Ondata iconoclasta in una terra segnata da
guerre e massacri. I "Katchkar", cippi devozionali eretti in
aperta campagna, sono stati abbattuti dal governo dell’Azerbaigian.
Distrutte 3.000 lapidi. Un film clandestino ha portato il caso al
Parlamento europeo. Il governo azero respinge le accuse
Uno degli elementi più caratteristici dell'arte armena
antica sono i "khatchkar", letteralmente
"croci-pietre" ("khach", croce, "kar"
pietra). Si tratta di stele sulle quali sono raffigurati a bassorilievo
una croce, con o senza l'effigie di Cristo, fiancheggiata da scene
bibliche oppure da preghiere o versetti evangelici in antico armeno:
ricordiamo che l'Armenia è stato il primo stato a divenire ufficialmente
cristiano, nel 301, 12 anni prima dell'editto di Costantino. I "khatchkar"
venivano usati come lapidi tombali, ma più spesso anche come stele
votive, come segni di devozione: se ne trovavano decine, soprattutto ai
margini di strade e sentieri. Ma il Caucaso, di cui l'Armenia è parte,
non è solo un crogiuolo di nazionalità, di lingue (oltre 30) e di
religioni: cristianesimo ortodosso (Georgia, Ossezia), monofisita
(Armenia), islam sunnita (Nord-Caucaso, con la Cecenia) e sciita
(Azerbaigian), ma purtroppo è anche un concentrato di controversie, odii
e rivalità storiche di cui gli armeni sono stati assai spesso vittime. In
antico essi occupavano una regione più vasta di quella in cui sono
concentrati oggi. Al di fuori dell'Armenia essi vivono, per esempio, nel
Nagornyj Karabakh, enclave in territorio azerbaigiano, per il quale vi è
stata una sanguinosa guerra (per ora congelata).
Ma in antico gli armeni abitavano anche nel Nakhicevan, una regione oggi
appartenente all'Azerbaigian, ma separata da esso da territorio armeno.
Sono rimaste però importanti tracce dell'antica presenza armena, in
particolare le rovine della città di Julfà (o Jugà), distrutta nel 1605
dallo scià di Persia Abbas I che ne deportò gli abitanti, e poi risorta
nelle vicinanze come "Nuova Julfà". La città era famosa per i
suoi "khatchkar", risalenti al XV-XVI secolo, che ne
punteggiavano la periferia e si estendevano lungo la riva del fiume Arasse
che segna il confine fra il Nakhicevan (e quindi l'Azerbaigian) con
l'Iran. Un vero e proprio museo all'aperto che perfino lo scià Abbas
aveva rispettato. Ora però questo tesoro artistico è seriamente
minacciato. Il Nakhicevan, assegnato all'Azerbaigian da Lenin (e Stalin,
allora commissario alle nazionalità) nel 1922, è il feudo politico della
famiglia Aliyev che governa l'Azerbaigian fin dai tempi sovietici con il
padre Heyder, già capo del Pc e del Kgb locale, ed ora con il figlio
Ilham che ne ha ereditato i modi dittatoriali.
Ilham Aliyev ha deciso di farla finita con l'imbarazzante presenza armena
nel Nakhicevan, sia pure solo storica e pietrificata nei "khatchkar".
Queste sacre pietre, si è deciso a Bakù, devono scomparire. E così alla
fine del 2002 reparti dell'esercito azerbaigiano hanno incominciato a
distruggere il vecchio cimitero armeno nella zona di Julfà, compresi i
numerosi "khatchkar". Sull'area del cimitero è stato costruito
un poligono di tiro. Dei circa 10-12.000 "khatchkar" che
esistevano nel XVII secolo ne erano rimasti in piedi solo 3.000 che nel
2002 sono stati quasi totalmente abbattuti: se ne salvarono circa 200, per
lo più più gravemente danneggiati. Ma non basta: tra il dicembre 2005 e
il gennaio 2006 i militari azerbaigiani, circa 200 uomini, muniti di
bulldozer, sono intervenuti di nuovo riducendo in frantumi e spianando le
stele che in parte furono gettate nell'Arasse. Questo scempio è stato
documentato da un film ripreso clandestinamente da attivisti per la difesa
della cultura armena, appostati sulla riva opposta, quelle iraniana,
dell'Arasse.
Questa azione ha fatto sì che lo scempio dei "khatchkar", a
lungo ignorato dalla comunità internazionale, divenisse di dominio
pubblico. Nei mesi scorsi il Parlamento europeo a Strasburgo, per
interessamento, in particolare, di Mary-Ann Isler Begin, presidente della
Commissione parlamentare per la cooperazione Ue-Armenia, ha adottato una
risoluzione, redatta da Charles Tannock, membro britannico della "European
Neighborhood Policy", nella quale viene condannata la distruzione dei
monumenti armeni nel Nakhicevan. Anche Benit a Ferrero Waldner,
commissario europeo per le relazioni estere, ha sottolineato l'importanza
di coinvolgere il Sud-Caucaso (Transcaucasia) nella politica di "buon
vicinato" europeo, contribuendo ad appianare i conflitti e a favorire
il superamento delle tradizionali rivalità della regione. Un portavoce
del ministero degli esteri azerbaigiano, Tair Tagizadeh, ha respinto le
accuse affermando che il suo paese considera le stele di Julfà
"monumenti archeologici", ma, curiosamente, sostiene che non si
tratta di monumenti armeni, bensì relativi all'"Albania Caucasica",
stato sorto nella regione alla fine del I millenio a. C. e confluito poi
nella Persia sassanide.
I vandalismi azeri nel Nakhicevan dovrebbero indurre l'Europa a salvare la
cultura armena, da sempre paladina dei valori cristiani nella regione.
LA TESTIMONIANZA
Bulldozer all'opera, cristianesimo in frantumi
Antonia Arslan, su Avvenire 12
luglio 2006
I simboli della Passione segnavano il paesaggio abitato
dagli armeni, come chiese all'aperto o luoghi di memoria. Un nuovo
genocidio è in atto per cancellarli
C'è qualcosa di lugubre e di osceno nelle fotografie
della distruzione delle croci, come se guardando quelle immagini fossimo
investiti direttamente - e concretamente - dal vento di follia che spira
in tutta l'Europa, un vento che si abbatte furioso contro il cristianesimo
e contro i suoi simboli, fino a certe prese di posizione ridicole, da
gioco delle parti in una triste Commedia dell'Arte, che mai oserebbero
essere rivolte verso i simboli o le prescrizioni di altre religioni, come
per esempio l'uso musulmano di sgranare i rosari d'ambra o l'obbligo di
togliersi le scarpe entrando in una moschea.
Mio nonno, il patriarca Yerwant, ne aveva uno, di questi, e lo usava
spesso, sgranando i grani dagli opachi bagliori giallastri con movimenti
attraverso i quali noi bambini sapevamo interpretare benissimo il suo
umore, e spesso ce ne raccontava l'uso. Mai lo avrebbe usato
impropriamente, o ce lo avrebbe dato in mano per giocarci. Lo trattava con
lo stesso rispetto con cui maneggiava il bellissimo libro di preghiere in
caratteri armeni che teneva sul comodino, proibitissimo alle nostre dita,
o i tanti ricordi dei suoi malati che conservava invece in un suo
cassettino segreto, alcuni francamente ingenui, simili a goffi ex-voto, ma
che ci lasciava soltanto ammirare di lontano, perché - diceva - erano il
simbolo del cuore dei donatori.
Il simbolo della croce di Cristo pervade e connota il paesaggio urbano
dell'Europa intera, interpretato nei modi e nelle forme più diverse, dai
più grandi artisti ai più umili scalpellini, e il panorama delle nostre
città sarebbe irriconoscibile senza di esso, come quello delle grandi
città del Medio Oriente se fossero private dei loro minareti.
Ma le croci armene, i "khatchkar", non stanno sulle cime dei
campanili, non svettano alte e orgogliose: si allineano dovunque hanno
abitato gli armeni, l'una appresso all'altra, come a farsi compagnia e
coraggio, ai bordi dei campi e lungo le rive dei fiumi, o a centinaia nei
luoghi del ricordo: queste spoglie pietre rettangolari, secolo dopo secolo
piantate nella terra e scolpite con la croce, accompagnata spesso da
iscrizioni o da sculture di fiori e frutta, sono il simbolo della vita che
sorge dalla morte e della Resurrezione di Cristo.
Non sono pietre tombali, non sempre; sono ricordi carichi di storia, segni
che identificano un paesaggio come abitato dagli armeni, coltivato da
loro, disseminato dei simboli della loro antichissima fede. I campi di
"khatchkar" sono luoghi di suggestione infinita, come chiese
all'aperto, dove si rammemora e si innalzano preghiere come canti, non per
una singola persona ma per l'intero popolo dei morti, di coloro che sono
andati avanti sulla strada di Dio.
Gridano le migliaia di antichissime croci di pietra distrutte coi
bulldozer nel Nakhicevan, e da ogni frammento si alza il lamento di una
civiltà distrutta; e guardano atterriti gli armeni, dovunque la dura
legge della diaspora li abbia disseminati, l'irriconoscibile spianata
disseminata di irriconoscibili frantumi.
Al genocidio del sangue segue il genocidio della memoria.