Il Seminario Teologico “Immacolata Mediatrice”, dei Francescani dell’Immacolata,
ha organizzato un convegno di studi sul Concilio Ecumenico Vaticano II, nei
giorni 16-17-18 dicembre 2010, presso l’Istituto Maria SS. Bambina di Roma.
Mossi dal discorso del S. Padre alla Curia Romana (22 dicembre 2005), in cui il
Pontefice rilevava che nel post-concilio due ermeneutiche si erano tra loro
scontrate: quella vera della «continuità nella riforma» e quella che ha seminato
confusione perché privilegiante lo spirito, il fattore “evento”, a scapito della
lettera, quella cioè della «rottura», ci si è prefisso di esaminare il Vaticano
II e di mettere in luce la sua natura e il suo fine peculiari, entrambi di
carattere pastorale. Certo, non per svalutare il Vaticano II – non era in
discussione la sua legittimità e cattolicità –, ma al fine di mettere meglio in
luce quest’unicum che caratterizza un Concilio Ecumenico: non voler dichiarare
nuovi dogmi o insegnare in modo definitivo ed infallibile, ma prefiggersi di
dire la dottrina di sempre al mondo di oggi; con accenti nuovi, espressioni
nuove, ma la fede di sempre, in modo pastorale. Così si espresse Giovanni XXIII
nel Discorso di apertura del Concilio (11 ottobre 1962):
«Questo massimamente riguarda il concilio
ecumenico: che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e
insegnato in forma più efficace» .
Il Vaticano II, indubitabilmente, come conviene ad un
concilio, ha portato notevoli progressi nel campo dogmatico: nel suo svolgersi,
soprattutto con l’impronta ecclesiologica datagli da Paolo VI, si formularono
asserti magisteriali “nuovi”, nella continuità dell’unica Tradizione. Basti
rammentare il concetto di collegialità inserito nel contesto della Chiesa
comunione, un maggiore approfondimento degli elementa Ecclesiae, per i quali le
altre confessioni cristiane sono ordinate all’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa
cattolica, ecc.
Papa Montini, nel suo discorso di inizio della II sessione conciliare (29
settembre 1963), richiamava anzitutto la volontà istitutrice pastorale del suo
predecessore, definendola e spiegandola con le seguenti parole:
«Ma a questo più nobile scopo del Concilio
hai unito anche l’altro, quello cosiddetto pastorale, che al presente sembra
più pressante e più propizio del primo . Hai infatti ammonito: "Il nostro
lavoro non consiste neppure, come scopo primario, nel discutere, alcuni dei
principali temi della dottrina ecclesiastica", ma piuttosto che essa "sia
approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi" (AAS 54
(1962), pp. 791-792 [p. 1101.1103]). Hai anche confermato l’opinione che,
negli elementi di cui è costituito il magistero ecclesiastico, la dottrina
cristiana non verte soltanto nell’analizzare la verità con la ragione che la
fede ha illuminato, ma anche nella parola che genera vita ed azione; e che
l’autorità della Chiesa non deve consistere esclusivamente nel condannare
gli errori che la deturperebbero, ma deve anche promulgare documenti
positivi e costruttivi, di cui essa è feconda. Se dunque il compito del
magistero ecclesiastico non è né solamente speculativo né soltanto negativo,
è allora necessario che in questo Concilio esso manifesti al massimo la
forza e la potenza della dottrina di Cristo, che disse: "Le parole che vi ho
detto sono spirito e vita" (Gv 6,64)» .
Dopodiché, Paolo VI – sempre in detto discorso –, elenca e
spiega gli scopi del concilio, riassunti in 4: 1) definire più precisamente il
concetto di Chiesa; 2) il rinnovamento della Chiesa cattolica; 3) la
ricomposizione dell’unità fra tutti i fedeli; 4) il dialogo della Chiesa con il
mondo contemporaneo. Ancora una volta, ritorna il concetto di “pastorale” ma
spiegato dal Papa Montini, con le parole di Giovanni XXIII, come lo scopo stesso
del Magistero della Chiesa:
«Noi non dimenticheremo in nulla le norme che
con sapientissima intuizione sono state tracciate da Te, primo Padre di
questo Concilio, e che qui è utile rievocare: "Però noi non dobbiamo
soltanto custodire questo prezioso tesoro – ossia la dottrina cattolica -,
come se ci preoccupassimo della sola antichità, ma, alacri, senza timore,
dobbiamo continuare nell’opera che la nostra epoca esige, proseguendo il
cammino che la Chiesa ha percorso per quasi venti secoli". Di conseguenza
"si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al
magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale" (AAS 54 (1962), pp.
791-792 [p. 1101.1103])» .
Paolo VI, nell’allocuzione all’ultima sessione pubblica del
Concilio (7 dicembre 1965), confermava lo statuto pastorale fontale del
Concilio, sebbene questo non avesse precluso la strada ad un approfondimento
dogmatico e dottrinale. Riportiamo ancora le sue parole:
«Ma una cosa giova ora notare: il magistero
della Chiesa, pur non volendo pronunciarsi con sentenze dogmatiche
straordinarie, ha profuso il suo autorevole insegnamento sopra una quantità
di questioni, che oggi impegnano la coscienza e l’attività dell’uomo; è
sceso, per così dire, a dialogo con lui; e, pur sempre conservando la
autorità e la virtù sue proprie, ha assunto la voce facile ed amica della
carità pastorale; ha desiderato farsi ascoltare e comprendere da tutti; non
si è rivolto soltanto all’intelligenza speculativa, ma ha cercato di
esprimersi anche con lo stile della conversazione oggi ordinaria, alla quale
il ricorso alla esperienza vissuta e l’impiego del sentimento cordiale dànno
più attraente vivacità e maggiore forza persuasiva: ha parlato all’uomo
d’oggi, qual è. […] Ma chi bene osserva questo prevalente interesse del
Concilio per i valori umani e temporali non può negare che tale interesse è
dovuto al carattere pastorale, che il Concilio ha scelto quasi programma, e
dovrà riconoscere che quello stesso interesse non è mai disgiunto
dall’interesse religioso più autentico, sia per la carità, che unicamente lo
ispira (e dove è la carità, ivi è Dio!), e sia per il collegamento, dal
Concilio sempre affermato e promosso, dei valori umani e temporali, con
quelli propriamente spirituali, religiosi ed eterni : sull’uomo e sulla
terra si piega, ma al regno di Dio si solleva» .
Qui però ci si consenta una riflessione. La pastoralità, nel
suo insieme, viene vista giustamente come il fine del Magistero: il dogma
spiegato e incarnato. Si sa bene però che sebbene la pastorale sia sempre il
fine della dogmatica, non si identifica con essa. Non si può fare una dogmatica
pastorale, ma solo applicare in modo pastorale il dogma hic et nunc. Una delle
interpretazioni post-conciliari surrettizia, a nostro modo di vedere, ha trovato
in questa volontà dei Pontefici del Concilio – chiara e da leggersi in linea con
la fede di sempre nello sforzo di renderla comprensibile oggi – uno sprone a
formulare invece la sostanza della fede in modo pastorale per un fine dogmatico,
e questo per sposare supinamente ed allegramente il dato delle acquisizioni
moderne nei vari campi dello scibile: dall’evoluzionismo al comunismo; dal
filantropismo alla negazione della Chiesa: Cristo sì ma la Chiesa no. Era
necessario aggiornarsi a 360°. L’ilarità e la fiducia hanno prevalso su
un’attenta analisi critica della modernità. Pastorale è diventata l’indole della
teologia, sì da dire cose nuove – a volte senza preoccuparsi tanto della loro
fondatezza nel dogma e della continuità col Magistero – anche sostanzialmente
nuove, in ragione dell’approccio contingente del metodo pastorale. Pur di
dialogare con il mondo, ad esempio, si è preferita la filosofia prevalente nella
modernità, agnostica e scettica quanto al mistero, dubbiosa e formalmente
fenomenica: il mondo, in tal modo, avrebbe capito meglio il messaggio di Cristo.
È risultato però che il mondo è entrato nella Chiesa, largamente, ma la Chiesa è
ancora fortemente combattuta dal mondo.
Spesso, purtroppo, presi dal fervore del nuovo, quando non
addirittura da un accecamento storicista, si è dimenticato di considerare che il
Vaticano II non si identifica con la Tradizione della Chiesa, non è il suo fine:
questa è più grande, mentre il Concilio ne è un momento espressivo e solenne; si
dimentica poi il suo carattere magisteriale ordinario, sebbene espresso in forma
solenne dall’Assise conciliare, e l’assenza di pronunciamenti infallibili; si
dimentica, infine, che i documenti del Vaticano II – a differenza di Trento e
del Vaticano I, ad esempio – sono distinti in Costituzioni, Dichiarazioni e
Decreti, e pertanto non hanno tutti il medesimo valore dottrinale, rimanendo pur
sempre chiara e fontale l’attitudine generale del Concilio, di insegnare in modo
autentico ordinario.
Paolo VI, infatti, nell’Udienza Generale del 12 gennaio 1966, dovette ricordare
che,
«bisogna fare attenzione: gli insegnamenti
del Concilio non costituiscono un sistema organico e completo della dottrina
cattolica; questa è assai più ampia, come tutti sanno, e non è messa in
dubbio dal Concilio o sostanzialmente modificata; ché anzi il Concilio la
conferma, la illustra, la difende e la sviluppa…»
Richiamandosi poi alle Notificazioni del Segretario Generale
del Concilio, del 16 novembre 1964, aggiungeva:
«…dato il carattere pastorale del Concilio,
esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota
di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti
dell’autorità del supremo magistero ordinario il quale magistero ordinario e
così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da
tutti i fedeli, secondo la mente del Concilio circa la natura e gli scopi
dei singoli documenti» .
Dove si annida, però, quella volontà di far risultare il
Vaticano II come «un nuovo inizio a partire dal nulla», sì da diventare un
«superdogma», mentre esso in verità «escogitò di rimanere in un livello modesto,
come un semplice concilio pastorale» (Cardinale J. Ratzinger, Discorso ai
Vescovi del Cile, 13 luglio 1988)? A nostro modo di vedere, una della cause è lo
stesso lemma “pastorale”, che nella stagione post-conciliare ha subito notevoli
trasformazioni: un ricco approfondimento accanto però ad una voluta equivocità.
Si è verificata un’inversione: la pastorale è divenuta la vera dogmatica, mentre
la dogmatica è stata superata in nome della pastorale. Per molti l’unico
concilio dogmatico è il Vaticano II, mentre quelli precedenti sarebbero
superabili in nome del nuovo concetto di “pastorale”, che nella categoria
“evento” o anche “prassi”, compendia e sorpassa a livello esistenziale la
discontinuità dogmatica causata in precedenza dalle definizioni di fede e la
stessa reticenza nei confronti del mondo; per altri il Vaticano II, in quanto
semplicemente pastorale, sarebbe sic et simpliciter inoffensivo, se non
addirittura da cancellare con un colpo di spugna, ignorando però che il
mistero-Chiesa rimane identico nel fluttuar degli eventi, in ragione
dell’assistenza dello Spirito Santo e della vigile premura del Magistero. Il
problema è molto delicato e richiede un esame attento, critico e ragionato,
partendo dalle fonti e non dai sentimenti. Qual è la mens del Concilio? Dove si
evidenzia? Non si può pertanto prescindere dai documenti e dallo stesso iter
storico-dottrinale che ha portato alla loro promulgazione.
Notificazioni fatte dall'Ecc.mo Segretario generale nella congregazione
generale 123.a il 16 novembre 1964
È bene, prima di inoltrarci in una presentazione del problema
“Vaticano II”, richiamare subito una notificazione inserita in chiusura di
Lumen gentium, in modo da avere subito chiaro il valore dottrinale e
magisteriale del Concilio così come espresso in sede conciliare.
«È stato chiesto quale debba essere la qualificazione teologica della dottrina
esposta nello schema sulla chiesa e sottoposto alla votazione.
La commissione dottrinale ha dato al quesito sulla valutazione dei Modi
riguardanti il capitolo terzo dello schema sulla chiesa questa risposta:
“Come è di per sé evidente, il testo del Concilio deve sempre essere
interpretato secondo le regole generali da tutti conosciute”.
In pari tempo la commissione dottrinale rimanda alla sua Dichiarazione del 6
marzo 1964, di cui trascriviamo il testo:
“Tenuto conto dell'uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio,
questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la
fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali.
“Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo
della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo
spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia
dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme d'interpretazione
teologica”» .
Il Vaticano II un concilio pastorale: in che senso?
Lo scopo del Concilio è ravvisabile nel dialogo con il mondo moderno e
l’aggiornamento della Chiesa secondo le richieste giuste della cultura moderna
in modo da, come scrive M. Toso,
«realizzare un nuovo e fruttuso rapporto con
la modernità. Si tratta di un rapporto di fede e ragione, emblematico per
l’oggi…Grazie ad un’ermeneutica della riforma, il Concilio ha, in
particolare, ridefinito il rapporto tra la fede della Chiesa e certi
elementi essenziali del pensiero moderno, continuando ciò che si era fatto
nel Novecento. […] Il passo compiuto verso l’età moderna non è stato una
capitolazione rispetto a certi suoi errori, bensì un “sì” a ciò che aveva di
positivo, ripensandolo e risignificandolo entro un altro quadro culturale» .
L’equivoco, che ha causato una crisi di fede, che è una crisi
della Chiesa nella sua essenza divino-rivelata, a nostro giudizio, gioca sulla
pastoralità del Concilio. Essa non è messa in dubbio, né dai negatori né dagli
osannatori del Vaticano II, ma è maldestramente interpretata, sì da diventare il
cavallo di Troia per un ingresso abusivo e talvolta privatistico nell’impianto
della fede e della Tradizione della Chiesa. G. Ziviani, riflettendo sulla
pastoralità del Concilio, diceva che, l’aggettivo pastorale:
«infatti, programmatico per Giovanni XXIII
che convocò l’assise, fu recepito come tale dai padri e risuonò infinite
volte sulle loro bocche, sia in aula che nelle commissioni. Ogni gesto volle
ispirarsi a quel criterio […]. Con il passare degli anni, la rilevanza
teologica di questo concilio “pastorale” è andata via via crescendo e quella
che storicamente voleva essere la prosecuzione del Vaticano I – significata
già nella scelta del nome – e l’“aggiornamento” della Chiesa, in realtà si è
tradotta nella graduale riformulazione di tutti i trattati teologici,
costretti ad abbandonare le vie della manualistica e dell’apologetica, per
un ritorno alle fonti vive della Scrittura e della Tradizione» .
Così Ziviani, propone la categoria della “Chiesa madre” quale
categoria-sintesi per una teologia pastorale rinnovata all’insegna del Concilio,
che sviluppi propriamente il dato ecclesiologico e teologico, in quanto tali .
Purtroppo, però – per una “pastoralizzazione” della dogmatica? – la pastorale è
diventata il modo pratico (spicciolo talvolta) di avvicinare la fede, di
interpretarla, di proporla alle genti e anche di manipolare i suoi dogmi,
richiamandosi in modo scorretto alla Tradizione vivente della Chiesa. La
Tradizione in quanto vivente autorizzerebbe a proporre diversamente il dato di
fede, non più nell’omogeneità del quod ubique, quod semper quod ab omnibus
creditum est, intesa come confronto dialogico tra identità e sviluppo dogmatico.
La fede è cambiata e può cambiare in nome di un approccio pastorale, quello che
la Chiesa insegnava prima sembra non aver oggi nessun valore, in nome dello
spirito del Concilio, ovvero del nuovo metodo teologico: quello pastorale. Due
sono i termini che sono divenuti equivoci: “pastorale” e “Tradizione vivente”.
La Tradizione sarebbe vivente quando è interpretata in modo pastorale per vivere
oggi la fede, che per essere attuale e in dialogo deve rinunciare a quello che
si credeva prima. Dicendo le cose in modo nuovo (ma in questo modo) si è finiti
col “credere in modo nuovo”. Tanti non credono più nell’infallibilità del Papa,
nella presenza reale di Gesù nell’Eucaristia, nell’escatologia di sempre, col
giudizio vero, nel purgatorio, inferno e paradiso; il sacerdozio ministeriale è
per tanti una guida dei fedeli sulla base di un comune sacerdozio che affratella
tutti e tutti sono uguali. Il peccato è solo una reminiscenza di un passato
vergognoso della Chiesa e purtroppo questa vergogna ora è sulla faccia di tutti,
a causa di un peccato venuto allo scoperto per altre vie. Questa triste
situazione era già vista da H. de Lubac, che con amarezza, dopo il Concilio, si
chiedeva: «La Chiesa cattolica stessa resterà in mezzo agli uomini testimone di
Dio, oppure diventerà una società antropocentrica?» .
“Pastorale”, infatti, è una categoria che ha generato abusi, come denunciato ad
esempio da R. Laurentin. Questi fa notare, che la categoria pastorale, mentre
nella I sessione del Concilio significava
«il bisogno di restaurare il legame tra vita
ed eternità, tra dottrina e salvezza, rimanendo comunque sul generico e sul
vago, nella seconda sessione, alcuni caddero nell’errore di considerare il
termine “pastorale” come contrario a “dottrinale”; così la “collegialità”
gerarchica e l’amore matrimoniale appartenevano al campo “pastorale”, non a
quello “dottrinale”» .
La categoria della pastoralità del Concilio è per lo più
l’ingresso della categoria “storia” nell’atrio della fede rivelata, per leggere
il Concilio e la fede di sempre alla luce del Concilio, ovvero alla luce delle
esigenze e della prassi concreta. Il Concilio per alcuni sarebbe il momento
storico dell’ingresso della storia nella fede e in questo in ragione della
pastoralità.
Scrive il gesuita P. J. Rosato:
«I tentativi già menzionati di collocare la
metafisica classica nel nuovo contesto storico riguardano non soltanto il
concetto principale (l’essere inteso come evento), ma anche il suo
corollario: che l’essere cioè, specie nella sua manifestazione umana, si
esprime come dialogo» .
Il gesuita M. Simone fa sua,
sempre in questo contesto, la visione di W. Kasper e dice:
«L’ontologia che pervade il documento (Lumen
gentium) – precisa Rosato – sorge comunque ‘dall’esperienza cristiana e
prende molto sul serio la storia umana, intesa come il luogo nel quale si
manifesta l’essere di Dio e quello dell’uomo’. Con W. Kasper possiamo dire
che “l’essere diventa evento nella storia”» .
Soprattutto K. Rahner si è
distinto nel mettere in luce il nuovo significato di “teologia pastorale”,
ancorato strettamente alla prassi, e in questo senso appaiato a quello di
teologia politica . Rahner, infatti, vuole svincolare la pastorale dal solo
significato originario di disciplina che incarna il dato dottrinale, per darle
quasi uno statuto di “scienza-specchio” della teologia in quanto tale, di
disciplina volta a verificare l’operato del teologo. Scrive:
«Se la prassi è vista solo come
concretizzazione di certe “idee” in un materiale spazio-temporale, che
rimane indifferente, allora anche la T.P. può essere compresa come la
direttiva per l’esecuzione dei contenuti della rivelazione, cioè della
teologia dogmatica e della teologia morale, dati appunto come idee. Ma se
questa concezione di fondo viene contestata da un’antropologia profana e da
una migliore comprensione della rivelazione, intesa come storia, allora la
teologia pratica, anche se teorica, non sarà più vista come originata dalla
teoria teologica»
Là dove, secondo Rahner, la
teologia non sarà più vista come riflessione sul Depositum fidei,
consegnato alla Chiesa con la morte dell’ultimo apostolo, ma sarà vista come
teologia della promessa e della speranza, come teologia storica del futuro di
Dio, allora acquisterà notevole valore anche la teologia pratica. In altre
parole, Rahner ci dice che la teologia non dovrà solamente ricavare i dati della
sua indagine dalla dogmatica e dalla morale, ma dall’antropologia profana, che
sarà il metro con cui misurare oggi l’evento della fede. Per questo, a dire di
Rahner, le discipline che dovranno stare maggiormente a cuore al pastore, sono,
oltre alla pastorale, anche un’antropologia teologica , tema che con Rahner
entra nella teologia, fino a segnare un accantonamento decisivo dal trattato De
Deo creante et elevante. Per Rahner la pastorale è, in questa dialettica
storica, in cui ha una priorità la ragion pratica intesa come libertà, «il
principio organizzativo intrinseco ed estrinseco di tutta la teologia» .
Non si radica in questa nuova visione, in qualche modo, l’assorbimento del dogma
nella prassi e la possibilità della sua relativizzazione storica? La
riformulazione dogmatica della fede, a cominciare dall’anno zero del Concilio,
ma per la via del fare, della prassi? Non è derivata da questa visione una
teologia politica, presto interpretata come teologia della liberazione?
Epifanie teologiche della pastoralità del Concilio. Rapido sguardo d’insieme
- La volontà del suo
istitutore, papa Giovanni XXIII. Il Concilio definisce i suoi contorni
teologico-dogmatici con Paolo VI che dà una svolta ecclesiologica all’assise
conciliare (il che non piace alla Scuola Bolognese, in quanto accadrebbe una
specie di dogmatizzazione dell’evento).
- Il Concilio arriva al dogma
partendo dalla preghiera, dalla vita liturgica. Si avvia una riforma della
liturgia – esigibile per altro in ogni tempo – in modo dogmatico o
pastorale? Pastoralmente dogmatico, forse è la risposta. Il binomio lex
orandi – lex credendi, formulato da Prospero d’Aquitania come legem
credendi lex statuat supplicandi, sembra propendere più per la liturgia
norma della fede che per la fede norma della liturgia (come aveva detto Pio
XII nella Mediator Dei, n. 48: Lex credendi legem statuat
supplicandi). Attraverso la preghiera si è raggiunta – o si è cercato di
raggiungere – la fede della Chiesa: questo è il primo moto d’inversione
della logica della fede ed il trampolino di lancio per poi giustificare
l’approccio al dogma mediante il vissuto, cioè mediante la pastorale? Non è
in discussione certo la riforma liturgica, ma il modo in cui è stata
approntata; modo che è diventato un farwest subito dopo. È qui, in ultima
analisi, che la creatività e lo spontaneismo liturgici hanno il loro humus.
S. Agostino aveva detto: «Crediamo per pregare e se vogliamo che la fede con
la quale preghiamo non venga meno, dobbiamo pregare. La fede fa germogliare
la preghiera, in quanto da quella germogliata attinge la fermezza della
fede» (Sermo 115).
- Nelle sue affermazioni
centrali riprende il Magistero precedente (soprattutto Pio XII) apportando
qualche novità (LG: subsistit in; DV Traditio più
interpretativa che costitutiva), ma l’intento centrale è il dialogo ad
extra, particolarmente col mondo. Di qui le dichiarazioni classiche di
natura pastorale che nel post-concilio hanno preso particolarmente corpo:
ecumenismo, dialogo interreligioso e libertà religiosa.
- Lo stile adottato nei
documenti è biblico e narrativo, non scolastico, definitorio. La teologia
post-conciliare infatti ha dato grande adito a ciò sviluppando una simbolica
teologica. Questo modo di espressione rimanda per sé ad una “mens Sanctae
Synodi” (assente in qualche modo anche nel contesto dell’intero
Concilio, in ragione del suo stile) che si può ricercare solo facendo
ricorso all’interpretazione ordinaria del Magistero. Come il Magistero dei
Pontefici, e del Pontefice collegialmente unito a tutti i Vescovi, ha
recepito il Vaticano II?
- Il fatto che diverse volte il
Magistero si sia visto obbligato ad intervenire per chiarire le posizioni
teologiche del Concilio, manifesta la pastoralità dei suoi documenti nel
loro insieme, una pastoralità fontale che implica uno sviluppo
dottrinale-teologico, o purtroppo, a causa degli abusi e della rottura, una
regressione dottrinale della teologia. Il Concilio nel suo insieme è
pastorale e in modo pastorale affronta le verità dogmatiche della fede, sì
da spiegare, da un lato, l’imprecisione teologica di diverse sue
affermazioni (si pensi a PO 16 sul celibato), per le quali si è esigito o si
continua ad esigere un intervento chiarificatore (si pensi al subsistit
in, all’ecumenismo, alla morale, alla liturgia) dall’altro lato, un
tentativo di approccio ad extra più discorsivo e meno dogmatico-definitorio.
Alcune teologie errate si sono appellate al Concilio (teologia della
liberazione, p. J. Sobrino, p. J. Dupuis). L’interpretabilità del Concilio
non squalifica il Concilio, ma ne manifesta la natura pastorale, che
richiede, di conseguenza, una corretta interpretazione, in continuità
dell’unica Traditio Ecclesiae.
Il Vaticano II: un concilio sui generis?
Potremmo dire che il Vaticano II, perché eminentemente pastorale, è un concilio
sui generis, nel senso che è la prima volta che un Concilio viene
convocato per parlare al mondo e dire oggi la fede di sempre, facendo leva sull’aggiornamento?
Per diverse ragioni sì, ma non nel senso di voler fare del Vaticano II una
meteorite e quindi un Concilio da declassare, lasciandolo al bando di una
critica dal sapore antiromano e in definitiva antiecclesiale. Non si dimentichi,
infatti, che anche il Concilio di Pavia-Siena (1423-1424), ecumenico anch’esso,
come difeso nella tesi d’abilitazione del novello Card. W. Brandmüller,
contrariamente al discredito che su di esso circolava, non definì alcun dogma,
ma riuscì solo ad emanare quattro decreti, piuttosto disciplinari e poi fu
sospeso per contrastare definitivamente il conciliarismo. Fu un Concilio molto
importante per preparare poi il Tridentino.
Oggi, però, un altro equivoco spesso ricorrente è la confusione tra dogmatico ed
infallibile. Non tutto ciò che è dogmatico è infallibile. Concilio dogmatico non
significa per sé infallibile, né tanto meno lo significa concilio ecumenico;
come pure concilio pastorale non significa per sé non dogmatico e tanto meno mai
infallibile. Dogmatico significa riferimento al dogma della Chiesa, definito o
definibile (definitive tenenda): in questi casi la dogmatica è
infallibile; ma significa anche riferimento al dogma nei suoi aspetti non
infallibili, dottrinali e teologici, quindi in vista di un progresso ulteriore
del dato di fede, suscettibili perciò di altri approfondimenti. Non si disprezza
il Vaticano II se lo si ritiene infallibile di riflesso, solo quando si richiama
a precedenti definizioni dogmatiche o a dottrine definitive tenenda, ma
si vuole chiarire la sua natura pastorale, che necessariamente confluisce anche
verso la dogmatica. Qui, certo, il discorso si fa più difficile. Pastorale o
dogmatico? I due lemmi si intrecciano o si distinguono chiaramente? Il Concilio
stesso non riesce a rispondere, tanto meno il post-concilio.
Una sorta di tensione, comunque, tra la pastorale e la dogmatica la si denota
già nella fase preparatoria del Concilio. Il Card. Montini, Arcivescovo di
Milano, invia una lettera al Segretario di Stato, datata 18 ottobre 1962 (una
settimana dopo l’apertura del Concilio), in cui lamentava la «mancata o almeno
non annunciata esistenza di un disegno organico…» nel Concilio. Lamentava, in
altre parole, i buoni propositi di Giovanni XXIII, ma solo pastorali. Montini
proporrà una concentrazione sulla Chiesa come del resto aveva già previsto il
Card. Suenens .
Scrive a riguardo G. Palazzini:
«Il Vaticano II ha avuto una finalità nuova,
almeno nella sua enunciazione e intonazione, un fine pastorale. È chiaro che
anche il Vaticano II si è imbattuto in temi dommatici, perché in fondo ad
ogni questione pastorale giacciono una o più questioni dogmatiche; come è
vero che ogni formulazione di indirizzo pastorale sfocia in definitiva in
una norma. Ma questo Concilio ha inteso affrontare tutto con una visione
pastorale: far sì che il tono apostolico ispirasse tutte le sue decisioni e
si manifestasse per ogni verso» .
L. Bettazzi, collocandosi sulla
linea della Scuola Bolognese, sceglie anch’egli il titolo “Concilio pastorale”,
che a suo dire segnerebbe una “discontinuità moderata” da poter affiancare alla
continuità di cui parla Benedetto XVI, una continuità che dovrebbe essere
anch’essa moderata. Infatti la “continuità radicale” per Bettazzi è
rappresentata da chi,
«svalutando il Concilio Vaticano II per la
sua qualifica ‘pastorale’ ritiene che esso abbia esaurito il suo compito in
un aggiornamento fatto di una più ampia lettura della Bibbia o della
liturgia in volgare, mentre le esperienze di comunione (dai Consigli
pastorali ai Sinodi episcopali) vanno ridotte al ruolo di consultazioni
facoltative, che non intaccano il ruolo fondamentale della gerarchia» .
Bettazzi, però, per chiarire
l’apparente contraddizione che nasce da una continuità o discontinuità, si
appella anch’egli alla pastoralità del Concilio e dice:
«Ritengo che l’apparente contraddizione possa
chiarirsi proprio nella singolare prospettiva di un Concilio ‘pastorale’. Se
i Concili ‘dogmatici’ col definire ‘dogmi’ troncavano le contrapposizioni e
costituivano dunque quindi ‘discontinuità’ (nel senso che la fissazione per
il dopo costituiva una netta diversità rispetto all’ambiguità precedente),
un Concilio ‘pastorale’ non rimette in gioco formulazioni dogmatiche e
rimane quindi in evidente continuità. Ma questo non toglie che una diversa
prospettiva ‘pastorale’ possa portare a vedere le verità di sempre in modo
totalmente nuovo da costituire davvero un evento» .
Per il vescovo Bettazzi, il vero
problema sembrano i concili dogmatici, come Trento, che definendo le verità
della fede e condannando gli errori hanno rappresentato una vera rottura con la
vita della Chiesa precedente. Sulla linea della Scuola bolognese, l’evento
“Vaticano II” è qui la vera e nuova conciliarità. Senza essere più segno di
contraddizione?
Con un’espressione emblematica quanto controversa commentava così Carlo Carretto
la grazia del Vaticano II, che aveva fatto cadere le mura di Gerico:
«La teologia divide, fratelli! La mistica
unisce, – ed è qui il punto a cui il Concilio ci ha portato – quando ci
parla di questo “mistero”. Per questo, non diremo mai abbastanza “grazie” a
Papa Giovanni e a Paolo VI, che con il Concilio ci hanno fuso in un’unica
realtà mondo e chiesa con elementi di lotta e di liberazione» .
In realtà, uno degli equivoci che
ha generato in definitiva la secolarizzazione della Chiesa e la sacralizzazione
del mondo è stato proprio questo: una sorta di fusione tra la Chiesa e il mondo.
Partiti dalla non contrapposizione, si è arrivati a fare del mondo quasi la
categoria chiave della teologia. La pluralità delle filosofie moderne è stata
vista come possibilità e validità di una pluralità di “teologie nuove”. Tante
filosofie tante teologie, dimenticando però che la teologia è la scienza che
studio Dio, l’Uno e il Trino, un mistero che viene dall’alto. Una lucida analisi
di questo smarrimento teologico, sì da esser fieri della nascita e dello
sviluppo di teologie plurali e a volte anche in contraddizione l’una con
l’altra: una teologia della morte come una teologia della prassi o della
speranza o della Croce, fu fatta dal più che nonagenario cardinale Pietro
Parente, il quale diceva che la crisi della teologia, dipendeva dal fatto che,
soprattutto dopo il Concilio, si è accentuata
«la tendenza alla problematica, che invade
anche le scuole, dove via via si abbandona il metodo sistematico per
inseguire il metodo della ricerca e della monografia. Pian piano S. Tommaso
è sostituito da autori personali, amanti più dell’analisi che della sintesi
e senza scrupoli si preferisce procedere dall’errore e dall’opinione verso
il principio classico della Teologia ufficiale. Risultato di questo metodo è
il frammentarismo spesso disorientante e, peggio, una vena di scetticismo
riguardo alla verità» .
Una lettura contestualizzata del Vaticano II per capirne la portata e la
validità
Il Concilio è da giudicare nell’arco spazio-temporale nel quale si colloca. Si
tratta di un tempo tormentoso e conteso tra una speranza di risurrezione nel
dopoguerra con l’incentivo materialistico, e la delusione di vedersi sempre più
privi di un denominatore comune, che potesse veramente unire senza meramente
globalizzare. La cultura annaspa tra un coraggioso sguardo alla modernità, vista
non più come nemica e il tramonto della stessa epoca moderna con l’inizio di
un’epoca post-moderna e post-cristiana, degenerante presto nel relativismo,
quale sfiducia fondamentale nella verità e quindi nel nichilismo. Questa è la
lettura che dà ad esempio J. Ratzinger di questo periodo:
«Lo spirito della modernità e la Chiesa non
si guardavano più con ostilità, ma camminavano l’uno verso l’altro. Il
Vaticano II era cominciato in questo clima ottimistico della riconciliazione
finalmente possibile fra epoca moderna e fede; la volontà di riforma dei
suoi padri ne era plasmata. Ma già durante il concilio questo contesto
sociale cominciò a mutarsi» .
Infatti, ci fu il ’68, che in
quanto rivoluzione culturale, significò la rivolta dell’epoca moderna contro se
stessa, dice Ratzinger. La società democratica e liberale appariva ora come un
carcere. Il risultato così bramato di una ragione capace di autogovernarsi e di
autocrearsi, appariva ora come una formula costrittiva, nascondente il pericolo
di una schiavitù dell’uomo a causa dell’uomo. L’uomo, invece, voleva essere
libero da ogni cosa e anche da se stesso. Così continua Ratzinger:
«La riconciliazione fra epoca moderna e fede,
che in qualche modo era stata un’idea conduttrice del Vaticano II, era così
messa in discussione nella sua forma concreta. Quell’epoca moderna, con la
quale si era cominciato a riconciliarsi non doveva più esserci. La
rivoluzione iniziatasi si rivolgeva contro di essa, per realizzare la vera
novità, il progresso definitivo. Questo dramma adombrò necessariamente la
recezione del concilio e suscitò le note posizioni contrapposte» .
Vi era chi si vedeva in ritardo
rispetto al progresso e accelerava sul motore riforma e chi invece vedeva nella
resistenza allo stesso Concilio una via di salvezza.
Comunque, le posizioni contrapposte si erano già delineate prima del Concilio,
sono presenti nel Concilio e poi permangono dopo, accentuandosi. Il Concilio si
dipana in questo periodo di forte crisi identitaria della cultura e della
società, in una crisi della verità. Vuole, pertanto, non inferire con altri
libelli di condanna e di proibizione, dopo quelli già dolorosi inflitti alla
società e all’uomo. Cerca un punto di contatto, un’apertura al nuovo e uno
sforzo di far risultare la Chiesa capace di stare al passo con i tempi, giovane
e in dialogo con il mondo. C’è una grande speranza che attraversa la grande
compagine ecclesiale: la speranza di una nuova primavera per la fede e per la
stessa Chiesa, così che continuasse a risvegliarsi nelle anime, adesso
tramortite a causa di ideologie, che con l’arroganza del potere, avevano
seminato morte e sconquasso. Per tali ragioni il Concilio opta per la
pastoralità, che avrebbe potuto barcamenarsi tra il dato di fede e il dato del
condivisibile con il mondo e a favore del mondo. Qui però è doverosa una
domanda: c’era bisogno di un Concilio per affrontare gli argomenti dottrinali in
modo pastorale? Non si potrebbe rispondere a questa domanda, crediamo, senza far
riferimento ad una diatriba che percorre il Concilio, lo attraversa ed è
presente anche dopo, anche ora: quella divisione tra due modi di intendere la
Chiesa: uno quale “Chiesa dal basso” e uno “Chiesa dall’alto”; una Chiesa
“mistero-dato” e una Chiesa “mistero-ritrovato”. Non che il Papa optasse per la
seconda possibilità e per tale ragione convocò il Concilio, ma nel senso che i
dibattiti in aula, evidenziavano, da un lato un desiderio di tener ferma la fede
con preoccupazioni (spesso solo) antimodernistiche e quindi dogmatiche,
dall’altro, gli auspici di chi pur avendo a cuore queste preoccupazioni, voleva
però assecondare il desiderio di cambiamento, di svolta, e l’unica chance
risultò quella di dire la dottrina in modo nuovo ma non in modo infallibile, in
modo solenne sì ma non definitorio modo. Si tratta allora di fare un’adeguata
ermeneutica dell’insegnamento magisteriale? Di valutare separatamente ogni
singolo documento del Concilio? Sì è proprio qui, crediamo, che si nasconda
un’adeguata risposta alla domanda prima sollevata.
Nel Concilio, nella sua preparazione e nella sua esecuzione, i nodi vengono
presto al pettine: come affrontare le dottrine dogmatiche? Come parlarne? Certo
non in modo infallibile; ma il linguaggio teologico che ha di mira un fine
pastorale non poteva riguardare unicamente tematiche pastorali come Gaudium et
spes. Doveva confrontarsi anche con i temi legati al Deposito della fede. Si
desiderava un rinnovamento anche teologico e un’apertura alle nuove acquisizione
nei vari campi: biblico, patristico, liturgico, storico. La fede doveva
progredire, ma il Concilio non voleva assumere un carattere dogmatico, perché
sarebbe stato anacronistico. Questi due livelli si incrociano e danno adito
spesso ad equivoci. Questo, nella formazione grossomodo di due schieramenti
all’interno delle stesse Commissioni preparatorie, come nella stessa aula
conciliare, porterà poi ad un garbuglio che si riflette nel post-concilio: uno
smarrimento del “mistero Chiesa”. Sembra strano, eppure nonostante che il
Concilio abbia insistito sul mistero Chiesa, il post-concilio ha evidenziato una
carente visione teologica della Chiesa, bypassando lo stesso tenore del dettato
conciliare. Qui si vede che un pre-concilio passando dritto per il Concilio è
sfociato con accenti ancora più amari nel post-concilio. Il Concilio ha tentato
di arginare questa corrente (soprattutto renana convergente in quella romana: il
Reno nel Tevere) ma ha dato anche piena cittadinanza all’approfondimento – non
si poteva riprendere sic et simpliciter il dato manualistico e scolatistico di
una certa teologia – molto spesso nuovo ma per certi versi tendenziosamente a
discapito dell’antico, o letto, in nome della pastoralità post-conciliare, quasi
in opposizione ad esso.
Ora, c’è chi si appella alla pastoralità del Concilio per fare iniziare la
Chiesa dal Concilio; chi si appella alla dogmaticità del Concilio perché
Concilio Ecumenico e così salvarlo dalle dure invettive tradizionaliste, ma col
rischio di trasformare tutti i suoi documenti in dogmi; chi infine – come
riteniamo che sia più corretto – vede nel Concilio un progresso teologico
(dogmatico?, sì ma nel senso di progresso del dogma della fede e non nel senso
di infallibilità del dato approfondito in Concilio) da valutarsi con il metro
teologico e alla luce della scientificità teologica, in quanto magistero
autentico ordinario e non infallibile, suscettibile di miglioramenti, di
ulteriori approfondimenti come di verifica di questi quarant’anni o poco più di
rinnovamento conciliare.
Quello che risulta ora guardando il mistero-Chiesa, è senza dubbio un fatto: è
prevalsa la rottura e il nuovo inizio della Chiesa. Lo vediamo anche da altri
effetti collaterali, per così dire: il grande imbarazzo e l’avversione che ha
suscitato il Motu proprio “Summorum Pontificum” di Benedetto XVI, la levata di
scudi dinanzi alla remissione della scomunica ai Vescovi ordinati da Mons.
Lefebvre (perché se bisogna tanto occuparsi dell’ecumenismo, non bisogna tentare
anzitutto ogni strada per ricucire le fratture interne alla Chiesa?), un
crescente imbarazzo per la proclamazione di Pio XII venerabile. Dinanzi a questi
avvenimenti ci si chiede: era questo il senso della collegialità dei Vescovi
voluta dal Vaticano II? Non è forse vero che siamo dinanzi allo stesso punto di
partenza: come capire ed approfondire il rapporto giurisdizionale tra Romano
Pontefice e Collegio dei Vescovi?
Perché però, dopo tutto, ha prevalso la rottura? A questa domanda non si può
rispondere senza andare a quel “mysterium iniquitatis” che purtroppo
asservisce e regna.
Il Card. Suenens – Padre del rinnovamento pentecostale e non carismatico, come
amava definirsi – in un’intervista dichiarò:
«In Concilio ci siamo affidati docilmente allo Spirito Santo, e il
Concilio ci ha condotti là dove non volevamo andare, o almeno, non pensavamo
di andare…» .
Gesù, invece aveva detto che lo Spirito è come il vento: si sente la voce, ma
non si sa da dove viene e dove va (cf. Gv 3,8).
p. Serafino M. Lanzetta, FI