«Croci Armene, SOS dal Caucaso»
Giovanni Bensi, su Avvenire 12 luglio 2006

Ondata iconoclasta in una terra segnata da guerre e massacri. I "Katchkar", cippi devozionali eretti in aperta campagna, sono stati abbattuti dal governo dell’Azerbaigian. Distrutte 3.000 lapidi. Un film clandestino ha portato il caso al Parlamento europeo. Il governo azero respinge le accuse


Uno degli elementi più caratteristici dell'arte armena antica sono i "khatchkar", letteralmente "croci-pietre" ("khach", croce, "kar" pietra). Si tratta di stele sulle quali sono raffigurati a bassorilievo una croce, con o senza l'effigie di Cristo, fiancheggiata da scene bibliche oppure da preghiere o versetti evangelici in antico armeno: ricordiamo che l'Armenia è stato il primo stato a divenire ufficialmente cristiano, nel 301, 12 anni prima dell'editto di Costantino. I "khatchkar" venivano usati come lapidi tombali, ma più spesso anche come stele votive, come segni di devozione: se ne trovavano decine, soprattutto ai margini di strade e sentieri. Ma il Caucaso, di cui l'Armenia è parte, non è solo un crogiuolo di nazionalità, di lingue (oltre 30) e di religioni: cristianesimo ortodosso (Georgia, Ossezia), monofisita (Armenia), islam sunnita (Nord-Caucaso, con la Cecenia) e sciita (Azerbaigian), ma purtroppo è anche un concentrato di controversie, odii e rivalità storiche di cui gli armeni sono stati assai spesso vittime. In antico essi occupavano una regione più vasta di quella in cui sono concentrati oggi. Al di fuori dell'Armenia essi vivono, per esempio, nel Nagornyj Karabakh, enclave in territorio azerbaigiano, per il quale vi è stata una sanguinosa guerra (per ora congelata).

Ma in antico gli armeni abitavano anche nel Nakhicevan, una regione oggi appartenente all'Azerbaigian, ma separata da esso da territorio armeno. Sono rimaste però importanti tracce dell'antica presenza armena, in particolare le rovine della città di Julfà (o Jugà), distrutta nel 1605 dallo scià di Persia Abbas I che ne deportò gli abitanti, e poi risorta nelle vicinanze come "Nuova Julfà". La città era famosa per i suoi "khatchkar", risalenti al XV-XVI secolo, che ne punteggiavano la periferia e si estendevano lungo la riva del fiume Arasse che segna il confine fra il Nakhicevan (e quindi l'Azerbaigian) con l'Iran. Un vero e proprio museo all'aperto che perfino lo scià Abbas aveva rispettato. Ora però questo tesoro artistico è seriamente minacciato. Il Nakhicevan, assegnato all'Azerbaigian da Lenin (e Stalin, allora commissario alle nazionalità) nel 1922, è il feudo politico della famiglia Aliyev che governa l'Azerbaigian fin dai tempi sovietici con il padre Heyder, già capo del Pc e del Kgb locale, ed ora con il figlio Ilham che ne ha ereditato i modi dittatoriali.

Ilham Aliyev ha deciso di farla finita con l'imbarazzante presenza armena nel Nakhicevan, sia pure solo storica e pietrificata nei "khatchkar". Queste sacre pietre, si è deciso a Bakù, devono scomparire. E così alla fine del 2002 reparti dell'esercito azerbaigiano hanno incominciato a distruggere il vecchio cimitero armeno nella zona di Julfà, compresi i numerosi "khatchkar". Sull'area del cimitero è stato costruito un poligono di tiro. Dei circa 10-12.000 "khatchkar" che esistevano nel XVII secolo ne erano rimasti in piedi solo 3.000 che nel 2002 sono stati quasi totalmente abbattuti: se ne salvarono circa 200, per lo più più gravemente danneggiati. Ma non basta: tra il dicembre 2005 e il gennaio 2006 i militari azerbaigiani, circa 200 uomini, muniti di bulldozer, sono intervenuti di nuovo riducendo in frantumi e spianando le stele che in parte furono gettate nell'Arasse. Questo scempio è stato documentato da un film ripreso clandestinamente da attivisti per la difesa della cultura armena, appostati sulla riva opposta, quelle iraniana, dell'Arasse.

Questa azione ha fatto sì che lo scempio dei "khatchkar", a lungo ignorato dalla comunità internazionale, divenisse di dominio pubblico. Nei mesi scorsi il Parlamento europeo a Strasburgo, per interessamento, in particolare, di Mary-Ann Isler Begin, presidente della Commissione parlamentare per la cooperazione Ue-Armenia, ha adottato una risoluzione, redatta da Charles Tannock, membro britannico della "European Neighborhood Policy", nella quale viene condannata la distruzione dei monumenti armeni nel Nakhicevan. Anche Benit a Ferrero Waldner, commissario europeo per le relazioni estere, ha sottolineato l'importanza di coinvolgere il Sud-Caucaso (Transcaucasia) nella politica di "buon vicinato" europeo, contribuendo ad appianare i conflitti e a favorire il superamento delle tradizionali rivalità della regione. Un portavoce del ministero degli esteri azerbaigiano, Tair Tagizadeh, ha respinto le accuse affermando che il suo paese considera le stele di Julfà "monumenti archeologici", ma, curiosamente, sostiene che non si tratta di monumenti armeni, bensì relativi all'"Albania Caucasica", stato sorto nella regione alla fine del I millenio a. C. e confluito poi nella Persia sassanide.

I vandalismi azeri nel Nakhicevan dovrebbero indurre l'Europa a salvare la cultura armena, da sempre paladina dei valori cristiani nella regione.

LA TESTIMONIANZA

Bulldozer all'opera, cristianesimo in frantumi
Antonia Arslan, su Avvenire 12 luglio 2006

I simboli della Passione segnavano il paesaggio abitato dagli armeni, come chiese all'aperto o luoghi di memoria. Un nuovo genocidio è in atto per cancellarli

C'è qualcosa di lugubre e di osceno nelle fotografie della distruzione delle croci, come se guardando quelle immagini fossimo investiti direttamente - e concretamente - dal vento di follia che spira in tutta l'Europa, un vento che si abbatte furioso contro il cristianesimo e contro i suoi simboli, fino a certe prese di posizione ridicole, da gioco delle parti in una triste Commedia dell'Arte, che mai oserebbero essere rivolte verso i simboli o le prescrizioni di altre religioni, come per esempio l'uso musulmano di sgranare i rosari d'ambra o l'obbligo di togliersi le scarpe entrando in una moschea.

Mio nonno, il patriarca Yerwant, ne aveva uno, di questi, e lo usava spesso, sgranando i grani dagli opachi bagliori giallastri con movimenti attraverso i quali noi bambini sapevamo interpretare benissimo il suo umore, e spesso ce ne raccontava l'uso. Mai lo avrebbe usato impropriamente, o ce lo avrebbe dato in mano per giocarci. Lo trattava con lo stesso rispetto con cui maneggiava il bellissimo libro di preghiere in caratteri armeni che teneva sul comodino, proibitissimo alle nostre dita, o i tanti ricordi dei suoi malati che conservava invece in un suo cassettino segreto, alcuni francamente ingenui, simili a goffi ex-voto, ma che ci lasciava soltanto ammirare di lontano, perché - diceva - erano il simbolo del cuore dei donatori.

Il simbolo della croce di Cristo pervade e connota il paesaggio urbano dell'Europa intera, interpretato nei modi e nelle forme più diverse, dai più grandi artisti ai più umili scalpellini, e il panorama delle nostre città sarebbe irriconoscibile senza di esso, come quello delle grandi città del Medio Oriente se fossero private dei loro minareti. Ma le croci armene, i "khatchkar", non stanno sulle cime dei campanili, non svettano alte e orgogliose: si allineano dovunque hanno abitato gli armeni, l'una appresso all'altra, come a farsi compagnia e coraggio, ai bordi dei campi e lungo le rive dei fiumi, o a centinaia nei luoghi del ricordo: queste spoglie pietre rettangolari, secolo dopo secolo piantate nella terra e scolpite con la croce, accompagnata spesso da iscrizioni o da sculture di fiori e frutta, sono il simbolo della vita che sorge dalla morte e della Resurrezione di Cristo.

Non sono pietre tombali, non sempre; sono ricordi carichi di storia, segni che identificano un paesaggio come abitato dagli armeni, coltivato da loro, disseminato dei simboli della loro antichissima fede. I campi di "khatchkar" sono luoghi di suggestione infinita, come chiese all'aperto, dove si rammemora e si innalzano preghiere come canti, non per una singola persona ma per l'intero popolo dei morti, di coloro che sono andati avanti sulla strada di Dio.

Gridano le migliaia di antichissime croci di pietra distrutte coi bulldozer nel Nakhicevan, e da ogni frammento si alza il lamento di una civiltà distrutta; e guardano atterriti gli armeni, dovunque la dura legge della diaspora li abbia disseminati, l'irriconoscibile spianata disseminata di irriconoscibili frantumi.

Al genocidio del sangue segue il genocidio della memoria.

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