il Figlio dell’Uomo deve essere
innalzato, affinché chiunque crede in
lui abbia la vita eterna (cfr Gv
3,14-15). In questa Messa votiva
adoriamo e lodiamo il nostro Signore
Gesù Cristo, poiché con la sua Santa
Croce ha redento il mondo. Con la sua
morte e risurrezione ha spalancato le
porte del Cielo e ci ha preparato un
posto, affinché a noi, suoi seguaci,
venga donato di partecipare alla sua
gloria.
Nella gioia della vittoria redentrice di
Cristo, saluto tutti voi riuniti nella
chiesa della Santa Croce e vi ringrazio
per la vostra presenza. Apprezzo molto
il calore con il quale mi avete accolto.
Sono particolarmente grato a Sua
Beatitudine il Patriarca latino di
Gerusalemme per le sue parole di
benvenuto all’inizio della Messa, e per
la presenza del Padre Custode di Terra
Santa. Qui a Cipro, terra che fu il
primo porto di approdo dei viaggi
missionari di san Paolo attraverso il
Mediterraneo, giungo oggi fra voi, sulle
orme di quel grande Apostolo, per
rinsaldarvi nella vostra fede cristiana
e per predicare il Vangelo che offre
vita e speranza al mondo.
Il centro della celebrazione odierna è
la Croce di Cristo. Molti potrebbero
essere tentati di chiedere perché noi
cristiani celebriamo uno strumento di
tortura, un segno di sofferenza, di
sconfitta e di fallimento.
È vero che la croce esprime tutti questi
significati. E tuttavia a causa di colui
che è stato innalzato sulla croce per la
nostra salvezza, rappresenta anche il
definitivo trionfo dell’amore di Dio su
tutti i mali del mondo.
Vi è un’antica tradizione che il legno
della croce sia stato preso da un albero
piantato da Seth, figlio di Adamo, nel
luogo dove Adamo fu sepolto. In quello
stesso luogo, conosciuto come il Golgota,
il luogo del cranio, Seth piantò un seme
dall’albero della conoscenza del bene e
del male, l’albero che si trovava al
centro del giardino dell’Eden.
Attraverso la provvidenza di Dio,
l’opera del Maligno sarebbe stata
sconfitta ritorcendo le sue stesse armi
contro di lui.
Ingannato dal serpente, Adamo ha
abbandonato la filiale fiducia in Dio ed
ha peccato mangiando i frutti dell’unico
albero del giardino che gli era stato
proibito. Come conseguenza di quel
peccato entrarono nel mondo la
sofferenza e la morte. I tragici effetti
del peccato, e cioè la sofferenza e la
morte, divennero del tutto evidenti
nella storia dei discendenti di Adamo.
Lo vediamo dalla prima lettura di oggi,
che fa eco alla caduta e prefigura la
redenzione di Cristo.
Come punizione dei propri peccati, il
popolo di Israele, mentre languiva nel
deserto, venne morso dai serpenti ed
avrebbe potuto salvarsi dalla morte solo
volgendo lo sguardo al simbolo che Mosè
aveva innalzato, prefigurando la croce
che avrebbe posto fine al peccato e alla
morte una volta per tutte.
Vediamo chiaramente che l’uomo non può
salvare se stesso dalle conseguenze del
proprio peccato. Non può salvare se
stesso dalla morte. Soltanto Dio può
liberarlo dalla sua schiavitù morale e
fisica. E poiché Dio ha amato così tanto
il mondo, ha inviato il suo Figlio
unigenito non per condannare il mondo –
come avrebbe richiesto la giustizia – ma
affinché attraverso di Lui il mondo
potesse essere salvato. L’unigenito
Figlio di Dio avrebbe dovuto essere
innalzato come Mosè innalzò il serpente
nel deserto, così che quanti avrebbero
rivolto lo sguardo a lui con fede
potessero avere la vita.
Il legno della croce divenne lo
strumento per la nostra redenzione,
proprio come l’albero dal quale era
stato tratto aveva originato la caduta
dei nostri progenitori. La sofferenza e
la morte, che erano conseguenze del
peccato, divennero il mezzo stesso
attraverso il quale il peccato fu
sconfitto. L’agnello innocente fu
sacrificato sull’altare della croce, e
tuttavia dall’immolazione della vittima
scaturì una vita nuova: il potere del
maligno fu distrutto dalla potenza
dell’amore che sacrifica se stesso.
La croce, pertanto, è qualcosa di più
grande e misterioso di quanto a prima
vista possa apparire. Indubbiamente è
uno strumento di tortura, di sofferenza
e di sconfitta, ma allo stesso tempo
esprime la completa trasformazione, la
definitiva rivincita su questi mali, e
questo lo rende il simbolo più eloquente
della speranza che il mondo abbia mai
visto.
Parla a tutti coloro che soffrono – gli
oppressi, i malati, i poveri, gli
emarginati, le vittime della violenza –
ed offre loro la speranza che Dio può
trasformare la loro sofferenza in gioia,
il loro isolamento in comunione, la loro
morte in vita. Offre speranza senza
limiti al nostro mondo decaduto.
Ecco perché il mondo ha bisogno della
croce.
Essa non è semplicemente un simbolo
privato di devozione, non è un
distintivo di appartenenza a qualche
gruppo all’interno della società, ed il
suo significato più profondo non ha
nulla a che fare con l’imposizione
forzata di un credo o di una filosofia.
Parla di speranza, parla di amore, parla
della vittoria della non violenza
sull’oppressione, parla di Dio che
innalza gli umili, dà forza ai deboli,
fa superare le divisioni, e vincere
l’odio con l’amore. Un mondo senza croce
sarebbe un mondo senza speranza, un
mondo in cui la tortura e la brutalità
rimarrebbero sfrenati, il debole sarebbe
sfruttato e l’avidità avrebbe la parola
ultima.
L’inumanità dell’uomo nei confronti
dell’uomo si manifesterebbe in modi
ancor più orrendi, e non ci sarebbe la
parola fine al cerchio malefico della
violenza. Solo la croce vi pone fine.
Mentre nessun potere terreno può
salvarci dalle conseguenze del nostro
peccato, e nessuna potenza terrena può
sconfiggere l’ingiustizia sin dalla sua
sorgente, tuttavia l’intervento
salvifico del nostro Dio misericordioso
ha trasformato la realtà del peccato e
della morte nel suo opposto. Questo è
quanto celebriamo quando diamo gloria
alla croce del Redentore. Giustamente
sant’Andrea di Creta descrive la croce
come “più nobile e preziosa di qualsiasi
cosa sulla terra […], poiché in essa e
mediante di essa e per essa tutta la
ricchezza della nostra salvezza è stata
accumulata e a noi restituita” (
Oratio
X, PG 97, 1018-1019).
Cari fratelli sacerdoti, cari religiosi,
cari catechisti, il messaggio della
croce è stato affidato a noi, così che
possiamo offrire speranza al mondo.
Quando proclamiamo Cristo crocifisso,
non proclamiamo noi stessi, ma lui. Non
offriamo la nostra sapienza al mondo,
non parliamo dei nostri propri meriti,
ma fungiamo da canali della sua
sapienza, del suo amore, dei suoi meriti
salvifici.
Sappiamo di essere semplicemente dei
vasi fatti di creta e, tuttavia,
sorprendentemente siamo stati scelti per
essere araldi della verità salvifica che
il mondo ha bisogno di udire. Non
stanchiamoci mai di meravigliarci di
fronte alla grazia straordinaria che ci
è stata data, non cessiamo mai di
riconoscere la nostra indegnità, ma allo
stesso tempo sforziamoci sempre di
diventare meno indegni della nostra
nobile chiamata, in modo da non
indebolire mediante i nostri errori e le
nostre cadute la credibilità della
nostra testimonianza.
In questo Anno Sacerdotale permettetemi
di rivolgere una parola speciale ai
sacerdoti oggi qui presenti e a quanti
si preparano all’ordinazione. Riflettete
sulle parole pronunciate al novello
sacerdote dal Vescovo, mentre gli
presenta il calice e la patena: “Renditi
conto di ciò che farai, imita ciò che
celebrerai, conforma la tua vita al
mistero della croce di Cristo Signore”.
Mentre proclamiamo la croce di Cristo,
cerchiamo sempre di imitare l’amore
disinteressato di colui che offrì se
stesso per noi sull’altare della croce,
di colui che è allo stesso tempo
sacerdote e vittima, di colui nella cui
persona parliamo ed agiamo quando
esercitiamo il ministero ricevuto.
Nel riflettere sulle nostre mancanze,
sia individualmente sia collettivamente,
riconosciamo umilmente di aver meritato
il castigo che lui, l’Agnello innocente,
ha patito in nostra vece. E se, in
accordo con quanto abbiamo meritato,
avessimo qualche parte nelle sofferenze
di Cristo, rallegriamoci, perché ne
avremo una felicità ben più grande
quando sarà rivelata la sua gloria.
Nei miei pensieri e nelle mie preghiere
mi ricordo in modo speciale dei molti
sacerdoti e religiosi del Medio Oriente
che stanno sperimentando in questi
momenti una particolare chiamata a
conformare le proprie vite al mistero
della croce del Signore. Dove i
cristiani sono in minoranza, dove
soffrono privazioni a causa delle
tensioni etniche e religiose, molte
famiglie prendono la decisione di andare
via, e anche i pastori sono tentati di
fare lo stesso. In situazioni come
queste, tuttavia, un sacerdote, una
comunità religiosa, una parrocchia che
rimane salda e continua a dar
testimonianza a Cristo è un segno
straordinario di speranza non solo per i
cristiani, ma anche per quanti vivono
nella Regione.
La loro sola presenza è un’espressione
eloquente del Vangelo della pace, della
decisione del Buon Pastore di prendersi
cura di tutte le pecore,
dell’incrollabile impegno della Chiesa
al dialogo, alla riconciliazione e
all’amorevole accettazione dell’altro.
Abbracciando la croce loro offerta, i
sacerdoti e i religiosi del Medio
Oriente possono realmente irradiare la
speranza che è al cuore del mistero che
celebriamo nella liturgia odierna.
Rinfranchiamoci con le parole della
seconda lettura di oggi, che parla così
bene del trionfo riservato a Cristo dopo
la morte in croce, un trionfo che siamo
invitati a condividere. “Per questo Dio
lo esaltò e gli donò il nome che è al di
sopra di ogni altro nome, perché nel
nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra” (Fil
2,9-10).
Ναι, αγαπητές εν Χριστώ αδελφές και
αγαπητοί αδελφοί, εμάς δε μή γένοιτο
καυχάσθαι ει μή εν τώ σταυρώ του Κυρίου
ημών Ιησού Χριστού (cfr Gal 6:14). Αυτος
ειναι η σωτηρία, η ζωή και η ανάστασις.
Δια μέσου αυτου εσωθήκαμε και
ελευθερωθήκαμε.
[Sì, amati fratelli e sorelle in Cristo,
lungi da noi la gloria che non sia
quella nella croce di Nostro Signore
Gesù Cristo (cfr Gal 6,14). Lui è la
nostra vita, la nostra salvezza e la
nostra risurrezione. Per lui noi siamo
stati salvati e resi liberi.]
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