Viaggio in Iran. Dove anche
il catechismo
ha in copertina Khomeini
Camille Eid
La
diplomazia vaticana protesta. E la rivista internazionale del
patriarcato di Venezia, “Oasis”, n.2/2005, pubblica un reportage sulla
repressione dei cristiani in Iran.
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"Shim’on
pesar-e Yohana, àya mara mahabat mi nema’ì?", scandisce
il sacerdote leggendo il Vangelo in lingua farsi: "Simone,
figlio di Giovanni, mi ami tu davvero?". Per i fedeli e i
rappresentanti delle autorità dell’Iran riuniti nella
cattedrale caldea di Teheran per onorare la memoria di Giovanni
Paolo II, è una vera sorpresa. L’uso del farsi nelle
celebrazioni cristiane è, infatti, “vivamente sconsigliato”
dal governo, preoccupato di evitare la diffusione del verbo
cristiano tra i musulmani.
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"E invece l’uso
del farsi nella liturgia è un servizio di fede", protesta
monsignor Ramzi Garmou, arcivescovo cattolico caldeo della capitale
iraniana. "Noi non siamo al servizio di una determinata etnia,
bensì di tutta la nazione. Se ogni comunità religiosa dovesse
occuparsi solo del proprio gruppo etnico, cosa ne sarebbe domani della
Chiesa in Iran?".
Già, domanda pertinente. Cosa ne sarà della Chiesa in Iran? E cosa
ne è oggi? [...] Pur contestati da alcuni, i censimenti ufficiali
sono emblematici. Mentre la popolazione iraniana risulta quasi
raddoppiata negli anni della Repubblica Islamica, passando da 35 a 68
milioni di abitanti, il numero dei cristiani è drasticamente
diminuito, dal 5 all’1 per mille. Oggi, le stime più ottimistiche
danno un totale di circa 100 mila cristiani in Iran, di cui 80 mila
armeni gregoriani, 8 mila assiro-caldei cattolici e altrettanti
ortodossi, 5 mila protestanti, 2 mila cattolici latini e 500
armeno-cattolici.
Una verifica effettuata da un sacerdote cattolico a partire dai
registri ecclesiastici conferma tale drastico calo: "I matrimoni
celebrati nella mia diocesi negli anni 1976, 1986 e 1996 sono
rispettivamente 54, 20 e 13. I battesimi riferiti agli stessi anni
sono 150, 117 e 36. I funerali, infine, sono 93, 101 e 97".
Conclusione? "È una comunità a rischio estinzione".
"Questo calo – dice ancora l’arcivescovo Garmou – è dovuto
a un tasso di natalità più basso tra i cristiani, ma soprattutto a
un’emigrazione che si è accelerata dopo la rivoluzione islamica e
la guerra contro l’Iraq". Ovviamente, alla base di tale
fenomeno ci sono motivazioni umane, culturali, socio-economiche e
storiche. Ma l’appartenenza dei cristiani a delle minoranze che si
distinguono, oltre che per fede religiosa, anche per lingua e cultura,
li ha resi doppiamente stranieri agli occhi della popolazione.
Già ai tempi della monarchia, e nonostante la buona disposizione
dello scià, il discorso ufficiale nazionalista non favoriva certo la
loro integrazione. Ma la legislazione della rivoluzione islamica ha
reso tale integrazione ancor più difficile. L’articolo 13 della
costituzione precisa, è vero, che “gli iraniani zoroastriani, ebrei
e cristiani sono le uniche minoranze religiose riconosciute le quali,
nei limiti della legge, sono libere di compiere i propri riti
religiosi e cerimonie, e di agire secondo il proprio canone in materia
di affari personali e di istruzione religiosa”. Ma l’articolo 14,
pur sottolineando il dovere dello stato e di tutti i musulmani di “trattare
i non-musulmani in conformità con le norme etiche e i principi della
giustizia ed equità islamiche, e rispettare i loro diritti umani”,
ha cura di avvertire che “questo principio si applica a tutti coloro
che si astengono dal prendere parte a cospirazioni o attività contro
l’islam e la Repubblica Islamica dell’Iran”. L’articolo 19,
infine, afferma che “tutti gli iraniani, a qualsiasi gruppo etnico
appartengano, godono degli stessi diritti” e che “il colore, la
razza e la lingua non offrono alcun privilegio”. Alla religione
nessun riferimento.
"I diritti dei cristiani sono garantiti dalla costituzione. Il
punto è che spesso incontriamo difficoltà nella sua
applicazione", afferma monsignor Sebouh Sarkissian, di origine
siriana, da sei anni arcivescovo della Chiesa armeno-gregoriana di
Teheran, una carica che fa di lui il pastore della maggiore comunità
cristiana in Iran. "La nostra Chiesa, ad esempio, ha il diritto
di pronunciare sentenze di scioglimento del matrimonio, ma quando i
coniugi si recano ai pubblici uffici si vedono esigere dai giudici la
ripresa dell’iter processuale".
Gli chiedo se incontra problemi nella stampa e nella diffusione di
materiale religioso. "Niente affatto", risponde. "Ho
fatto stampare 32 mila copie del Vangelo e nessuno mi ha mai detto
nulla. Ovviamente, se il libro è in lingua farsi occorre un permesso.
Ogni anno pubblichiamo una decina di libri. Uno degli ultimi
ripercorre addirittura la storia dell’Armenia e il suo rapporto
conflittuale con la Persia di allora".
E fino a che punto il carattere etnico delle Chiese iraniane
rappresenta un handicap alla missione ecclesiale? "La nostra
preoccupazione è centrata sul mantenimento delle nostre
tradizioni", risponde. "Non incoraggiamo il proselitismo. La
testimonianza al Vangelo si riflette nella vita del cristiano prima
ancora che nella predica in chiesa. Noi non viviamo in Occidente. L’Iran
è, in fin dei conti, uno stato islamico e a noi spetta essere astuti,
come ci chiede Cristo".
Questa “astuzia”, bisogna riconoscerlo, ha in larga misura
risparmiato agli armeni la repressione subita dagli altri cristiani.
Ad esempio, essi sono riusciti a recuperare le loro scuole confiscate,
anche se hanno dovuto accettare la nomina governativa di direttori
musulmani. Non così è stato per la Chiesa latina, sospettata a lungo
di simpatia verso l’Occidente, le cui strutture religiose sono state
smantellate nei primi due anni della rivoluzione khomeinista: 14
scuole cattoliche chiuse (tra cui i prestigiosi istituti gestiti da
lazzaristi e salesiani), pensionati e dispensari confiscati, preti e
suore espulsi. "Siamo qui perché non è giusto che i cristiani
rimangano da soli", ci confida una suora straniera che vive in
Iran da parecchi anni. "Ci preme portare avanti l’essenziale
cristiano. Grazie a Dio assistiamo a un miglioramento della
situazione: lo stato è passato da un’aperta ostilità nei confronti
della Chiesa latina a una fase di addolcimento sotto Rafsanjani, poi a
una maggiore apertura sotto Khatami".
Come si traduce questa apertura? "I visti d’ingresso per il
clero sono ora più facili da ottenere, anche se vige ancora il numero
chiuso: un prete per ogni singola chiesa. Ovviamente, gli arrivi –
che si contano sulle dita di una mano – non sono in grado di
compensare le espulsioni del 1980 che hanno interessato l’85 per
cento del clero cattolico. Inoltre, i cristiani non vengono più
presentati dalle autorità, come prima, come minoranze ‘ospiti’ o
di passaggio".
Nessuno nega tuttavia che la Chiesa latina, oggi guidata dal vescovo
Ignazio Bedini, sia effettivamente al servizio di gente di passaggio:
membri del corpo diplomatico accreditato a Teheran e uomini d’affari
occidentali. A questi si aggiungono anche alcune famiglie
naturalizzate e i figli di coppie miste che sfidano – seppure non
pubblicamente – la norma della shari’a che prevede che i figli di
un musulmano debbano essere musulmani.
"Molti dei problemi che viviamo oggi se li sono procurati gli
stessi cristiani, per questioni di potere e di privilegio", dice
sconsolato un sacerdote cattolico. "Le singole Chiese hanno
coltivato nei secoli la loro forte connotazione etnica per
distinguersi e difendersi dall’islam. Ma anziché adoperarsi poi a
favore di una complementarietà a livello dei servizi ecclesiali,
hanno cercato di preservare al meglio i loro particolarismi e sono
finite per ostentare le loro divisioni".
Una via d’uscita dai particolarismi è l’ecumenismo. Chiedo a
monsignor Sarkissian come traduca a livello locale il suo impegno
ecumenico regionale e internazionale. "Propongo spesso ai miei
colleghi di tenere i nostri incontri in Iran", risponde.
"Nel 2001, il comitato esecutivo del Consiglio delle Chiese del
Medio Oriente (MECC) si è riunito qui a Teheran. Di nuovo, all’inizio
di quest’anno, i giovani cristiani del Medio Oriente hanno scelto l’Iran
per il loro raduno annuale. Senza contare i periodici incontri con i
capi delle altre Chiese cristiane: caldea, armeno-cattolica,
protestante e assiro-protestante".
Questo abbozzo di collaborazione non sembra aver risolto, però, tutti
i malintesi tra le diverse comunità. Monsignor Neshan Karakeheyan, di
origine greca, è dal febbraio 2001 vescovo della piccola comunità
armeno-cattolica, ridotta a sole 150 famiglie (e nessun prete) dopo la
partenza di parecchi fedeli per l’America e l’Europa. "I
gregoriani – lamenta – hanno approfittato della nostra assenza
temporanea per impadronirsi di una nostra scuola". Non ha chiesto
l’intervento del vescovo gregoriano? "Purtroppo egli non poteva
fare nulla perché, presso la comunità gregoriana, è il Majles-e
Melli, il consiglio di comunità costituito da laici, a prendere le
decisioni. Invece le altre due scuole le abbiamo recuperate grazie
alla mediazione del vescovo palestinese Hylarion Capucci, che
intrattiene buoni rapporti con l’Iran". I 700 studenti, tutti
armeni perché è vietato accogliere dei musulmani, seguono lezioni di
lingua armena e di catechismo oltre al curriculum ufficiale.
Un motivo di protesta comune a tutti i cristiani è proprio il
catechismo. Il libraio ci guarda con un’aria stupita quando ci vede
rastrellare tutte le versioni disponibili del Ketob-e Ta’limate Dini,
il manuale di religione a uso esclusivo delle minoranze non islamiche.
Sul frontespizio c’è sempre (così come nelle sale parrocchiali) la
foto dell’ayatollah Khomeini, segno del controllo esercitato dal
ministero dell’orientamento islamico (Ershad) sull’insegnamento
religioso. "Questo manuale è chiaramente sincretista",
assicura Mattia, un professore assiro-caldeo. "Nella scuola
iraniana l’islam permea tutte le materie, dalla letteratura alla
lingua. Nel catechismo, basta sostituire la parola Khoda (Dio, in
persiano) con Allah, Din (religione) con islam e Nabi (profeta) con
Mohammed per capire che si tratta di un’iniezione velata di islam
nelle ore di religione", che sono cinque nelle scuole elementari
e tre nelle medie. Mattia sottolinea anche che il voto all’esame di
religione è assegnato per metà dalla Chiesa e per l’altra metà
dal governo.
"Non siamo soddisfatti né del contenuto né dello stile a
domanda-risposta del libro", dice monsignor Garmou. "Questo
manuale è stato preparato all’indomani della rivoluzione
khomeinista in circostanze particolari e va perciò cambiato. È già
al lavoro su una nuova edizione un’équipe di esperti di quattro
Chiese. Ci auguriamo di ottenere il consenso delle autorità per
metterlo in circolazione già nel prossimo anno accademico".
Molti lamentano la poca preparazione dei professori assegnati all’insegnamento
religioso. "Alcuni – dice monsignor Karakeheyan – vogliono
solo arrotondare lo stipendio. Uno ha addirittura affermato davanti
agli studenti che Cristo non è Dio!".
L’islam non permea comunque solo le materie scolastiche, ma ogni
aspetto della vita in Iran. Accendi la tv e ti imbatti in pellegrini
sciiti che si battono il petto ascoltando la lamentosa narrazione dell’assassinio
dell’imam Hussein a Karbala. Alzi la cornetta del telefono in una
cabina pubblica e ascolti un’esortazione dello stesso imam che
recita: "Se non avete nessuna religione, abbiate perlomeno uno
spirito libero in questa vita". A Teheran, spiccano le
gigantografie dei “martiri” ed eroi della rivoluzione islamica:
Beheshti, Madani, Mofateh, ma anche l’egiziano Khaled Islambouli, l’autore
ufficiale dell’assassinio del presidente Anwar al-Sadat. Di fronte
alla centralissima cattedrale armena di San Sergio, in viale
Nejatollahi, un pannello raffigura il Mahdi, l’imam atteso degli
sciiti, in groppa a un cavallo. Sopra, una scritta afferma che “Cristo
tornerà insieme con il Mahdi a instaurare ovunque la giustizia”.
Nel cortile della cattedrale, un gruppo di giovani armeni è intento a
chiacchierare. Il sogno di tutti, o quasi, è di costruirsi un futuro
in Europa o in America. Solo Marina vorrebbe rimanere in Iran
"per non lasciare i genitori da soli".
Secondo molti interlocutori il sogno di andare altrove esprime la
situazione di una Chiesa ghettizzata e ridotta a sopravvivere in un’apparente
sterilità spirituale e apostolica, in un paese dove la libertà di
culto e di associazione è autorizzata solo all’interno dei luoghi
di culto. Monsignor Garmou non nasconde la sua preoccupazione circa le
ripercussioni della fuga dei cristiani dall’Iraq, suo paese d’origine,
sulla missione della Chiesa in Iran. "La Chiesa irachena
rappresenta per noi – dice – ciò che rappresenta il Libano per i
cristiani di Siria o di Giordania. Se le nostre retrovie cedessero,
cosa ne sarà di noi? ".
L’emigrazione tocca la piccolissima comunità nelle sue forze vive,
le élite e i giovani: oltre 10 mila partenze negli ultimi 25 anni. Le
sue conseguenze sono perciò gravi: invecchiamento e indebolimento
della comunità locale, difficoltà per i giovani di riuscire a
trovare un coniuge cristiano e calo delle vocazioni sacerdotali.
"Oggi, due nostri seminaristi si stanno formando a Roma e uno a
Parigi. Così, a luglio, celebreremo a Teheran la prima ordinazione da
molti anni e un nuovo sacerdote si unirà agli attuali quattro, che
sono un iraniano, un iracheno, un indiano e un francese. Malgrado
ciò, quanto cerchiamo di elaborare per i nostri giovani sembra
costruito sulla sabbia. Basta dare un’occhiata ai nomi cancellati
sulle nostre agende telefoniche per capire le dimensioni del
fenomeno".
La nota pessimistica è spazzata via sulle rive del fiume Zoyandeh-Rud,
a Isfahan. Nel vicino sobborgo di Nuova Giulfa vivono i discendenti
dei 20 mila cristiani deportati qui quattro secoli fa dall’Armenia
dallo Scià Abbas. Nel Vank, il monastero armeno terminato nel 1664,
incontriamo il giovane vescovo Papken Charian, giunto dal Libano solo
pochi mesi fa. "A Isfahan disponiamo di 12 chiese e altre 12 sono
sparse nel resto della diocesi: a Shiraz, Ahvaz e Abadan. Cerchiamo di
utilizzarle tutte per non rischiare la chiusura di quelle non
operative. Per lo stesso motivo, alcuni nostri fedeli vanno talvolta a
messa dal sacerdote lazzarista della chiesa latina di Isfahan, ormai
priva di una comunità".
Monsignor Charian mi accompagna nell’antica cappella detta di
Betlemme i cui affreschi ricordano da vicino l’arte rinascimentale
italiana. A pochi metri sorge il museo armeno dove sono custodite
importanti opere d’arte. "Durante le vacanze del Norouz, il
Capodanno persiano”, dice compiaciuto Charian, "ben 70 mila
visitatori musulmani hanno potuto ammirare la prima stamperia arrivata
in Iran e portata nel 1641 dall’armeno Khachadour Ghesaratzi, oltre
a quadri, antichi Vangeli, manoscritti e oggetti d’arte cristiana.
Con gli introiti del museo finanziamo la costruzione di alloggi per le
giovani coppie armene, per aiutarle a costruirsi un futuro qui".
Del rapporto con i musulmani, Charian dice che è buono:
"Contravvenendo alle norme, le autorità hanno ultimamente
nominato un direttore cristiano in una scuola armena. E noi
apprezziamo molto questo gesto".
Le opinioni sulla politica religiosa ufficiale sono comunque
divergenti. "Gli iraniani vogliono farsi belli sulla scena
internazionale", dice un diplomatico di stanza a Teheran.
"Si compiacciono nel ripetere che tre seggi del parlamento sono
riservati ai cristiani, due agli armeni e uno agli assiro-caldei,
nonostante il loro numero ridotto. Ma è il nocciolo duro del regime
ad esprimere le reali intenzioni degli ayatollah. Tutto il resto,
comprese le aperture fatte da Khatami, sono come fumo agli
occhi".
La speranza sta in un approccio diverso al rapporto religione-stato.
Un’indicazione in questo senso la trovo in un incontro pubblico
organizzato nella moschea di Hosseiniyeh Ershad da noti esponenti
liberali tra cui Mohsen Kadivar, Hashem Aghajari, Mostafa Badkoubehei,
Yussuf Eshkevari e Ali Shariati, molti dei quali hanno scontato
condanne al carcere per le loro idee riformiste. Apparentemente, l’incontro
intende illustrare l’operato di Giovanni Paolo II e la sua difesa
della libertà e dei valori umani, ma è chiaro che, nell’intenzione
degli organizzatori, c’è soprattutto la volontà di criticare il
sistema teocratico iraniano. "Sono un essere umano, ma per caso
sono anche iraniano – dice Eshkevari, parafrasando Rousseau – e la
condizione di tutti gli esseri umani è la libertà". Poi
aggiunge tra gli applausi: "Quando il potere si veste di
religione inizia la catastrofe. Quando il papa ha fatto il re ha
disonorato la religione".
L’incontro dà l’occasione di ripercorrere gli influssi cristiani
sulla cultura persiana. Tra il pubblico siede Jamaleddin, uno studente
universitario. Ha tracciato i suoi pensieri su un foglio:
"Giovanni Paolo II desiderava un mondo per tutti i popoli della
terra e per questo l’abbiamo amato anche noi. Il popolo iraniano non
vuole la guerra, ma il dialogo con tutti, indipendentemente dal loro
credo religioso". Un altro, di nome Mattia, dice: "Non
esiste in lingua farsi una terminologia cristiana, ma grazie alla sua
sensibilità, la poesia trecentesca del mistico Hafez di Shiraz aiuta
molti iraniani a conoscere il Dio-Amore del cristianesimo. La
rivoluzione islamica ha risvegliato presso molta gente una ricerca
profonda, ha fatto nascere in tanti degli interrogativi, quando hanno
visto che la guerra si faceva in nome di Dio".
In una chiesa semideserta di Teheran, la devozione di quattro ragazze
musulmane attira la mia attenzione. "Mi vergogno di aver
conosciuto Gesù Cristo così tardi", dice Negar, che lavora come
interprete. Parastoo dice di venire in chiesa una volta la settimana
"per trovare la pace". E come preghi? "Prego Hazrat
Mariam (la Madonna, ndr) dicendo: Signora della terra, io credo nel
tuo Dio, che è anche il mio, in tuo Figlio, Issa (Gesù), e nella tua
religione. Aiutami ad essere una brava persona e stai sempre al mio
fianco".
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