che si rischi di sottovalutarlo. Ed ancora di più si rischia di sottovalutare l’azione dello Spirito Santo che non lascia mai sola la Sua Chiesa. Anche se certamente, come ci ha promesso Gesù, ci saranno croci per tutti».

Abbiamo richiamato tali considerazioni, per le quali ringraziamo l’amico autore, perché si tratta di osservazioni animate da sana e chiara razionalità vivificata da autentica fede. Purtroppo dobbiamo aggiungere una nostra osservazione, ricollegandoci a quanto dicevamo circa il neo-linguaggio ambiguo ormai in uso da troppi decenni anche all’interno della Chiesa. E’ acquisizione recente l’uso dei termini «Primo» e «Secondo» Testamento in luogo dei più tradizionali «Vecchio» e «Nuovo». Anche il Papa, come ricorda il nostro amico, ha usato il nuovo linguaggio. Nulla di male in questo se non si intende svalutare la centralità di Cristo che, nella Sua Persona, è il vero raccordo tra i due Testamenti. Il fatto è che però la nuova terminologia in questione è prevalsa proprio con l’intenzione di svalutare tale centralità ed affermare se non la centralità perlomeno la «parallelità» dell’Israele post-biblico. Non è certamente in questo senso che il Santo Padre ha usato tale terminologia. Ma in tal senso la usa, e l’ha usata anche in occasione dell’affaire «Williamson», ad esempio, un Gad Lerner.

Torna dunque il problema dell’utilizzazione nel Popolo di Dio, nell’Ecclesia, di termini, di elaborazione teologica, ossia usati tra i «tecnici» della teologia, per comprendere i quali nel loro giusto ed esatto significato e senso, senza cadere in equivoci teologici, è necessario per l’appunto una cultura teologica, almeno minima, che non tutti hanno. E poi si ciancia di «maggiore partecipazione dei laici»: ma il povero padre di famiglia alle prese con i problemi di tutti i giorni, oggi poi con la crisi economica e la paura della disoccupazione, può davvero perdere tempo per informarsi sul significato autentico di certa nuova terminologia che poi si ritrova spiattellata su Repubblica da Gad Lerner ma usata in senso equivoco e truffaldino?
E non sarebbe allora più giusto che i Pastori utilizzino la terminologia tradizionale riservando le «novità» linguistiche ai loro dotti simposi?

Ci scriveva ancora quell’amico: «Ma mi è capitato di leggere questa frase del cardinale Kasper. E’ tratta da un articolo di Crippa sul Foglio: ‘Per quanto riguarda il documento più discusso e controverso di Ratzinger, la ‘Dominus Iesus’, vale la pena ricordare un intervento del cardinale Walter Kasper, presidente del comitato internazionale per i Rapporti tra cattolici ed ebrei, in cui il porporato suggeriva una ‘interpretazione autentica’ del pensiero ratzingeriano sull’ebraismo tesa il fugare i dubbi: ‘Le relazioni tra cattolici ed ebrei non sono un sottoinsieme delle relazioni interreligiose’, scriveva. ‘ Nello spirito della chiesa, l’ebraismo è unico tra le religioni del mondo, perché, come afferma la ‘Nostra Aetate’ esso è ‘la radice dell’olivo buono sulla quale sono stati innestati i rami dell’olivo selvatico dei gentili’. E, soprattutto, la ‘Dominus Iesus’ non afferma che tutti debbano diventare cattolici per essere salvati da Dio. Al contrario, dichiara che la grazia di Dio - che, secondo la nostra fede, è la grazia di Gesù Cristo - è a disposizione di tutti. Di conseguenza, la chiesa crede che l’ebraismo, cioè la risposta fedele del Popolo ebreo all’alleanza irrevocabile di Dio, è per esso fonte di salvezza, perché Dio è fedele alle sue promesse’».

Giustamente, il nostro caro amico osserva in merito all’interpretazione kasperiana: «Ora questa ‘interpretazione autentica’ del pensiero ratzingeriano non mi convince assolutamente. Un conto è dire che una persona che non è cristiana si può salvare in forza della Grazia di Gesù Cristo, e qui niente da dire. Ma dire che ‘l’ebraismo, cioè la risposta fedele del popolo ebreo all’alleanza irrevocabile di Dio, è per esso fonte di salvezza, perché Dio è fedele alle sue promesse’, ad uno che conosce il Talmud, credo dia qualche problema. Perché tra l’altro non si capisce a quale ebraismo si riferisca il cardinale. E il mistero dell’Incarnazione? A che cosa sarebbe servito? Almeno a cosa serve per gli ebrei? Non si sarà spiegato bene? E sia: ma allora come mai per Kasper nessun ammonimento? Nessun richiamo? Allora preferisco un vescovo come Williamson che dirà anche qualche fesseria pesante, ma su un piano meramente storico» (9).

La corretta esegesi della «Nostra aetate»

Domande e parole sacrosante queste del nostro carissimo amico. Maurizio Crippa, cui si riferiva quel nostro amico, è un noto «cristianista». Non a caso, con il suo articolo, si è fatto promotore dell’ambigua esegesi del cardinal Kasper, a sua volta molto «talmudico nelle sue esternazioni» (10).

L’articolo del Crippa, che cita «Nostra Aetate», fa eco alle dichiarazioni del Gran rabbino di Francia, Gilles Bernheim a Le Monde: «Come il Papa poteva ignorare il negazionismo di monsignor Williamson? Se la revoca della scomunica è un invito alla riconciliazione, come riconciliarsi con chi si è escluso dalla cristianità con le sue dichiarazioni? Come dialogare con quest’altro che vede nella negazione della Shoah una opinione personale, e cosa succederà se i quattro vescovi non più scomunicati continueranno a rifiutare il Vaticano II e Nostra Aetate, la dichiarazione adottata nel 1965 dal Concilio Vaticano II che afferma il legame storico tra il giudaismo e il cristianesimo?».

Qui l’urgenza di attuare, per davvero ed al più presto, con inequivocabili documenti esegetici del Magistero, l’ermeneutica della continuità si palesa assolutamente necessaria nel modo più evidente. Infatti sia Kasper che il Gran Rabbino francese forzano il senso, vero ed autentico, di «Nostra Aetate» se letto alla Luce della Tradizione. Perché, sarebbe ora di ricordarlo apertamente urbi et orbi, anche a molti lefebvriani, il fondamento primo e tradizionalmente autentico della dichiarazione sui rapporti ebraico-cristiani, contenuta in detto documento conciliare, influenzato quanto si vuole da ambienti giudaici ma, una volta approvato, pur sempre da leggere in continuità con il precedente Magistero, è innanzitutto quanto affermò Pio XI mentre infuriava la persecuzione nazista: «Noi cristiani siamo spiritualmente semiti». Se, dunque, questa è la vera base storica, teologica e magisteriale di «Nostra Aetate», dove si nasconde la radice del possibile equivoco esegetico, che poi nel post-Concilio è dilagato sull’onda del troppo gioioso ottimismo anni sessanta che ha impedito un dovuto ed immediato intervento finalizzato a chiarirne il significato ed a mettere i necessari, ed opportuni, invalicabili paletti? La «Nostra Aetate» con un linguaggio, bisogna riconoscerlo, non altrettanto chiaro di quello usato da Pio XI, afferma che i cristiani sono «spiritualmente uniti alla stirpe di Abramo». Il riferimento al concetto di «stirpe», benché debba essere inteso, come era nelle intenzioni dei Padri conciliari, in senso di «popolo teologico», che storicamente nasce intorno alla fede di un capostipite in un misterioso e trascendente Dio che si rivela per una promessa di salvezza universale, può però essere frainteso, ed in effetti è stato frainteso nel modo in cui l’opinione pubblica ecclesiale e non ecclesiale lo ha recepito, in senso «naturalistico» o, addirittura, «etnico-religioso». Nel senso in cui - guarda caso - il giudaismo post-biblico ha finito per storpiare il concetto teologale di «popolo eletto» preparando la via ai tragici esiti millenaristici e nazional-messianici del giudaismo stesso, prima, e, con la costituzione nel 1948 dello Stato di Israele, del sionismo, poi.

Alla «stirpe», dunque, non alla «fede» di Abramo, afferma, con linguaggio non inequivoco, «Nostra Aetate». Qui l’intervento esegetico del Papa, per evitare i fraintendimenti testé sopra accennati, è davvero urgente al fine di chiarire che il significato dell’espressione usata da «Nostra Aetate» deve essere inteso in continuità con il precedente magistero di Pio XI, e dunque in senso teologale con riferimento alla «Fede di Abramo», e non alla sua stirpe naturalisticamente intesa, e, pertanto, non nel senso che vorrebbe l’esegesi del cardinal Kasper e del Gran Rabbino di Francia che non distinguono tra il vero ebraismo veterotestamentario, la Fede di Abramo o di Israele, adempiutasi in Cristo ed il falso ebraismo rabbinico post-biblico o talmudico. E’ necessario riaffermare chiaramente la continuità tra vero ebraismo e cristianesimo ed, al contempo, la rottura tra il vero ebraismo ed il talmudismo. Questo è ciò che ha sempre insegnato la Chiesa per duemila anni, a partire da San Paolo, anzi da Nostro Signore in Persona. Solo così infatti si spiega la Sua polemica verso i sinedriti: «Guai a voi, dottori della Legge, che avete tolto la chiave della scienza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito» (Luca 11, 52; Matteo 23, 13); «Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: ‘Sulla cattedra di Mosé si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno» (Matteo 23, 1-2). Ed è questo che insegna, seppur con una terminologia che da adito ad equivoci, «Nostra Aetate» se rettamente intesa alla Luce della Tradizione. Come appunto ricorda, pur senza citare il documento conciliare, il Superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Riportiamo direttamente le sue dichiarazioni come rese note in questi giorni alla stampa:

«Fellay: ‘Spiritualmente, siamo ebrei’ - 2 febbrario 2009 - Dopo aver dato spazio ai protagonismi e alle dichiarazioni oggettivamente imbarazzanti di qualche membro della Fraternità Sacerdotale San Pio X, è giusto sottolineare l’importanza delle parole usate da monsignor Fellay nell’intervista a ‘Famille Chrétienne’. Ecco il brano più interessante: ‘Noi condanniamo fermamente ogni gesto assassino nei confronti di un innocente. E’ un crimine che grida vendetta verso il cielo! Soprattutto quando è rivolto a un intero popolo. Noi rigettiamo ogni accusa di antisemitismo. In maniera totale e assoluta. Rigettiamo qualunque forma di approvazione di ciò che è accaduto sotto Hitler. E’ un qualcosa di abominevole. Il Cristianesimo mette la carità al di sopra di tutto. San Paolo, parlando degli ebrei, proclama: ‘Desidero io stesso essere separato da Cristo a favore dei miei fratelli! (Romani 9,3). Gli ebrei sono i ‘nostri fratelli maggiori’, nel senso che abbiamo un qualcosa in comune, cioè l’Antica Alleanza. Certo che il riconoscimento della venuta del Messia ci separa’. ‘E’ molto interessante notare che la Chiesa non ha atteso il Concilio per stabilire una linea d’azione riguardo agli ebrei. Fin dagli anni ‘30, e anche durante la guerra, diversi documenti della Chiesa di Roma hanno stabilito una posizione assai giusta: gli abomini del regime hitleriano devono essere condannati!. Pio XI aveva detto ‘siamo spiritualmente tutti semiti’. E’ una verità che scaturisce direttamente dalle Sacre Scritture. Come afferma anche San Paolo, ‘siamo figli di Abramo’».

Un linguaggio più cristiano e più chiaro di questo, nel condannare l’antisemitismo e nel ricordare la radici ebraiche del Cristianesimo, non è possibile. Ma ai «fratelli maggiori» nulla va mai bene. Essi hanno visto in Ratzinger il pericolo del ritorno nella Chiesa di una teologia chiara nei riguardi dei rapporti ebraico-cristiani, una teologia che, superando certe dure posizioni del passato (questo lo si deve onestamente concedere: certa antica controversistica, anche teologica, era davvero immonda), non perda però di vista che tra noi e loro vi è la Divino-Umanità di Cristo che loro rifiutano.

E che tale questione è essenziale e di fronte ad essa non c’è dialogo che possa reggere. Del resto anche Giovanni XXIII diceva che «dobbiamo guardare più a quel che ci unisce che a quel che ci divide» ma subito aggiungeva, una aggiunta essenziale che - guarda caso - non è però mai ricordata, «salvo il dogma e la fede cattolica», ossia, nel caso dei «fratelli maggiori», proprio la Divino-Umanità Messianica di Gesù Cristo. Abituati da cinquant’anni a vedere sempre i cattolici giocare in difesa, gli ebrei sono ora terrorizzati dall’eventualità di un contropiede.

Se intenzione dei Padri Conciliari era quella di «addolcire» i toni con i quali, lungo i secoli, la controversistica cristiana, del resto ampiamente ripagata da quella giudaica, anzi preceduta da quest’ultima (le offese a Cristo e a Maria immediatamente coeve alla predicazione di Nostro Signore e poi codificate dal Talmud), si era relazionata con le comunità ebraiche, allo scopo non serviva porre dubbi sulla tradizionale «teologia della sostituzione» ma soltanto una capillare ed efficace opera pastorale, e pastorale appunto volle essere il Vaticano II, intesa a inculcare nei cristiani, salvo la pretesa del reciproco rispetto, una maggiore carità verso gli ebrei. Quella maggiore carità che praticata nel corso della storia da moltissimi Papi, Santi e Beati non sempre è stata praticata da tutto il popolo cristiano, anche se - sia detto con chiarezza e fermezza - non sempre a torto o senza giuste ragioni secondo le concrete circostanze dei tempi.

Una corretta lettura di «Nostra Aetate» alla Luce della Tradizione, secondo la prospettiva di continuità sopra suggerita, comporterebbero il semplice disvelamento di un mistero già in atto da tempo immemorabile nella storia della Chiesa ossia la costante e sempre più profonda presa di coscienza del fatto che, se è verissimo che l’Israele post-biblico è ramo reciso dall’Olivo del Vero Israele e che il sacerdozio levitico è stato abrogato dal superiore Sacerdozio al modo di Melchisedeq, che è il Sacerdozio di Cristo, è altrettanto vero che gli israeliti, come dice sempre San Paolo nella Lettera ai Romani esortando i cristiani di provenienza gentile a non insuperbirsi verso di essi, avendo conservato l’«elezione», di per sé irrevocabile, e le «alleanze», pur «recisi» non sono del tutto avulsi dall’Albero della Rivelazione, rimanendo un tenue filo che per una parte di essi, quella escatologica della fine del tempo, il cosiddetto «resto di Israele», significa possibilità sempre attuale di reinnestarsi nell’Olivo Santo. Quel tenue filo è ciò che ha condotto nei secoli moltissimi ebrei a riconoscere in Cristo Gesù il Messia atteso e già venuto ed è quello che, mentre adesso continua a tormentarlo, di qui la sua angoscia metafisica che spesso scoppia in aperta polemica verso il Cristianesimo, riporterà alla fine del mondo l’Israele post-biblico totalmente e pienamente nell’alveo della Rivelazione, ossia alla Vera Fede di Abramo. In tal senso, come dice appunto anche «Nostra Aetate», gli ebrei non sono stati dimenticati da Dio, in virtù dei meriti dei loro Padri, che sono i nostri Padri nella Fede, né da Dio «maledetti» se per tali si intende respinti definitivamente.
La «maledizione», infatti, in senso biblico sta ad indicare soltanto il provvisorio allontanamento, sempre rimediabile, dalla Misericordia divina causato dalla cattiva disposizione dell’uomo verso Dio. In altri termini, Dio non ha rigettato definitivamente gli ebrei ma sono stati piuttosto questi ultimi a rigettare Dio rifiutando il Suo Cristo e ponendosi così da se stessi al di fuori della Rivelazione che con Gesù giungeva a compimento definitivo. Gli ebrei che hanno rifiutato Nostro Signore si sono recisi da soli dall’Olivo Santo. E questo evento, afferma San Paolo, è stato da Dio permesso sia a vantaggio dei gentili, che altrimenti non sarebbero potuti entrare nell’Alleanza di Abramo, sia, in ultima istanza, anche a vantaggio degli ebrei in modo da poter Egli, nella Sua Infinita Bontà, usare a tutti misericordia, ai gentili innestandoli in Cristo nel Disegno di Salvezza Universale ed agli ebrei facendoli cadere, per la loro superbia, e poi alla fine, quando pentiti riconosceranno Cristo, riammettendoli nell’Alleanza.

La necessità di un intervento chiarificatore da parte del Magistero è dimostrata anche dagli equivoci insorti durante il pontificato precedente quello attuale. Giovanni Paolo II, in più di un’occasione, sulla scorta di «Nostra Aetate» e di fronte ai rappresentanti delle comunità ebraiche, ha usato l’espressione «popolo dell’Alleanza non revocata». Bene, benissimo. Ma come si deve intendere una tale espressione? Nel senso che quello ebraico è il popolo un tempo eletto e dunque è il popolo dell’Alleanza, la prima, che non è revocata perché, come il contratto preliminare che viene assorbito da quello definitivo, è stata adempiuta definitivamente, e dunque in questo senso continuata e pertanto, appunto, «non revocata», dalla Nuova, la seconda, Alleanza in Cristo, sicché l’Israele post-biblico, come dice San Paolo, è al momento un «ramo reciso» dall’Alleanza in attesa, alla fine dei tempi, di esservi reinnestato? Oppure, invece, come vorrebbe un Kasper, tanto per citarlo ancora, quell’espressione significa che il popolo di Israele nell’Alleanza non revocata è ancora perfettamente inserito, sicché Essa, la Prima Alleanza, continuerebbe ad aver valore per i «fratelli maggiori» come loro esclusiva via di salvezza a-cristiana o a-cristica, e dunque, come taluni vorrebbero, in contrasto con «Dominus Iesus» e forzando il senso di una corretta esegesi di «Nostra Aetate» che sia in continuità con il Pio XI del «noi cristiani siamo spiritualmente semiti», che esistono due vie parallele di salvezza, una in Cristo per i gentili ed una esclusiva senza Cristo per gli ebrei (esattamente quel che ad ogni occasione proclama il rabbino Riccardo Di Segni che rimprovera il Papa di voler tornare - ma quando mai il Papa o la Chiesa si sono da essa veramente allontanati? - alla pretesa dell’Unicità Universale della Mediazione Salvifica di Cristo)?

Abbiamo paura che molti cardinali e vescovi occhieggiano alla seconda interpretazione. Ed è a loro che si è rivolto, come abbiamo visto, Gad Lerner, gettando il guanto della sfida teologica, affinché forzino la mano ai Papi post-conciliari che finora non hanno osato dire l’indicibile in atti del Magistero. Non che da parte del giudaismo post-biblico questa sfida sia una novità. Ma appunto per questo da parte cristiana necessita la più assoluta chiarezza. Come dice Benedetto XVI: il dialogo non può vertere sulle fedi che sono assoluti ma solo sulle culture e sui valori universali che le accomunano. Ma se questo vale nei rapporti tra Cristianesimo e tutte le altre fedi e culture non si capisce perché mai, come vorrebbero alcuni, non debba valere egualmente anche verso il giudaismo post-biblico, per il quale ci dovrebbe essere una sorta di dialogo preferenziale o speciale (l’organo curiale deputato al dialogo con l’ebraismo è attualmente un ufficio del Dicastero per l’Unità dei cristiani, guidato - guarda caso - dal solito Kasper). Solo perché l’ebraismo è intrinseco al Cristianesimo? E chi lo nega! Non certo noi che ad ogni piè sospinto lo riaffermiamo e ricordiamo, proprio perché siamo ben consapevoli del rischio, altrettanto «eretico», del marcionismo. Ma è pur vero che l’attuale giudaismo non è la stessa cosa dell’ebraismo, quello autentico, dei tempi di Cristo e sul quale è fiorito, come suo adempimento, il Cristianesimo.

Questo, lo ripetiamo, è il grande equivoco, «ecumenico», nutrendo il quale la Chiesa si illude e prende continui schiaffi dai «fratelli maggiori». L’attuale prevalente teologia, come si è visto, insegna che il giudaismo post-biblico ed il Cristianesimo sono due varianti, altrettanto legittime, della medesima fede biblica. Questo insegnamento chiaramente si discosta da duemila anni di Tradizione apostolica alquanto diversa. Un insegnamento nuovo che, come dice Gad Lerner, è stato solo «sussurrato» anche dai Papi post-conciliari ma limitandosi ad omelie non equivalenti a documenti ufficiali ed inderogabili del Magistero. Lerner ha lanciato proprio qui la sua sfida invitando le gerarchie a fare il passo definitivo di far assurgere il nuovo insegnamento al livello dell’inderogabile magistero. Il che sarebbe un cataclisma, anzi l’Apocalisse: crediamo che il Papa lo sappia bene. Ma molti, intorno a lui, è a ciò che auspica Lerner che aspirano. E, forse, riuscirebbero anche a tradurre i loro funesti auspici in tragica realtà se la Chiesa non fosse perennemente assistita dallo Spirito Santo che veglia su di Essa.

L’audacia dei «fratelli maggiori» si è tuttavia fatta sempre più sfrontata, perché questo è il loro momento. Questo è il giorno storico del Venerdì Santo di Passione, è il momento delle tenebre, cui seguirà immancabilmente l’alba radiosa della Pasqua di Resurrezione, nel Signore, della Sua Chiesa che tornerà ad essere Vera Luce delle genti, quando quella falsa delle mal riposte speranze messianiche dell’Israele post-biblico naufragheranno, probabilmente con il naufragio dei sogni millenaristici che governano l’attuale politica razzista dello Stato Sionista di Israele. Lerner, infatti, non fa altro che amplificare quanto, e non da ora, afferma il rabbinato ormai con toni sempre più autoritari e perentori, proprio facendo leva sull’equivoca lettura dei contenuti di «Nostra Aetate», una lettura di rottura con la Tradizione ampiamente fatta propria anche in ambito cattolico dai fautori dell’ecumenismo irenistico. La dimostrazione che tutto l’affare «Williamson», e quelli precedenti della «Dominus Iesus», del «Motu Proprio» e della preghiera «pro judaeis», nasconde ben altro che il mero, teologicamente inesistente, problema del «negazionismo», e che invece con lo sbarramento di fuoco a 360° contro il Papa «restauratore», che noi cattolici non siamo stati capaci di difendere adeguatamente (se certi ambienti tradizionalisti invece di gridar vittoria sul Concilio avessero serrato le fila a difesa del Pontefice, mettendo da parte, durante l’attacco mediatico, ogni altra residua questione, forse le cose avrebbero preso altra piega), si è voluto affossare proprio quell’ «ermeneutica della continuità» che, sancita da Benedetto XVI il 22 dicembre 2005, aveva gettato nel panico rabbini, novatori, sedevacantisti e laicisti di vario genere, è evidente nella seguente dichiarazione del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che pare sia stata fatta pervenire anche al Santo Padre come una sorta di diktat contenente le condizioni di parte ebraica per l’eventuale ripresa del dialogo: «Dopo due settimane di difese d’ufficio e progressive ammissioni imbarazzate, finalmente ieri un comunicato della Segreteria di Stato ha preso una chiara posizione sulla terribile vicenda del vescovo negazionista. Nello stesso comunicato, al punto 2, si afferma la necessità, per una completa riammissione nella Chiesa della fraternità lefebvriana, dell’accettazione completa delle decisioni del Concilio e del magistero degli ultimi Papi.

E’ essenziale fermare l’attenzione e la vigilanza su questo punto, perché il clamore suscitato dal negazionismo oscura il nodo essenziale del problema, che è quello dell’esistenza di un vasto ambiente cattolico tradizionalista, spesso tollerato se non coccolato, nel quale l’antigiudaismo alligna e prospera. Su questo punto si gioca sugli equivoci, tutti si dichiarano ‘non antisemiti’, come lo era già il papato di Pio XI, in quanto contestava il razzismo; ma l’ostilità teologica antiebraica - quella che viene definita ‘antigiudaismo’ - non ha bisogno del razzismo per esistere e diffondersi. La svolta decisiva contro questa tradizione è stata impressa dalla dichiarazione ‘Nostra aetate’ del Concilio, quella che in qualche modo scagionava gli ebrei di oggi dalla colpa del deicidio e ‘deplorava’ (sic) l’ostilità antiebraica. A questa dichiarazione sono seguiti i tanti documenti e gesti positivi che conosciamo, sempre rifiutati dai tradizionalisti. Al punto attuale della discussione, i punti aperti sono: 1. come è stato fatto per il negazionismo deve essere chiaro che - se si vuole mantenere un dialogo rispettoso - non c’è posto non solo per l’antisemitismo ma anche per l’antigiudaismo e che i documenti specifici su questo tema debbano essere accettati esplicitamente, senza generalizzazioni; 2. ci deve essere una coerenza tra documenti e comportamento, evitando incidenti ed equivoci continui che creano sfiducia; 3 infine, last but not least, anche se tutti i documenti sono un enorme passo avanti, le difficoltà sostanziali rimangono; vorrei ricordare come proprio all’indomani del nuovo ‘sabato nero’ dell’annuncio della revoca della scomunica, nell’angelus domenicale, il Papa, parlando della conversione di Paolo, ha detto che in realtà di vera conversione non si trattava perché Paolo era un ebreo credente e ‘non dovette abbandonare la fede ebraica per aderire a Cristo’. ‘Togliamo il negazionismo, il deicidio, se ci riusciamo anche l’antigiudaismo, ma il problema di fondo è sempre lo stesso».

Dimentica, però, il Di Segni, a proposito di quanto il Papa ha detto circa la conversione di San Paolo, che l’Apostolo, sulla via di Damasco, non ha fatto altro che riscoprire, come fecero, prima di lui, Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, il vero, unico, solo ed autentico ebraismo che è quello di Nostro Signore Gesù Cristo e non quello dei sinedriti alla Caifa o quello sinagogale di oggi. La Chiesa è da decenni che sta affrontando una sua interna riflessione teologica sull’antigiudaismo. Crediamo che in questa riflessione molte lodevoli cose siano state dette e fatte, ma che al tempo stesso si sia andati sovente oltre il lecito fino, come già detto, a rasentare l’apostasia.

Ora il superamento dell’asprezza del vecchio antigiudaismo sarà pure cosa buona e caritatevole ma non si può non dire cristianamente, con San Paolo, che il giudaismo post-biblico è un «ramo reciso» dall’albero della Rivelazione Abramitica culminato in Cristo Signore. Se è vero che San Paolo, come tutti gli ebrei che hanno accettato Cristo, vedi il caso novecentesco di Israel Zolli, non si sono propriamente convertiti perché non hanno fatto altro che ritrovare in Gesù l’autentico ebraismo del padre Abramo e dei patriarchi, ciò significa implicitamente che gli altri israeliti hanno ampiamente smarrito l’autentico ebraismo e che dunque il loro, attuale, è un ebraismo non autentico, viziato da una profonda rottura esegetica. Altro che continuità! In senso teologico e cattolico tra il giudaismo attuale e quello veterotestamentario, adempiutosi in Cristo, non vi è nessuna continuità. Questa vi è invece tra l’ebraismo e Cristo. Su questo fondamentale e centrale argomento la fede cristiana sta o cade: non è questione di second’ordine!

Una cosa è comunque certa: tutta la questione, durante il Pontificato di Benedetto XVI, sta assumendo davvero una piega inquietante. Da parte ebraica ormai la spregiudicatezza è assoluta. I «fratelli maggiori» si sentono autorizzati a dettare alla Chiesa le condizioni stesse del dialogo e, cosa ancora più grave, l’agenda della riflessione teologica cattolica sulla fede. Lo diciamo a tutti i cattolici: fino a quando dobbiamo essere disposti a tollerare cose come il «diktat», di cui sopra, che il rabbino Di Segni, come sembra, ha indirizzato, con tono autoritario e perentorio, anche al Santo Padre?

Il percorso teologico di Joseph Ratzinger

Per verificare se, dopo l’inaspettata, per i «fratelli maggiori», azione «da goal» del discorso di Benedetto XVI del 2005 sull’«ermeneutica della continuità», il contropiede sia davvero in atto, e fino a che punto lo sia, è necessario indagare sullo sviluppo delle posizioni teologiche di Joseph Ratzinger. Nei suoi studi privati, soprattutto giovanili, anche Ratzinger ha sostenuto, spesso, che giudaismo post-biblico e Cristianesimo siano due forme, entrambe legittime, della stessa fede biblica. In quanto teologo, Joseph Ratzinger se da un lato ha riaffermato la piena verità della forma cristiana dall’altro ha riconosciuto, magari implicitamente, validità anche alla forma giudaico post-biblica della comune fede biblica, quindi ammettendo un ruolo in qualche modo «messianico» all’Israele post-biblico nel Disegno di Salvezza Universale. Ruolo che si sarebbe, appunto, rivelato, come vuole l’attuale ebraismo, con la Shoah. Insomma in un certo senso Ratzinger, in quanto teologo, sembra porsi come tramite tra l’antica teologia paolina dell’Israele reciso dall’Olivo Santo (teologia che è alla base di quella detta «della sostituzione») e la nuova teologia post-conciliare del «doppio soggetto messianico» (Cristo ed Israele). Nuova teologia che, però, relativizza Cristo ed inclina pericolosamente verso quella che propugnano i cristiano-sionisti americani. Tuttavia Ratzinger, e questo non va assolutamente sottaciuto come invece fanno molti tradizionalisti, a differenza dei neo-teologi radicalmente giudaizzanti, molto deboli in quanto a memoria apostolica e patristica, non ha mai mancato nel ricordare, con San Paolo, che alla fine Israele si convertirà a Cristo, come annunciato dalla fede cattolica, sicché il ruolo post-cristiano di Israele, nonostante tutte le sue «prostituzioni» (per usare il linguaggio dei Profeti veterotestamentari), è, in ultima istanza, anche ad insaputa dei «fratelli maggiori», sempre cristocentrico.

C’è però un fatto che anche Ratzinger tende a non puntualizzare con chiarezza, ed è questo. I Padri della Chiesa, un esempio per tutti: San Giovanni Crisostomo nelle sue «Omelie contro gli ebrei», magari utilizzando un linguaggio non proprio caritatevole ma era il linguaggio polemico dei loro tempi, del resto usato anche da parte ebraica, affermavano che Israele alla fine riconoscerà Cristo, come lo conoscono i cristiani, ossia come Dio-Uomo Universale, ma ritenevano anche che fino a quel momento il ruolo di Israele sarebbe stato ambiguo. Da un lato esso, a detta dei Padri, nel suo turbamento metafisico, avrebbe continuato a sentire il fascino ed il mistero di Cristo, ed infatti la schiera degli ebrei che nel corso dei secoli si sono liberamente e sinceramente convertiti è notevole (naturalmente vi sono stati anche molti casi di conversione più o meno forzata o insincera), dall’altro lato però avrebbe sempre avversato la fede in Cristo, ed infatti le dure polemiche e lotte tra Chiesa e Sinagoga stanno lì a dimostrare la verità storica del magistero «profetico» dei Padri.

Se, dal Vaticano II in poi, da parte cattolica si è fatto di tutto per superare quanto di mancante sotto il profilo della carità verso i «fratelli maggiori» può esservi stato, è indubbiamente vero che da parte loro, da parte ebraica, non sono stati fatti, per niente, passi verso di noi. Con il risultato che mentre i cristiani si sono spinti a tal punto da mettere a repentaglio la propria fede, affogandola nel relativismo e nell’ecumenismo indifferentista, i «fratelli maggiori», complice anche la fondazione dello Stato di Israele nel 1948 nel quale hanno visto l’adempimento delle Scritture come le leggono loro, ossia il ritorno all’Eretz Israel, e quindi sentitisi sicuri nelle loro mal riposte speranze messianiche (che sono mal riposte lo dirà senza dubbio il futuro), si sono ritenuti esegeticamente vincitori nei nostri confronti. Infatti dal loro punto di vista, già lo affermava Maimonide nel medioevo, Cristo è stato solo un profeta ebreo il cui ruolo sarebbe stato quello di portare il Dio di Israele ai gentili. Questo in attesa che con l’adempimento della Promessa, ossia con la restaurazione del Regno politico di Israele, tutti i popoli, compresi quelli cristiani, avrebbero tributato omaggio spirituale al Dio di Abramo non però nel Suo Unto, ossia in Nostro Signore Gesù Cristo, ma nel suo, presunto, «Eletto» ossia Israele medesimo. Gira e rigira il miraggio di un ruolo mondiale, spirituale nel migliore dei casi, non solo spirituale nel peggiore, è parte integrante del patrimonio religioso ebraico. Certo, in passato, su questo miraggio si sono costruiti, anche da parte cristiana, molti equivoci politicamente interessati. E questo ha portato alla mancanza di carità sopra ricordata.

Ma è innegabile che quel, pericoloso, miraggio è davvero essenziale nella spuria spiritualità ebraica, magari declinato in senso benevolo ossia come ruolo missionario per realizzare la volontà di Dio coincidente con la Pace Universale (questa sarà realizzata, per l’ebraismo attuale, nell’«era messianica» che vedrà Israele assurgere a Gloria delle Nazioni). Ma cristianamente non possiamo non vedere in questo miraggio qualcosa di inquietante e di grandemente equivoco perché senza Cristo non vi è, mai, vera Pace né vero Regno, che è solo quello oltrestorico da Lui promesso, giammai quello intrastorico cui aspira l’Israele post-biblico. Ecco che qui fa capolino tutta l’ambiguità del giudaismo già avvertita dai Padri della Chiesa. Ci chiediamo: è possibile che la Chiesa di oggi, nei suoi teologi e nelle sue gerarchie, non avverta più tale ambiguità? Anche questo è probabilmente un mistero (meta)storico. E, se è così stabilito, quel che deve accadere, accadrà.

Ci sembra però di poter dire tranquillamente che il Ratzinger più recente ha rimodulato in senso più conforme alla Tradizione certe sue «avventure» giovanili, pur non rigettandole del tutto per quel che di esse è possibile ritenere. Nel suo «Fede Verità Tolleranza - il Cristianesimo e le religioni del mondo», del 2003, alle pagine 162 e 163, Ratzinger scrive: «La fede di Israele presentata nella Septuaginta mostrava l’accordo tra Dio e il mondo, tra ragione e mistero. Essa dava direttive morali, ma mancava di qualcosa: il Dio universale era comunque legato a un determinato popolo; la morale universale era legata a forme di vita molto particolari, che fuori di Israele non si potevano affatto praticare; il culto spirituale era pur sempre vincolato ai rituali del Tempio che certo si potevano interpretare simbolicamente, ma in fondo erano superati dalla critica profetica e non potevano essere fatti propri da parte di animi in ricerca. Un non ebreo poteva trovare posto soltanto ai margini di questa religione, rimanere ‘proselito’, poiché l’appartenenza piena era legata alla discendenza carnale da Abramo, a una etnia. Rimaneva il dilemma se era necessario, e in quale misura, l’elemento specifico giudaico per poter servire rettamente questo Dio e a chi spettasse tracciare il confine tra quanto era irrinunciabile e quanto invece era storicamente accidentale o superato. Una piena universalità non era possibile, poiché non era possibile un’appartenenza piena. A questo livello è stato il Cristianesimo a praticare per primo una breccia, ad ‘abbattere il muro’ (Ef. 2,14) in un triplice senso: i legami di sangue con il capostipite non sono più necessari, poiché è il legame con Gesù a determinare la piena appartenenza, la vera parentela. Ognuno può ora appartenere totalmente a questo Dio, tutti gli uomini sono in grado e sono autorizzati a divenire suo popolo. Gli ordinamenti giuridici e morali particolari non obbligano più, essi sono divenuti un precedente storico, poiché nella Persona di Gesù Cristo tutto è ricapitolato e chi lo segue porta in sé e adempie l’intera essenza della Legge. Il culto antico non è più in vigore, è stato abrogato con l’offerta di Sé che Gesù ha fatto a Dio e agli uomini. E’ essa ora il vero sacrificio, il culto spirituale, in cui Dio e l’uomo si abbracciano e vengono riconciliati; e … l’Eucarestia ne risulta la reale e certa garanzia sempre presente».

Dunque se da giovane, come detto, Ratzinger ha occhieggiato alla teologia delle «salvezze parallele», ora egli parla esplicitamente di «abrogazione del culto antico» e di «abbattimento del muro del legame di sangue con il capostipite». Ratzinger, in altre parole, qui offre proprio l’esegesi di «Nostra Aetate» da noi invocata, quella che spiega che il riferimento non deve essere alla «stirpe» di Abramo intesa in senso naturalistico, ed etnico, ma intesa nel senso di «Fede di Abramo». Il nostro auspicio è che Ratzinger, con gran dispetto di Gad Lerner e gran sollievo del popolo cristiano, traduca questa esegesi privata in un atto del Magistero.

Il cambiamento di prospettiva del Ratzinger maturo è stato reso evidente anche dall’introduzione a sua firma a «Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana», un documento della Pontificia Commissione Biblica, che non è da considerarsi un documento magisteriale perché tale commissione dopo la riforma di Paolo VI non è più organo del Magistero. Si tratta di documento permeato dall’equivoco concetto, lasciato sul fondo, della possibile validità dell’esegesi giudaico post-biblica della Scrittura, anche dopo ed in parallelo con quella cristiana. Ratzinger, che ne firmò l’introduzione come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, pur non confutando apertamente tale prospettiva, sembra assumerla in termini ipotetici ed interlocutori ponendo, sottilmente, implicite ma chiare domande sulla possibilità del sostenere da parte cristiana quella prospettiva. Si chiede, infatti, Ratzinger, in detta introduzione, se dopo Auschwitz sia ancora possibile la lettura tradizionale cattolica della Scrittura, ossia quella dalla quale sorse la teologia della sostituzione, e si risponde che sì essa è più che mai possibile, anche se poi, con il documento che stava prefando, ammette - e qui ci sembra però lo faccia non con la stessa convinzione giovanile ma con un certo evidente e manifesto disagio esegetico - che anche quella giudaico post-biblica potrebbe essere possibile e che quindi da parte cristiana non si dovrebbe escludere a priori tale ipotesi. Ma, appunto, Ratzinger assume questa possibilità in via implicitamente ipotetica. Il punto cruciale di detto documento, a nostro giudizio, sta proprio in questo: quanto esso afferma è perfettamente coerente con la Tradizione laddove sottolinea la continuità/adempimento dell’Antico Testamento nel Nuovo Testamento, della Fede di Abramo nella Fede in Cristo - infatti si tratta di affermazioni del tutto antimarcionite - ma non è invece conforme al pensiero tradizionale della Chiesa l’ammettere, all’interno del disegno di salvezza universale, prima della sua finale conversione a Cristo, un ruolo post-cristiano dell’Israele post-biblico privo di ombre e di inquietanti aspetti «anticristiani». E’ questo il nocciolo dello smarrimento che porta a ritenere, come ritiene Kasper nella sua inautentica interpretazione della «Dominus Iesus» richiamata nel suo articolo da Maurizio Crippa, che l’ebraismo abramitico, la fede di Abramo, e l’attuale giudaismo post-biblico siano la stessa cosa o siano comunque in continuità e non invece in rottura.

Conseguenza di tale esegesi è che da parte giudaica si potrebbe dire, come è pur stato detto, che dunque la rottura sussiste tra Fede di Abramo e Gesù. Dal momento che nel giudaismo post-biblico alligna una matrice chiaramente gnostica non deve meravigliare se argomenti di tipo marcionita siano da esso usati contro il Cristianesimo. L’esegesi di Kasper, però, apre, volente o nolente, al Talmud con conseguenze apocalittiche. A nostro giudizio il Ratzinger maturo ha avvertito il pericolo sotteso ad esegesi di San Paolo come quella di Kasper e, benché non possa dirlo apertamente, e quindi benché continui a giocare sul filo del rasoio, sta cercando, navigando a vista tra Scilla e Cariddi, di riportare la Barca di Pietro sulla retta via, con piccoli passi. E’ un’impresa umanamente parlando quasi impossibile e per questo bisogna capire anche certi eccessi di prudenza papale. Ma è impresa che bisogna pur provare affidandosi sempre, in ultima istanza, a Colui che della Barca di Pietro è il Vero Timoniere. Solo Lui potrà raddrizzarne la rotta. Può darsi che il pontificato di Ratzinger sia solo l’inizio di questo raddrizzamento. Ed è per questo che bisogna rispedire al mittente le interpretazioni degli sviluppi del pensiero teologico di Ratzinger come quelle di Crippa ma soprattutto pregare perché il raddrizzamento decolli veramente superando ogni umana prudenza. Non dimentichiamoci che la Chiesa misura se stessa sull’eternità e che pertanto agisce con lentezza avendo a sua disposizione secoli e non anni.

Le titubanze ecclesiali nel difficile equilibrio tra verità e carità e quelle del mondo «tradizionalista»

La problematica epocale della Chiesa post-conciliare sta tutta nell’immagine di insicurezza che Essa purtroppo offre di sé, dovuta ad uno sforzo pastorale finalizzato a comunicare Carità senza però previamente ancorarla alla Verità. Proprio Benedetto XVI, nell’ottica dell’«ermeneutica della continuità», sembra che stia preparando un’enciclica, che dovrebbe denominarsi non a caso «Veritas et Caritas», per ribadire, secondo quanto affermato dagli stessi padri conciliari, il primato della Verità sulla Carità ma anche che la Verità non si potrà mai efficacemente comunicare senza la Carità. Nel post-Concilio invece, in clima di ottimismo e «buonismo» si è rimarcata la sola Carità riducendola a mero umanitarismo a tinte sociologiche. E’ però innegabile che, nello sforzo di tenere unite Verità e Carità, la Chiesa di oggi abbia sovente dato quell’immagine di insicurezza della quale dicevamo. Anche Papa Ratzinger sembra talvolta, ed il «caso Williamson» ne è stato un esempio, subire questo clima di indecisione. Questa incapacità di mantenere il giusto equilibrio tra Verità e Carità, sicché per paura di mancare nella seconda si finisce per non dar il giusto e prioritario risalto alla prima, è stata resa evidente anche dalle parole di padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa Vaticana, che non ha certamente brillato nella gestione della comunicazione vaticana in occasione dell’affare «Williamson». Quando padre Lombardi ha affermato «Chi nega il fatto della Shoah non sa nulla né del mistero di Dio, né della Croce di Cristo» non ha fatto ben capire il senso di questa proclamazione. Perché se con essa si voleva dire che esistano più che sufficienti indizi della uccisione ad opera del regime nazista di un numero di ebrei tanto elevato da essere definito il tentativo di sterminio di un intero popolo allora l’uso di un linguaggio teologico si è dimostrato inappropriato e foriero di ulteriore confusione. Perché si tratta di una verità storica, non di una verità di fede (fra gli eventi storici tale è soltanto la vita di Cristo). Sicché le parole di padre Lombardi, senza dubbio politicamente corrette, appaiono altrettanto certamente blasfeme.

Anche Papa Ratzinger, sotto la pressione della contestazione amplificata dai media, ha spesso tentennato e non solo nella questione del giudaismo. Lo si è visto ad esempio anche quando fu contestato, con risonanza internazionale, dal presidente Lula a proposito degli evangelizzatori degli indios, che il Papa aveva giustamente e con rispetto della verità storica difeso. Di fronte all’assalto mediatico, Benedetto XVI dà l’impressione di tendere a riposizionare i suoi interventi. Sarà, probabilmente anche un problema caratteriale perché egli è uomo molto timido, come solitamente tutti gli studiosi poco avvezzi ai ruoli pubblici o pastorali. Forse per questo quando fu eletto chiese l’aiuto di Maria per non fuggire di fronte ai lupi. Egli sapeva bene che avrebbe avuto a che fare con molti lupi in agguato, sia dentro che fuori la Chiesa. E’ indubbio che Ratzinger si porta dietro molto della sua formazione giovanile ma è anche vero che molto altro delle sue idee giovanili ha revisionato e corretto. Non è un caso, infatti, se i suoi vecchi compagni di cordata lo considerano un traditore. Da parte nostra vorremmo mettere in evidenza la sua solitudine, sin da quando era cardinale. Fece dichiarazioni ed interviste (ricordiamo ad esempio «Rapporto sulla Fede», libro intervista con Vittorio Messori) e scrisse libri che gli mossero contro tutta l’intellighenzia postconciliare che lo accusava, e lo accusa, di voler affossare il Concilio. Nessuno lo difese, salvo Giovanni Paolo II che lo aveva chiamato da Monaco di Baviera alla Congregazione per la Dottrina delle Fede proprio perché fosse il vigile custode delle scelte dottrinarie del suo pontificato. Diciamo questo non per nascondere effettivi problemi che sono nati dalle incertezze e dai tentennamenti dimostrati dall’uomo Ratzinger di fronte all’ottusa aggressività dei suoi detrattori. Così, ad esempio, ai tempi della «Dominus Iesus», quando la comunità ebraica, non potendo evidentemente prendersela con Giovanni Paolo II, troppo sostenuto dal favore dei media e della gente e fin troppo attento all’eccessiva sensibilità ebraica, che aveva approvato con la sua autorità papale quel documento, contestò direttamente il suo estensore ossia il cardinale Ratzinger. In quell’occasione, sotto pressione e senza difesa, Ratzinger dovette intervenire pubblicamente con un articolo pubblicato il 29 dicembre 2000, sull’Osservatore Romano, «L’eredità di Abramo dono di Natale», che concedeva anche troppo ad un presunto ruolo post-cristiano di Israele.

Bisogna, però, onestamente riconoscere che, durante la crisi innescata dal «caso Williamson», il mondo del Cattolicesimo tradizionalista non ha saputo adeguatamente difendere il Papa (11). In molti tradizionalisti sussiste ancora l’illusione che dalla situazione post-conciliare la Chiesa possa essere fatta uscire mediante uno scontro frontale o con una spaccatura al suo interno. Non si considera che neanche Dio agisce nella storia, Lui che è padrone dei secoli, con l’ascia. Se invece si fosse sostenuto pubblicamente il Papa, se tutto il mondo tradizionalista avesse organizzato una manifestazione, magari all’Angelus, con striscioni in appoggio al Papa e si fosse mobilitato sui media difendendo le decisioni papali e contrastando i diktat del rabbinato con ferme dichiarazioni di sostegno a Benedetto XVI affinché non indietreggi dal riaperto dialogo e dall’«ermeneutica della continuità», tutta l’operazione messa in piedi dal giudaismo con il, non casuale, «caso Williamson» sarebbe fallita e i rabbini avrebbero capito che nella Chiesa vi sono forze vive con le quali si devono abbassare i toni. E lo avrebbero capito anche certi cardinali di curia come Kasper. E il Papa non si sarebbe sentito solo. E’ necessario, perché la Provvidenza ci sta dando un’occasione forse irrepetibile, lavorare, e fare pressione dentro la Chiesa, affinché il Papa, e gli eventuali suoi successori, prenda davvero e decisamente la strada dell’«ermeneutica della continuità». Il che significa, come sopra da noi auspicato, chiedere chiari documenti del magistero che diano un’esegesi, anche della «Nostra Aetate», davvero e seriamente in conformità con la Tradizione.

Ma per fare questo è necessaria una coesione tradizionalista il più possibile interna alla Chiesa che sappia fare, con pazienza (non è detto che tutto debba avvenire nel Pontificato di Ratzinger), opera di costante persuasione su teologi, cardinali, vescovi e Papi. Poi ogni cosa non è nelle nostre mani ma in quella della Provvidenza. La Chiesa è in ultima istanza sempre guidata da Cristo e Lui solo sa quando la tempesta deve finire. Ma a noi poveri cristiani si chiede di operare, nel senso sopra detto, nella Chiesa e non al di fuori o contro di Essa. E’ necessario che la Fraternità Sacerdotale San Pio X continui a mantenere la linea di Fellay e che Benedetto XVI continui nella sua «politica» della mano tesa: abbiamo più che mai bisogno del clero della Fraternità all’interno della Chiesa. Da quel clero potrebbero un domani, Dio volendo, uscire vescovi, cardinali e, magari, un Papa. Non c’è altra via. Tornare alla rottura, dopo la revoca della scomunica, significa voltare le spalle alla Provvidenza e chiudersi in un vicolo cieco come i sedevacantisti. Che un Papa, Benedetto XVI o un suo successore, possa un giorno affacciarsi alla finestra ed affermare urbi et orbi «contrordine amici, ci siamo sbagliati, il Concilio era una burla, lo Spirito Santo era andato in vacanza oppure dormiva quando tra il 1963 ed il 1965 il Concilio era all’opera », senza mettere seriamente in crisi la Chiesa nella Sua pretesa di infallibilità in materia di fede e morale, è impensabile ed è soltanto l’illusione di chi non sa realisticamente cogliere le opportunità che, ora, oggi, la Provvidenza sta offrendo.

Una di queste opportunità è quella di presentare al mondo moderno il «conto (che non torna) della storia» ossia di mettere di fronte alle proprie contraddizioni il mondo occidentale nato dalla Riforma e dall’Illuminismo. Un mondo così fiero della sua laicità, al punto da invocarla in continuo «opportune et inopportune», che però ha accettato la «teologia civile dell’olocausto». Abbiamo l’occasione di essere proprio noi, i «dogmatici cattolici», a farci beffe dei nipotini di Voltaire, quelli sempre pronti a rinfacciarci dell’inquisizione e sempre pronti ad impartirci l’immancabile lezione volterriana «non sono d’accordo con quel che dici ma sono disposto a dare la vita affinché tu possa dirlo». Abbiamo l’occasione di deridere i nipotini dei «lumi» per essere caduti, proprio loro i relativisti «antidogmatici» per definizione, nelle trame dell’eterogenesi dei fini che hanno portato «civili» e «liberali» ordinamenti giuridici ha reintrodurre veri e propri reati di opinione. E questo, sia ben chiaro, senza minimamente cadere a nostra volta nella trappola, che tale è anche sotto il profilo storico, del cosiddetto «negazionismo».

Immaginate che smacco per gli «illuminati» ritrovarsi nella posizione dei neo-inquisitori di fronte a cattolici che del tutto laicamente (non dimentichiamoci che il concetto di «laicità», quella sana, nasce con il Cristianesimo) difendono la libertà di ricerca storica e di opinione pur senza accreditare tesi che devono essere discusse e validate o confutate nelle opportune sedi storiche e non nei giornali e nei media. Dobbiamo essere noi a rinfacciare la propria intolleranza ad un Occidente che permette la libera circolazione di tesi negazioniste su Cristo o su Maometto e poi, non si capisce su quale base, a meno di non dover ammettere che l’Occidente abbia spostato un nuovo universale confessionalismo di Stato, impedisce «inquisitoriamente» la circolazione di quelle pur storicamente temerarie tesi. Tesi che poi spesso si rivelano, in sede storica, senza sufficiente consistenza esattamente come quelle che negano Cristo o Maometto. Detto questo ribadiamo, perché repetita iuvant, che quel che come cattolici dobbiamo avere a cuore è soltanto che la Chiesa affermi chiaramente che lo sterminio ebraico, efferato quanto si vuole ed innegabile quanto si vuole (non fa differenza se sono stati uccisi con il gas o fucilati; se sono 6 milioni o 8 o 5 o 4 o 300mila), non è un «olocausto» autonomo o alternativo a quello del Golgota. Solo questo, quello di Cristo sulla Croce, è il vero Olocausto cui tutti gli altri «olocausti» sono ordinati nel mistero doloroso della storia. Si tratta di una questione teologica cruciale per la fede cattolica: non si può ammettere un altro evento salvifico oltre la Morte e Resurrezione di Cristo. Verso gli ebrei massima carità, ricordando in continuazione innanzitutto a loro il grande aiuto che essi ricevettero unicamente dalla Chiesa, che fu l’unico vero scudo che essi nei frangenti della persecuzione nazista trovarono, ma anche massima chiarezza di fede, senza confondere «sacro» e «profano». Perché dobbiamo come cristiani prendere, purtroppo, doloroso atto che, nonostante questi cinquant’anni di aperture, non stiamo affatto colloquiando con interlocutori in buona fede (salvo naturalmente le debite eccezioni che pur ci sono) e che quindi il colloquio diventa in tal modo per sua natura inutile. Una buona via d’uscita, per continuare il dialogo, se proprio lo si vuol continuare, sarebbe quella di previamente esigere, da parte degli interlocutori, in particolare se ebrei, una definizione precisa di termini come «olocausto» ossia se si intende con tale termine un evento teologico o meramente storico.

La chiarezza da noi auspicata diventa ancora più urgente quando si leggono certe dichiarazioni di parte ebraica. Riportiamo dall’Agenzia di stampa ASCA-AFP:

«Città del Vaticano, 9 febbraio: Gli ebrei impegnati nel dialogo con la Chiesa cattolica restano ‘molto vigili’ sugli sviluppi del caso del vescovo negazionista Richard Williamson. Lo ha detto all’AFP il presidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia (Crif), Richard Prasquier, al termine di una visita in Vaticano. Prasquier ha incontrato il cardinale Walter Kasper, presidente della Pontificia commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, e l’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, che lo ha informato sui preparativi del viaggio di papa Benedetto XVI in Terra Santa. ‘I preparativi proseguono’ nonostante la crisi provocata dalla revoca della scomunica al vescovo lefebvriano, ha assicurato il presidente del Crif, aggiungendo che Israele non ha ‘mai veramente messo in discussione’ il viaggio, previsto per il mese di maggio. ‘Restiamo molto vigili, perché purtroppo il caso Williamson non è la prima delusione’, ha sottolineato Prasquier, rappresentante della più importante comunità ebraica dell’Europa occidentale, citando il ritorno della preghiera per la conversione degli ebrei nella messa in latino del Venerdì santo recentemente ripristinata, così come il processo di beatificazione di Papa Pio XII. Secondo Prasquier, in tutti e tre i casi, ‘non è stato tenuto conto dell’opinione degli ebrei’. Il rappresentante ebraico ha spiegato che la crisi provocata dal caso Williamson non ha intaccato la convinzione della sua organizzazione dell’importanza del dialogo con la Chiesa cattolica, ma ha avvertito che ‘rischia di risvegliare il sospetto di alcuni ambienti ebraici che hanno fatto fatica ad accettarlo’».

Da parte nostra, semplici fedeli costernati dal fatto che un cardinale di Santa Romana Chiesa come Kasper possa accettare supinamente certo tipo di lezioni rabbiniche, ci facciamo qualche domanda circa quanto ha dichiarato Richard Prasquier. Perché mai bisognava tener conto del parere ebraico su atti, come il Motu Proprio, l’accelerazione all’iter di canonizzazione di Pio XII o la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, interni alla vita della Chiesa? Si sono forse essi ebrei già convertiti al Cristianesimo, come faranno sicuramente i loro discendenti? Non dicono proprio loro, gli attuali ebrei, in continuazione di non volersi intromettere nella cose della Chiesa? Ed allora perché mai questo continuo ricatto: se fate questo e quello, noi chiudiamo il dialogo? E perché mai da parte ecclesiale si continua a rincorrerli invece di lasciarli cuocere nel loro talmudico brodo? L’abbiamo vista tutti l’arroganza della dirigenza religiosa ebraica. Se il Papa regnante è tedesco, ecco allora che essa mette in campo l’attuale primo ministro della Repubblica di Germania, Angela Merkel, recentemente premiata dal B’nai B’rith, ossia dalla massoneria riservata a soli ebrei, e dunque noachicamente devota alla lobby che ne sostiene la fulgida carriera politica, a lamentarsi pubblicamente in sede internazionale delle scelte del Papa circa la revoca della scomunica.

E se questo non basta, ecco allora che essa mobilita il cardinale Lehmann e l’intera Chiesa tedesca contro il Papa «restauratore», facendogli pervenire notizia del «clamoroso» scisma in atto in Germania ed in Austria da parte di tanti fedeli che ritirano la loro adesione alla Chiesa cattolica.

Il segretario del Consiglio Centrale degli ebrei di Germania, Stephan Kramer, alla notizia della richiesta da parte del Vaticano a Williamson di «ritrattare» le sue dichiarazioni, ha definito «le notizie che giungono da Roma al massimo un primo segnale di movimento. (Perché) Ciò che la Chiesa cattolica dovrebbe fare sarebbe svincolarsi totalmente dalla congregazione lefebvriana» (così l’Agr). Yitzhk Cohen, attuale responsabile del dicastero per gli Affari Religiosi dello Stato israeliano, lo stesso ministero dell’«unica democrazia del medio oriente» che si diverte a, ufficiosamente, sostenere i pubblici roghi di Vangeli che fanatiche organizzazioni rabbiniche fondamentaliste periodicamente effettuano in Israele, ha proposto, durante la crisi dell’affare Williamson, al suo governo, un governo i cui esponenti avevano ancora le mani lorde del sangue di tanti innocenti sterminati a Gaza, di rompere ogni rapporto politico e diplomatico con la Santa Sede «colpevole» di aver riammesso nella Chiesa «negazionisti» ed «antisemiti» (così sul Corriere della Sera del 31 gennaio 2009).

E’ doloroso dirlo: ma questa loro arroganza è giunta a tal punto come conseguenza delle aperture verso di essi iniziate con il Concilio. Ma allora, bene ha fatto Benedetto XVI ha non chiedere il loro parere sul Motu Proprio e sulla revoca della scomunica. Sarebbe forse il caso che «una pausa di riflessione» circa il dialogo fossimo noi cattolici a prendercela, cardinal Kasper volente o nolente!

E poi: davvero sono stati loro ad accettare con sospetto il dialogo con noi cattolici? Non è invece stato da loro cercato proprio perché sono da duemila anni tormentati «metafisicamente» dal loro rifiuto del vero Messia Redentore? Non è stata, infatti, l’influenza di Jules Isaac, patrocinato presso Giovanni XXIII dal cardinale Agostino Bea, a portare il Concilio Vaticano II ad una formulazione non proprio inequivoca della dichiarazione circa i rapporti ebraico-cristiani contenuta nella «Nostra Aetate», che, per come è stata appunto formulata, è ad un tempo suscettibile sia di una lettura perfettamente tradizionale, quella già adombrata nel magistero di Pio XI che di fronte alla persecuzione nazista ebbe a dire che «i cristiani sono spiritualmente semiti» - e che è quella la quale a nostro giudizio vorrebbe riaffermare senza equivoci Papa Ratzinger -, sia una lettura appunto equivoca per la quale il paolino «Olivo Santo», ossia la Fede di Abramo adempiutasi in Cristo, olivo dal quale il giudaismo post-biblico - dice San Paolo - è attualmente reciso, diventa invece la «stirpe di Abramo», non più dunque la «fede di Abramo», alla quale stirpe noi cristiani saremmo spiritualmente innestati come rami alla radice? Una lettura, quest’ultima, sbandierata ad ogni occasione dal cardinal Kasper che legittima una inventata e mai esistita continuità tra la Fede di Abramo, continuata invece solo dalla e nella Fede in Cristo, e l’attuale giudaismo post-biblico basato sul Talmud ossia sull’interpretazione rabbinica della Torah: una interpretazione del tutto avulsa dall’autentico ebraismo, confluito nel Cristianesimo, e che, al posto di Nostro Signore Gesù Cristo, pone l’Israele post-biblico come «Messia collettivo», prospettiva che poi, calata sul piano politico, apre ad esiti palesemente razzisti, quelli che ben spiegano, purtroppo, i grandi mali odierni della Terra Santa, e non ultimo lo sterminio dei palestinesi di Gaza, nel gennaio scorso, da parte del glorioso T’shall, l’esercito israeliano.

La Fraternità Sacerdotale San Pio X e l’«ermeneurica della continuità»

Che tutto l’affaire Williamson sia stato giocato, dentro e fuori la Chiesa, dentro e fuori la Fraternità Sacerdotale San Pio X, allo scopo di bloccare l’opera di continuità ermeneutica messa in cantiere da Papa Ratzinger e, al di là dei molti problemi ancora sussistenti, certamente recepita con attenzione dalla predetta Fraternità, è dimostrato dal fatto che la stessa «ermeneutica della continuità» sembra venire incontro proprio alle legittime richieste dei lefreviani, senza tuttavia cedere a quanto di non essenziale sembra esserci nelle loro posizioni. Ne troviamo ampia conferma in questa intervista, di Samuel Pruvot e di Gérard Leclerc apparsa in questi giorni su «Famille Chretienne», a monsignor Fellay, Superiore Generale della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Ne riportiamo i passi salienti relativi alla questione dell’esegesi del Concilio in continuità con la Tradizione e quelli relativi alla posizione ufficiale della Fraternità verso l’ebraismo attuale come espressa dall’unico titolato a farlo ossia proprio monsignor Fellay.

«Gérard Leclerc: Accettate il Concilio ponendo delle riserve oppure lo rifiutate in blocco?

Monsignor Fellay : Dobbiamo distinguere gli scritti dallo spirito. Esiste uno spirito pericoloso che ha attraversato tutto il Concilio e in questo senso, questo spirito noi rifiutiamo. Ma quando si parla di leggerlo non dobbiamo pensare ad un rifiuto totale. Monsignor Lefebvre, egli stesso ha accettato il Concilio ‘alla luce della Tradizione’. Cosa vuol dire? Negli anni 1982-1983, egli andò senza ottenere risultato a Roma davanti al cardinale Ratzinger. Monsignor Lefebvre diceva: ‘Tutto quanto è conforme all’insegnamento perenne lo accettiamo, quello che è ambiguo lo accogliamo secondo questo insegnamento perenne, quello che invece vi si oppone lo rigettiamo’. Nel discorso alla Curia il 22 dicembre 2005, Benedetto XVI ha parlato di ‘ermeneutica’ del Concilio. Ha condannato l’idea di una rottura, basata sullo ‘spirito del Concilio’. Quanti sono oggi i favorevoli all’ermeneutica della rottura? Pochi, molti? Questi, che vogliono tale rottura con il passato, sono allontanati dalla Chiesa? Come dice, molto giustamente, Benedetto XVI, la Chiesa non può separarsi dal suo passato. E’ impossibile! Non possiamo pretendere di avere il ventesimo piano di un palazzo senza che sotto ci siano gli altri diciannove.

Gérard Leclerc: La distinzione fra spirito e lettera del Concilio può risultare speciosa, pensiamo a un De Lubac che denuncia la perversione del clima che regnava intorno al Concilio, o all’autentico spirito del Concilio che ne illumina la lettera e non può non riferirsi allo Spirito Santo stesso! E in quanto alla continuità organica della Tradizione, la stessa presuppone forzatamente degli sviluppi. E’ quanto diceva già il cardinale Newman. Il rischio oggi sarebbe che la Fraternità Sacerdotale San Pio X, rifiutando ogni sviluppo della Tradizione volendola bloccare, di fatto ne esca fuori.

Monsignor Fellay: Ci sono, in effetti, dei punti che il Papa presenta come legati alla Tradizione e che invece, ai nostri occhi, non lo sarebbero.

Gérard Leclerc: E’ possibile fare una cernita nelle affermazioni conciliari?

Monsingor Fellay: Non si tratta di discutere ‘questo sì e questo no’. A mio avviso, molti problemi che noi ci poniamo possono risolversi facendo delle distinzioni e non attraverso il rigetto o l’accettazione assoluta. Non vogliamo essere univoci e basta. Quando parliamo di Concilio, sappiamo bene come debba essere inserito in una serie di circostanze, in un contesto, in un movimento. Mi baso su una nota del Segretariato del Concilio di novembre 1964. Il testo è diviso in due parti. Nella prima si legge: ‘la Chiesa non intende obbligare ad aderire, in questioni di fede e costumi se non su quei punti che Essa presenta come tali’. E la stessa nota precisa come il Concilio si voglia ‘pastorale’. Esso si distingue dagli altri. Non ci si può porre in maniera dogmatica e dire amen, a tutto. Questo approccio è semplicemente falso. Ci sono ambiti differenti, temi differenti e differenti gradi di autorità.

Samuel Pruvot: Un Concilio é sempre qualcosa di non finito, pone nuove questioni da risolvere. In più, il Vaticano II ha portato innovazioni, nel senso che ha voluto proporre una visione positiva della fede e non ha lanciato anatemi. Si può vedere in questo contesto uno sviluppo organico della Tradizione che segna una incontestabile avanzata della Chiesa. A seguito del Motu proprio, le sembra che si possa considerare risolta la questione liturgica? Ritiene che il rito romano nella sua forma ordinaria (Paolo VI) sia valido?

Monsignor Fellay: La questione della validità non pone problemi in sé. Nella misura in cui viene rispettata la forma. La nuova messa è valida. Il problema si pone a posteriori. Dobbiamo purtroppo constatare che, nel comportamento così come nelle parole, i sacerdoti e i fedeli, non hanno sempre la stessa fede nella presenza eucaristica. Questo è da considerare come un’intenzione contraria a quella della Chiesa. La liturgia è un’insieme che accompagna l’essenziale della Messa. E’ un insieme di gesti, di parole che accompagna e deve nutrire questa fede. E’ qui che abbiamo forti obbiezioni, come ad esempio per l’Offertorio: mettete a confronto i due messali e capirete le nostre obbiezioni e perplessità.

Gérard Leclerc: Certamente avrei un grosso problema ad assistere ad una messa dove il prete non condivide la fede della Chiesa. Ritengo che la questione si sia potuta porre in qualche circostanza. Paolo VI emanò un’enciclica sull’Eucarestia che venne ricusata da alcuni all’epoca. Un fatto molto grave. Sui riti ritengo che la discussione sarà lunga. Ci sarà da rivedere come è stata fatta la riforma liturgica. Non per niente il cardinal Ratzinger chiedeva una riforma della riforma. Ma dobbiamo allo stesso tempo considerare le ricchezze del nuovo rito. Queste ultime provengono dalla più autentica tradizione ecclesiale.

Monignor Fellay: Per Benedetto XVI, la riforma liturgica è una delle prime cause della crisi nella Chiesa. E’ un’affermazione molto forte. Che dice molto e non sono io che la dico!

Gérard Leclerc: Riguardo al giudaismo lei condivide la formula venuta fuori dal Concilio che presenta gli ebrei come ‘i nostri fratelli maggiori’?

Monsignor Fellay: L’espressione può essere presa in due modi diversi, è pertanto ambigua. Il primo corretto, l’altro non corretto. La Sacra Scrittura è formata dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Tutto quello che Dio ha trasmesso al popolo eletto si trova nella Prima Alleanza. Ma questa è stata sostituita dalla Nuova Alleanza, la Buona Novella, insomma dal Vangelo. Noi, in quanto cattolici abbiamo il tutto. L’antico e il nuovo. Gli ebrei restano fedeli all’Antico Testamento ma è avvenuto qualcosa di nuovo mentre il giudaismo si è fermato a quel punto. Ma questo qualcosa di nuovo è l’essenziale: è la venuta del Messia. Gli ebrei sono nostri fratelli maggiori nella misura in cui possediamo cose in comune. Ma dobbiamo dire che quello che abbiamo in comune non potrà essere sufficiente per la loro salvezza
».

D’altra parte che anche tra i lefraviani vi sia una corrente poco favorevole all’accordo con il Vaticano, corrente che sembra sia proprio Williamson a guidare, è pur vero. Ma crediamo tuttavia che, più che averlo ordito, il vescovo lefreviano sia caduto nel trappolone, forse per ingenuità, forse per vanità (avere un quarto d’ora di celebrità). Ora, però Fellay ha parlato chiaro. Deve adesso dimostrare di voler davvero aprire trattative con Roma sulle altre questioni relative al Vaticano II.

I lefreviani devono infatti insistere per una ancor più cristallina «ermeneutica della continuità» che avvicini l’interpretazione dei testi conciliari alla loro sensibilità ed alla Tradizione. Rimane comunque il fatto che hanno sicuramente ragione tutti coloro che ritengono che Williamson non abbia di certo mai violato nessun articolo del Credo, sicché la richiesta di «ritrattazione» proveniente da Roma non ha teologicamente e canonisticamente alcun fondamento e sembra più un modo di placare, come ha osservato anche Andrea Tornielli, la rivolta di tutti gli anti-ratzingheriani della Curia e della Chiesa e la pressione lobbistica dell’ebraismo mondiale, attivata a mezzo della Merkel e di Lehmann. Infatti, a meno che la fede della Chiesa non sia cambiata (e non lo è!), non è possibile, a termini di diritto canonico, punire un prelato che ha fatto delle osservazioni storiche, certamente del tutto discutibili ma che sono e restano osservazioni storiche e non affermazioni teologiche.

Temiamo purtroppo, ma speriamo di essere smentiti dai fatti in futuro, che per il momento la manovra sembra riuscita perché ora l’«ermeneutica della continuità» e il processo di ritorno intelligente alla Tradizione liturgica e teologica, messi in cantiere da Papa Ratzinger, sono purtroppo fortemente ipotecati dall’alone di «antisemitismo» e di «lefebvrismo» che sono riusciti, forse con complici ecclesiali interni, a diffondere intorno al Pontefice. Per la gioia congiunta - non a caso - dei sedevacantisti e dei progressisti alla Martini ed alla Melloni. Ma, e questo ci conforta, l’ultima parola non sarà comunque la loro.

Per concludere

Di recente Vittorio Messori, su «Il Timone», trattando di Lourdes, ha spiegato come nella storia della salvezza molte verità profetiche siano ancora «celate» o «implicite» e che solo quando esse troveranno compimento storico ci saranno ben chiare. Si tratta di un processo di inveramento storico che, del resto, non è affatto nuovo in quanto è lo stesso che guidò a suo tempo la profezia veterotestamentaria: provate a leggere una qualsiasi delle profezie messianiche dell’Antico Testamento come se Cristo non fosse ancora apparso nella storia e potrete verificare quanto esse possano risultare «oscure» nel loro autentico significato: questo è l’errore del giudaismo post-biblico ossia leggere la Scrittura prescindendo da Cristo. Messori, nell’occasione citata, ha anche ricordato che la Chiesa «primitiva» ne sapeva meno di noi su certe questioni della Fede perché tali questioni dovevano diventare chiare e rivelarsi in pieno solo successivamente nello scorrere dei secoli. In effetti, in questi ultimi secoli molte cose che prima erano più misteriose sembrano prendere un significato più chiaro anche sul piano storico. La «teologia», la «profezia», sembrano in certi avvenimenti farsi storia, anche, e forse a maggior ragione, proprio in questa svolta tra il XX ed il XXI secolo. Da qualche anno, ci siamo dedicati a riprendere il filo, sulla base della memoria patristica, di alcune tradizioni da sempre interne alla Chiesa, che si ritrovano negli scritti e nelle predicazioni dei suoi Santi e dei suoi dottori e mistici, anche lontani tra loro nel tempo. Tradizioni concernenti il «mistero post-biblico di Israele». Possiamo certamente sempre sbagliarci e non pretendiamo certo di aver assolutamente visto giusto, ma ci sembra di vedere i contorni di queste tradizioni «profetiche» delinearsi anche negli avvenimenti in atto in Terra Santa dal 1948 in poi.

Vi è poi un parallelismo tra tale «mistero di Israele», a nostro giudizio dalle fattezze ambigue, con il mistero della «Donna vestita di sole» che è ormai, in effetti, apparsa all’orizzonte della storia a partire possiamo dire sin da Guadalupe (nel secolo XVI ossia all’indomani della scoperta del nuovo mondo: «Frattanto questo Vangelo del Regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti», è scritto in Matteo 24,14, profezia che non si sarebbe potuta realizzare senza che Cristoforo Colombo avesse scoperto l’America). Come annunciato nel XVIII secolo da San Luigi Maria Grignon de Monfort, ne «Il segreto di Maria (ci rifacciamo all’esegesi «canonica» degli scritti di tale mistico e non a quella politicamente e strumentalmente propagandata da certe organizzazioni della pseudo-destra cattolica), la presenza nella storia della giovannea Donna dell’Apocalisse, che richiama la «Donna che schiaccia la testa al serpente» del Genesi, è diventata sempre più «frenetica» soprattutto negli ultimi due secoli ripieni delle Sue apparizioni e fenomeni simili (gli «occhi in movimento di diverse effigi mariane», le «lacrime di sangue», i «segni nel sole e nelle stelle», etc.). Apparizioni e fenomeni tra l’altro coincidenti con avvenimenti ben precisi della storia (Rivoluzione Francese - Guadalupe coincise già con la Riforma -, rivoluzioni liberali e razionalismo ottocentesco, prima e seconda guerra mondiale, rivoluzione russa e nazismo, proclamazione dei dogmi dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione in anima e corpo).

Una vera e propria «storia parallela», quella della presenza di Maria nelle vicende storiche dell’umanità. Una storia che a nostro parere, senza indulgere in alcun millenarismo, è svelamento e realizzazione storica della Rivelazione giovannea. Attualmente sembra che di quella presenza si registrano diverse manifestazioni in gran parte del mondo ed in tutti i continenti. Ed anche questo particolare intensificarsi della apparizioni mariane, avvicinandosi l’umanità al punto decisivo di una svolta epocale nella sua storia, sembrerebbe essere già stato annunciato dal santo «vandeano» che abbiamo citato sopra. Forse alcune manifestazioni mariane in atto, da taluni deprecate, non solo potrebbero far parte di questa storia parallela ma potrebbero anche costituirne in qualche modo il culmine, nel senso che la Chiesa sia alle soglie di grandi eventi che la vedranno ritornare ad essere l’amata Madre dell’umanità, di una umanità che tornerà sicuramente, prima o poi, alla Fede. Certo: nessuna data e nessun luogo. Nulla di sicuro nel senso della certezza del calendario: solo tendenze epocali in atto secondo il piano di salvezza universale già delineato nel Genesi nel quale, appunto, è annunciata la Donna che schiaccia la testa all’antico serpente. Ora ci si lasci, in conclusione, osservare che il mistero di Maria sembra svelarsi in questo passaggio di millennio proprio mentre sembra contemporaneamente palesarsi anche l’ambiguità del «mistero di Israele», già presentito dai Padri della Chiesa e, sulla loro scorta, ancora nel XIX secolo da scrittori come Soloviev.

Di quell’Israele, oggi sionista, mosso da una folle ideologia nazional-religiosa a fosche tinte razziali, che nel perseguimento, purtroppo non adeguatamente contrastato da Santa Romana Chiesa, delle sue mal risposte speranze messianiche, ossia salvarsi senza Cristo ritenendosi «a Christo solutus», tradisce ogni giorno, nella violenza, negli abusi, nello sterminio del prossimo, il Dio di Abramo, il Dio di Amore per tutte le genti, che pur crede di invocare quotidianamente nelle sue sinagoghe. Ma, come nel caso del fariseo orgoglioso della parabola, il Dio di Abramo non presta attenzione all’invocazione di Israele, perché Egli resiste ai superbi ed è oggi troppo occupato a soccorrere le vittime innocenti dell’odio ideologico e del fanatismo nazional-religioso in Terra Santa come altrove nel mondo. Ed è per questo che Israele è votato alla cecità spirituale dalla quale potrà guarire solo quando dirà «Benedetto Colui che viene nel nome del Signore».
«Allora Egli si volse verso di loro e disse: ‘Che cos’è dunque ciò che è scritto: La pietra che i costruttori hanno scartata, è diventata testata d’angolo? Chiunque cadrà su quella pietra si sfracellerà e a chi cadrà addosso, lo stritolerà» (Luca 20, 17-18). Ecco: tra noi e loro c’è di mezzo la Pietra Angolare, non il «negazionismo».

Luigi Copertino

NOTE

1) Ecco le testuali parole del Santo Padre a spiegazione della sua decisione: «Nellomelia pronunciata in occasione della solenne inaugurazione del mio Pontificato dicevo che èesplicitocompito del Pastorela chiamata allunità’, e commentando le parole evangeliche relative alla pesca miracolosa ho detto: ‘sebbene fossero così tanti i pesci, la rete non si strappò’, proseguivo dopo queste parole evangeliche: ‘Ahimè, amato Signore, essa - la rete - ora si è strappata, vorremmo dire addolorati’. E continuavo: ‘Ma nonon dobbiamo essere tristi! Rallegriamoci per la tua promessa che non delude e facciamo tutto il possibile per percorrere la via verso lunità che tu hai promesso... Non permettere, Signore, che la tua rete si strappi e aiutaci ad essere servitori dellunità’. Proprio in adempimento di questo servizio allunità, che qualifica in modo specifico il mio ministero di Successore di Pietro, ho deciso giorni fa di concedere la remissione della scomunica in cui erano incorsi i quattro Vescovi ordinati nel 1988 da monsignor Lefebvre senza mandato pontificio. Ho compiuto questo atto di paterna misericordia, perché ripetutamente questi Presuli mi hanno manifestato la loro viva sofferenza per la situazione in cui si erano venuti a trovare. Auspico che a questo mio gesto faccia seguito il sollecito impegno da parte loro di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa, testimoniando così vera fedeltà e vero riconoscimento del magistero e dellautorità del Papa e del Concilio Vaticano II».
2) Così su Il Giornale del 3 febbraio 2009 Andrea Tornielli ci ha informato della trappola ordita ai danni del Santo Padre e che la Segreteria di Stato non solo è stata incapace di individuare immediatamente ma che non ha neanche saputo gestire come si sarebbe dovuto per evitare ciò che coloro che la trappola hanno ordito volevano ossia danneggiare l’immagine di Benedetto XVI, uomo caratterialmente mite fino alla timidezza, il quale, i lettori lo ricorderanno, è stato subito ingiuriato, sin dal momento della sua elezione, dalla stampa internazionale con epiteti come «Pastore tedesco» o pubblicando le sue foto di bambino nella obbligata divisa delle organizzazioni giovanili naziste, proprio per inculcare nell’opinione pubblica l’idea di un «panzer-pope», autoritario e para-nazista: «Roma E un dossier ufficioso, di poche pagine, dedicato alla genesi del caso Williamson, molto letto in questi giorni nei sacri palazzi. Un dossier che ha raggiunto le scrivanie che contano oltretevere e che mette insieme date e circostanze, lasciando intendere che quanto avvenuto nei giorni scorsi non sia solo frutto di una serie di coincidenze. La realizzazione e poi la messa in onda dellintervista del prelato che negava le camere a gas e la realtà dei milioni di ebrei morti nella Shoah, alla vigilia della revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani - secondo il dossier - sarebbe stata in qualche modopilotata’ da ambienti che volevano mettere in difficoltà Benedetto XVI. Ambienti che sarebbero stati aiutati da qualche oppositore interno, contrario alla riconciliazione con la Fraternità Sacerdotale San Pio X. Nel rapporto non si minimizzano le assurde parole pronunciate da Williamson, né lulteriore gravità della coincidenza temporale con il Giorno della Memoria, che ha particolarmente ferito la sensibilità del mondo ebraico, ma si lascia intravedere la possibilità che vi siano stati interventi mirati a creare il caso. Williamson, si legge nel dossier, viene intervistato il 1° novembre 2008 'presso il seminario bavarese della Fraternità Sacerdotale San Pio X’. Il vescovo si trova a Ratisbona, dovè giunto per ordinare prete un pastore protestante svedese. Il vescovo viene raggiunto dal giornalista Ali Fegan, della trasmissione televisivaUppgrad Gransking’ (‘Missione Ricerca’). Parlano unora. A un certo punto, Fegan richiama alla memoria di Williamson certe dichiarazioni negazioniste sulle camere a gas, rilasciate molti anni prima in Canada. Il vescovo risponde dicendo le enormità che sappiamo, sapendo che le sue parole, in quel Paese, rappresentano un reato: ‘Per le cose che dico potreste portarmi in carcere visto che siamo in Germania...’. Lintervista va in onda il 21 gennaio, lo stesso giorno della firma del decreto di revoca della scomunica. Gli autori del programma assicurano che si è trattato di una coincidenza, mentre ildossier Williamsonnon esclude la possibilità che la notizia della revoca della scomunica sia stata fatta in qualche modo arrivare alla televisione svedese. Nel corso della trasmissione viene intervistata anche la giornalista francese Fiammetta Venner, nota attivista del movimento omosessuale, impegnata in campagnepro choice’. Insieme alla compagna Caroline Fourest - con la quale condivide molte battaglie anticlericali nonché la vicinanza al Grande Oriente di Francia - nel settembre scorso, alla vigilia della visita di Benedetto XVI a Parigi e Lourdes, aveva dato alle stampe un volume intitolatoLes Nouveaux Soldats du pape. Légion du Christ’, Opus Dei, traditionalistes, durissimo contro Papa Ratzinger e contro i lefebvriani, accusati di connessioni con l'ambiente politico dellestrema destra francese. Il dossier insiste sulla genesi francese del caso e sul ruolo avuto da Venner e Fourest nellintera vicenda. Il 20 gennaio, alla vigilia della messa in onda, il settimanale tedesco Der Spiegel anticipa i contenuti dellintervista. E arriverà pure a scrivere cheil Consiglio Centrale degli ebrei in Germaniafosse 'stato informato' in precedenza delle dichiarazioni negazioniste del vescovo. Ormai il decreto è già scritto ed è stato personalmente consegnato dal cardinale Giovanni Battista Re nelle mani di monsignor Bernard Fellay, il superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X, convocato a Roma per loccasione. Dunque, quando la notizia dellintervista di Williamson comincia a diffondersi, non è più possibile correre ai ripari. Il 20 gennaio la diocesi cattolica di Stoccolma e il superiore dei lefebvriani tedeschi pubblicano due distinti comunicati per deplorare le dichiarazioni di Williamson e condannare ogni forma di antisemitismo. La notizia è ormai di dominio pubblico, ma la sua portata e soprattutto le sue conseguenze non vengono avvertite nei sacri palazzi. Un intricatogiallo’, insomma, oppure una serie di coincidenze? Il dossier fatto circolare in Vaticano non contiene prove, si limita a confrontare ipotesi e dati di fatto. Di certo però non sono in pochi, oltretevere, a pensare che ilcaso Williamsonnon sia stato un caso». Precisiamo: non stiamo teorizzando sul «grande complotto». Esistono però i piccoli complotti, le trappole come quelle mediatiche fatte da uomini esperti nell’uso delle apposite tecniche. Al di là delle trappole mediatiche non possiamo poi cristianamente dimenticare l’esistenza degli «spiriti dell’aria» contro i quali, dice San Paolo, siamo chiamati a lottare. Con termini più moderni oggi potremmo parlare di «etat d’esprit», artificiosamente creati e massmediaticamente diffusi. Da chi in ultima istanza, poi, bisogna vedere. Certo secondariamente, senza dubbio, da uomini. Fino a che punto però consapevoli o inconsapevoli di essere in qualche modo «agiti»? Non confondendo il peccato, ed il suo «angelico ispiratore», con il peccatore, sovente quest'ultimo vittima, magari volontaria e quindi corresponsabile, del peccato e dell’ispiratore, si riporta tutta la questione in una luce cristianamente più verosimile. E non ci sembra affatto cosa da poco.
3) Confronta F. Cardini « A proposito del caso Williamson e del revisionismo/negazionismo», 29 gennaio 2009, sul sito personale dell’autore. Un amico evidentemente molto influenzato dalla propaganda di guerra israeliana ci ha inviato nei giorni scorsi una mail di quelle che si «svolgono» ad ogni passaggio con immagini che si succedono l’una all’altra. Spedendola ci ha scritto, come se da parte nostra si negasse il «factum», che «contra factum non valet argomentum». Infatti quella mail faceva scorrere note immagini di Auschwitz e di altri campi di sterminio. Ora, se è vero che «contra factum non valet argomentum», è però altrettanto vero che contro l’uso politico della memoria storica gli argomenti non solo valgono ma sono decisivi proprio per la salvaguardia delle più basilari libertà e della civiltà stessa. A meno che non si preferisca accettare la «Verità di Stato», qualunque essa sia o, di volta in volta, si vuole che sia. Abbiamo consigliato a quell’amico la lettura de «L’industria dell’Olocausto» di Norman Finkelstein. Figlio di deportati ad Auschwitz, Finkelstein spiega molto bene il perché del fatto che la propaganda, come quella della mail che quell’amico ci ha spedito, è una offesa innanzitutto per le povere vittime in essa ritratte. Infatti una mail nella quale la «memoria» è usata per criminalizzare l’Iran o il mondo mussulmano, che negherebbero l’olocausto, costituisce niente altro che propaganda politica. Uno sfacciato uso della storia per scopi di supporto a strategie geo-politiche ben precise (non risulta, comunque, che nel mondo mussulmano ci sia una posizione ufficiale negazionista o che l'opinione sull'argomento «olocausto» sia unanime, né risulta che la posizione ufficiale dell’Iran sia negazionista: essa dice solo che la tragedia ebraica in Europa di sessant’anni fa non può essere attualmente usata per inchiodare oggi i palestinesi alla loro egualmente tragica sorte. Lasciamo per il momento da parte se l’Iran abbia davvero a cuore i palestinesi o abbia anch’esso le sue mire politiche: quel che è importante in quanto stiamo dicendo è che le argomentazioni della posizione ufficiale iraniana sono, purtroppo, vere). Qualche mese fa abbiamo visitato una mostra, nient’affatto pubblicizzata, sul genocidio armeno, che, come è noto, fu opera dei «giovani turchi», di origini dumeh, nazionalisti laici, non religiosi. Nella mostra vi erano le rare foto dei massacri contro gli armeni. Se alla mail che abbiamo ricevuto si fossero sostituite le foto degli ebrei con quelle degli armeni nessuno si sarebbe accorto della sostituzione. Ma mentre lo sterminio ebraico è fin troppo «memorizzato», cosa sappiamo, cosa abbiamo mai visto (e vedere è molto più che sentir dire), di quello armeno, del quale le nostre scolaresche non sanno neanche l’esistenza? E gli armeni erano cristiani! Trasformare la memoria di qualsiasi persecuzione, ebraica o armena o africana o altro, in una teologia civile, a scopo di stabilizzazione di un regime o di un quadro politico, è sempre un’odiosa offesa alle vittime. In quella mail venivano citate frasi altisonanti di Eisenhower e di Edmund Burke. E dal momento che alla «memoria» quella mail ci sollecitava, non possiamo dimenticare, da parte nostra, che Eisenhower è stato generale, prima, e presidente, poi, di un esercito e di una nazione che mentre documentavano lo sterminio ebraico si macchiavano di un altro ben più atroce e subitaneo genocidio, quello dell'Olocausto atomico di Hiroshima e Nagasaki (quest’ultima città era di popolazione quasi del tutto cattolica: un caso?), per poi far sedere i propri rappresentanti, insieme a quelli sovietici con le mani, quest’ultimi, ancora grondanti del sangue di milioni di kulaki, a giudicare i criminali nazisti a Norimberga. Ancora una volta la Sapienza evangelica è maestra: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». Né possiamo dimenticare che il «delicato» Edmund Burke, citato in quella mail, era quel gentiluomo latifondista anglicano che cianciava di «legge naturale» seduto sullo sfruttamento bestiale dei poveri contadini cattolici irlandesi. Non sono pulpiti, quello americano ed inglese, dai quali possiamo accettare prediche!
4) Confronta G. Lerner «Quel vescovo non è un alieno» Repubblica, 29 gennaio 2009. A Lerner vorremmo replicare, parafrasandolo, che «neanche quell’attore televisivo ebreo è un alieno» trattandosi del risultato di una educazione infarcita degli oltraggi contro Cristo e Maria di cui il Talmud abbonda e che, proprio in coincidenza con la costituzione dello Stato di Israele, sono stati reinseriti nel testo ufficiale ed anche liturgicamente recitati. Ci stiamo riferendo al recente programma televisivo della TV israeliana Channel 10 nel quale sono stati pubblicamente insultati Nostro Signore Gesù Cristo e la Vergine Maria ricalcando, guarda caso, proprio gli stereotipi anticristiani delle «preghiere di benedizione» talmudiche come quello del concepimento adulterino di Gesù. Nel comunicato emanato dal coordinamento della Chiese cristiane di Terra Santa si è denunciato il programma blasfemo come ultimo esempio di un clima che ormai da anni si è impregnato di un feroce anticristianesimo e del quale un altro esempio è costituto dall’incitamento che i giovani delle scuole talmudiche ricevono dai loro rabbinici maestri a manifestare il loro disprezzo verso i cristiani mediante l’«arte» dello sputare addosso a frati e religiosi o al Crocifisso, durante le processioni cristiane. «Sport» che i giovani coloni fondamentalisti praticano alacremente sotto l’occhio impassibile dei rabbini, loro maestri, e delle autorità di polizia israeliana.
5) Ecco come si esprime Lewis David Allen uno dei principali predicatori cristiano-sionisti: «Il Messia regnerà dal trono ristabilito di Davide a Gerusalemme. Risorto, Re Davide sarà co-reggente assieme a Cristo. Israele occuperà una posizione di gloria e dominio sulle nazioni del mondo. I Cristiani Rinati si uniranno al Messia e ai dirigenti di Israele nellamministrare il regno di Dio sulla terra. Siamo in marcia verso Sion!». Confronta L. D. Allen «Can Israel survive in a Hostile Word?», New Leaf Press, 1994, pagina 150.
6) Confronta L. Copertino «L’olocausto tra storia e teologia» in AA.VV. «La Storia imbavagliata», volume che raccoglie gli atti del convegno 17-19 aprile 2007 del Master «Enrico Mattei» in Medio Oriente presso l’Università di Teramo, Roma 2007.
7) In questa prospettiva storico-teologica vi sarebbe poi da considerare e valutare, alla luce del Genesi, anche il ruolo delle genti discendenti da Ismaele, figlio di Abramo ed Agar, la schiava di Sara moglie legittima del patriarca. San Paolo ne tratta, e la sua argomentazione fa testo canonico, per sottolineare che non era nella linea illegittima di Agar che la promessa messianica si sarebbe adempiuta ma in quella legittima di Sara. Però san Paolo scriveva prima dell’apparizione dell’Islam, per mezzo di Maometto, proprio tra i discendenti biblici di Ismaele, il figlio illegittimo di Abramo, e, dunque, san Paolo non sembra considerare che Ismaele era stato salvato nel deserto dall’Angelo del Signore, ossia dalla Forza stessa di Dio, con la promessa che sarebbe diventato una «grande nazione», indomabile come un «onagro», il ribelle asino selvatico del deserto, di fronte al fratello Isacco. E’ stato giustamente osservato che questa pagina del Genesi (si tenga conto che nella Scrittura ogni pagina richiama l’altra, sicché l’inizio richiama la fine, e viceversa, perché l’intera Bibbia rivela Cristo che è l’Alfa e l’Omega) sembra una descrizione della Terra Santa dei nostri giorni. In via puramente informativa e del tutto ipotetica, rammentiamo quanto circa il ruolo «cristocentrico» dell’Islam hanno scritto islamisti cattolici come il sacerdote Louis Massignon ed il francescano padre Giulio Basetti Sani. Secondo l’ipotesi di questi studiosi, l’Islam, lungi dall’essere come pretendono i mussulmani il «sigillo della Profezia», perché al contrario la Rivelazione si è definitivamente chiusa con Cristo, sarebbe soltanto l’adempimento di una promessa antico-testamentaria e Maometto, che per primo riteneva che il suo messaggio religioso doveva rimanere circoscritto alla sola Arabia, sarebbe un profeta veterotestamentario post-litteram il cui ruolo sarebbe stato solo quello di preparare gli eredi di Ismaele al riconoscimento della Divino-Umanità di Cristo, già in qualche modo implicita nel Corano benché non ancora esplicita nella ricezione che gli stessi islamici hanno attualmente del loro Libro. Divino-Umanità di quel Cristo che anche per l’Islam deve tornare alla fine del mondo per uccidere Al Daijal, l’Anticristo, e portare tutti all’obbedienza (= islam) a Dio. Ora, sostengono quegli studiosi, cristianamente l’obbedienza a Dio è vera solo se è conforme e partecipe dell’obbedienza di Gesù, Dio-Uomo, che fu appunto obbediente fino alla morte ed alla morte di Croce. Sicché quello dell’Islam sarebbe un «mistero storico-teologico» che si risolverà, ma solo alla fine del tempo, in Cristo, esattamente e parallelamente al destino cristiano finale dell’Israele post-biblico. Ribadiamo l’assoluta ipoteticità di questa tesi. Da parte nostra ci limitiamo soltanto a notare che cristianamente, ossia sulla base del Genesi, non è possibile negare che questo, quello cioè del ruolo in qualche modo «cristocentrico» degli eredi di Ismaele, è un mistero nel mistero, ossia un mistero nel più ampio e misterioso disegno di salvezza universale. Disegno del quale noi poveri uomini, ante factum, possiamo solo scorgere parziali barlumi, perché «le Mie vie non sono le vostre vie».
8) Ecco le parole del Papa: «In questi giorni nei quali ricordiamo la Shoah, mi ritornano alla memoria le immagini raccolte nelle mie ripetute visite ad Auschwitz, uno dei lager nei quali si è consumato leccidio efferato di milioni di ebrei, vittime innocenti di un cieco odio razziale e religioso. Mentre rinnovo con affetto lespressione della mia piena e indiscutibile solidarietà con i nostri Fratelli destinatari della Prima Alleanza, auspico che la memoria della Shoah induca lumanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore delluomo. La Shoah sia per tutti monito contro loblio, contro la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti. Nessun uomo è unisola, ha scritto un noto poeta. La Shoah insegni sia alle vecchie sia alle nuove generazioni che solo il faticoso cammino dellascolto e del dialogo, dellamore e del perdono conduce i popoli, le culture e le religioni del mondo allauspicato traguardo della fraternità e della pace nella verità. Mai più la violenza umili la dignità delluomo!» (da vatican.va). Ci permettiamo solo di osservare, con assoluto filiale rispetto, che questo alto magistero circa la «violenza contro uno solo come violenza contro tutti» e sul «faticoso cammino dell’ascolto e del dialogo, dell’amore e del perdono» avremmo voluto sentirlo pronunciare con altrettanta e chiara forza anche in occasione dell’ultimo sterminio di Gaza. Ci sembra invece, con tutto il rispetto filiale possibile, che non altrettanta forza e chiarezza si sia sentita dal trono di Pietro per i fatti di Gaza. E se sbagliamo nel nostro giudizio, come ci auguriamo, saremmo ben lieti di essere smentiti, magari durante il viaggio del Papa in Israele. Purtroppo non possiamo dare torto all’interlocutorio messaggio di un intellettuale di sinistra come Gianfranco La Grassa che ha giustamente scritto: «Messaggio ai lefebvriani: ‘La Shoah resta per tutti monito contro l'oblio, contro la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti’. Molto bene. Ricordiamo che di recente, non ad un solo essere umano ma a decine di migliaia (con oltre 1.300 morti e più di 5.000 feriti), è stata usata violenza in quel di Gaza. Non debbono essere usati due pesi e due misure, altrimenti sorge il sospetto che, per ottenere certe dichiarazioni, è necessario avere alle spalle una notevole potenza politico-militare (e altro ancora). Sono certo che una potenza spirituale come quella della Chiesa se ne infischia di altre potenze più 'materiali'. Attendo perciò fiducioso la condanna ecclesiastica per l’eccidio dei palestinesi. Fra laltro, sono pressoché certo che detta condanna arriverà nei confronti di chi avrà interrotto la vita… della povera Eluana. Vorrei ben vedere che togliere la vita a 1.300 esseri umani - e che era piena vita con tutti i cinque sensi e il sistema cerebro-nervoso in perfetta funzionalità - non sia considerato, da una Autorità religiosa di grande prestigio e tradizione, un delitto ancor più grande». Confronta www.lagrassagianfranco.it del 4 febbraio 2009. Del resto alle stesse conclusioni è arrivato un noto giurista, magistrato, e storico cattolico tradizionalista, Francesco Mario Agnoli, che ci ha, in proposito, scritto: «Credo che abbiamo anche il diritto di dire alla Chiesa e al Santo Padre stesso che, se, come vuole la Merkel, non è stata sufficiente la condanna del negazionismo, ancor meno lo è stata quella di Israele per la vile aggressione di Gaza, dove si è tolta la vita non ad un solo essere umano, ma ad oltre 1.300, di cui più della metà donne e bambini (per non parlare dei 5.000 feriti e delle decine di migliaia che hanno patito la violenza della perdita della casa, della fame e altro). Dal momento che non voglio credere alla sottomissione delle gerarchie vaticane «a chi conta in termini di potere e di lobbismo nel mondo» (e il sospetto di questa sottomissione sta gettando molte ombre su quello che era fino ad oggi un grande pontificato), mi aspetto una rinnovata e ben più esplicita condanna di Israele per quanto ha fatto. Del resto l'occasione c’è dal momento che il criminale (non solo di guerra) Olmert ha ripreso a bombardare e a minacciare».
9) Sulle ambiguità dell’esegesi del cardinal Kasper rimandiamo al nostro «La teologia cristiano-sionista del cardinal Kasper», su www.effedieffe.com
10) Confronta M. Crippa «Le radici giudaico-cristiane nella teologia secondo Benedetto XVI» su
Il Foglio del 4 febbraio 2009.
11) Alcuni tentativi di mobilitazione dei cattolici in difesa del Papa sono stati fatti proprio laddove, in Germania, l’attacco è stato più virulento, ma altrove il silenzio cattolico è stato assordante. Riportiamo la seguente notizia relativa all’appello lanciato a sostegno di Benedetto XVI nel suo Paese natale: «(ASCA-AFP) Berlino, 6 febbraio Due organizzazioni cattoliche tedesche hanno esortato i fedeli a sostenere il Papa, accusando i media di ‘oltraggi smodati’ nella loro copertura del dibattito sulla revoca della scomunica al vescovo lefebvriano negazionista Richard Williamson. ‘Gli oppositori del Papa, tra i quali figurano purtroppo alcuni vescovi eminenti, usano tutti gli strumenti per cercare di impedirgli di mantenere la sua rotta’, afferma un inserto a pagamento di Pro Sancta Ecclesia nel quotidiano Frankfuter Allegemeine Zeitung. ‘Occorre perciò che i fedeli e i veri cattolici facciano tutto il possibile per opporsi a questi sforzi, radunandosi dietro il Papa e sostenendolo con le loro preghiere, il loro lavoro, nella parola come nei fatti’, aggiunge il testo, sostenuto dall’associazione dei preti e laici cattolici tedeschi. Un secondo inserto pubblicitario nello stesso giornale, pubblicato su iniziativa del Forum dei cattolici tedeschi, ‘condanna tutti i commenti dei media tedeschi mirati a denigrare il Papa e a manipolare l’opinione pubblica contro la Chiesa cattolica’. ‘In quanto cattolici, noi respingiamo ogni intervento politico negli affari interni della Chiesa cattolica’, aggiunge l’inserto, che invita i fedeli a firmare una petizione di solidarietà con il Papa».


Copyright © - EFFEDIEFFE 28 febbraio 2009 - per cortese concessione
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