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Intervento del Prof. Roberto de Mattei a Radio Maria, 16 marzo 2011

Riflessioni sul mistero del male

I parte

Cari amici di Radio Maria,

vorrei fare questa sera con voi alcune riflessioni che partono da fatti drammatici di attualità.

Il primo fatto è la tragedia del Giappone: lo spaventoso terremoto e maremoto, con il rischio nucleare che si profila.

Il secondo è l’acuirsi delle persecuzioni anticristiane recentemente culminate nell’assassinio del ministro pakistano Shahbaz Bhatti.

In entrambi i casi ci troviamo di fronte al problema del dolore e del male. Ma con una fondamentale differenza. La sofferenza che consegue alle catastrofi naturali, come in Giappone, è indipendente dalla volontà dell’uomo, l’uomo la subisce non la sceglie.

Le sofferenze di chi è perseguitato invece non sono mali fisici provenienti dalle forze della natura. Sono mali provenienti dalle azioni di altri uomini. Sono mali fisici conseguenza di mali morali. Non c’è male morale nel terremoto giapponese. C’è male morale nell’uccisione del ministro pakistano. C’è male morale, ovvero c’è volontà deliberata di commettere un atto terroristico, c’è il terrore come scelta, c’è l’odio, c’è il fanatismo. Le passioni disordinate del cuore umano sono alle origini delle persecuzioni.

Non c’è male morale nel terremoto perché il terremoto viene dalla natura, che è in sé buona, è creata da Dio e se Dio permette i terremoti e altre sciagure esistono ragioni che Egli conosce e che noi non conosciamo.

Per questo dobbiamo combattere i persecutori, per evitare le persecuzioni, e invece accettare la volontà di Dio dinanzi alle catastrofi naturali, pur facendo tutto quanto è in nostro potere per evitarle. Il male morale va combattuto, in noi stessi innanzitutto, e poi nel prossimo, mentre il male fisico va accettato, nella misura in cui è indipendente dalla nostra volontà.

Invece oggi c’è la tendenza ad assuefarci alle persecuzioni, a considerarle quasi come eventi naturali ineluttabili, e, al contrario, quando accadono le catastrofi naturali a rifiutarne l’imponderabilità cercando sempre i responsabili, rifiutando l’idea che qualche cosa possa sfuggire al controllo dell’uomo. Su questo punto vi suggerisco di leggere un articolo di Corrado Gnerre apparso sull’agenzia “Corrispondenza Romana”: lo potete trovare su Internet, cercando l’ultimo numero di Corrispondenza Romana.

Cosa dice Gnerre? Dice che “l’uomo di oggi vive come se Dio non esistesse e quindi è portato ad osservare e a ritenere la vita in cui agisce come un palcoscenico in cui egli è tanto attore quanto autore della trama. Si tratta di un rifiuto dell’imponderabilità intesa come imprevedibilità. Può esserci qualcosa che sfugga alla capacità umana di ordinare e programmare? Questa eventualità è rifiutata dall’uomo contemporaneo che ama leggere la realtà con una prospettiva utopica, nella convinzione che nella forza dell’uomo e del suo pensiero il mondo possa essere totalmente trasformato, eliminando da esso ogni imperfezione e ogni incidente. La conseguenza di questo errore è però una duplice contraddizione.

La prima di carattere culturale: da una parte, l’uomo può risolvere tutto; dall’altra, lo stesso uomo può errare, se è vero che poi si va alla ricerca ossessiva del colpevole. E ancora: la tecnica può redimere l’uomo, ma la stessa tecnica può fallire, se è vero che si ricerca sempre il cosiddetto “errore tecnico”.

La seconda contraddizione è di carattere antropologico: nella prospettiva utopica di onnipotenza umana non c’è spazio per un dio che giudica, che esige e che condanna gli errori umani; eppure il perfezionismo utopico non tollera gli erranti, condannandoli a mo’ di capri espiatori da sacrificare a beneficio dell’ideologia della ‘nessuna-imprevedibilità-sulla-faccia-della-terra’”.

L’imponderabile, l’imprevedibile, è ciò che non può essere previsto e programmato dagli uomini. L’imponderabile esiste, fa parte della nostra vita. Ma l’imponderabile non è il caso. Il caso, che è l’assenza di significato degli eventi, non esiste. Dobbiamo ripetere con forza che il caso non esiste: tutto ciò che accade, nella nostra vita e in quella dell’universo, ha un significato. Il fatto che noi non comprendiamo il significato di tutto ciò che accade, non significa che vi sia qualcosa priva di significato. Solo Dio conosce il significato di ogni cosa, attribuisce a ogni cosa il suo significato. Pretendere di conoscere il significato di tutto significa voler essere Dio, farci Dio noi stessi; e significa negare l’esistenza di un Dio creatore e regolatore dell’universo: perché Dio non crea l’universo per poi abbandonarlo, ma lo conserva nell’essere, lo guida al suo fine, dà significato a tutto il creato, nulla escluso. Se Dio è la causa prima dell’universo, l’origine e il fine ultimo di tutte le cose, nulla sfugge alla sua potenza e al suo governo. Tutto ciò che esiste è da Lui creato, amato e condotto al suo fine: in una parola tutto ciò che esiste e accade è raccolto nelle mani della Divina Provvidenza. Lo dice il Vangelo quando afferma che tutti i nostri capelli del nostro capo sono contati. Se qualche cosa potesse sfuggire all’azione creatrice e conservatrice di Dio, Dio non sarebbe tale.

La grandezza della Divina Provvidenza si manifesta soprattutto nella capacità di Dio di trarre il bene dal male fisico e morale dell’universo, quel male che egli non causa, ma che permette per un fine superiore. Non è che Dio subisca il male: se volesse potrebbe fare in modo che non accada e spesso interviene per evitarlo; ma altre volte preferisce permettere l’esistenza del male per realizzare il bene attraverso quel male. Si pensi solo al male enorme del peccato originale, che Dio non voleva, ma che ha permesso che avvenisse, per trarne il bene immenso dall’Incarnazione.

Per comprendere l’azione della Provvidenza, che dà una ragione a tutto ciò che avviene, anche alle tragedie, come i terremoti, bisogna però avere una prospettiva soprannaturale: la prospettiva di chi crede nell’esistenza di un Dio creatore e rimuneratore della vita eterna.

Chi nega Dio, gli atei e i laicisti militanti, ma anche coloro che pur non professando l’ateismo vivono di fatto nell’ateismo pratico, non può concepire l’idea della Provvidenza.

Il 1° novembre del 1755, un terribile terremoto del 9° grado della scala Richter, colpì Lisbona, capitale del grande Impero portoghese, e la rase al suolo. Lisbona era uno dei più influenti centri europei dell’Illuminismo: si parlò di castigo divino e il capo degli illuministi, Voltaire, scese in campo con un Poema sul disastro di Lisbona pieno di invettive contro l’idea di Provvidenza divina. Voltaire, in quello scritto, chiede provocatoriamente: “Ai deboli lamenti di voci moribonde, alla vista pietosa di ceneri fumanti, direte: è questo l’effetto delle leggi eterne che a un Dio libero e buono non lasciano la scelta? Direte, vedendo questi mucchi di vittime: fu questo il prezzo che Dio fece pagare per i loro peccati? Quali peccati, quali colpe hanno commesso questi infanti sul seno materno schiacciati e sanguinanti?”.

Si aprì da allora un dibattito filosofico che non si è mai spento e che riemerse con un altro terribile terremoto, quello che il 28 dicembre del 1908 distrusse la città di Messina, facendo quasi centomila vittime.

Mons. Orazio Mazzella, (1860-1939) arcivescovo di Rossano Calabro, all’indomani della tragedia fece una serie di riflessioni che vi riassumo (La provvidenza di Dio, l'efficacia della preghiera, la carità cattolica ed il terremoto del 28 di Dicembre 1908: cenni apologetici, Desclée e C., Roma 1909).

In primo luogo le grandi catastrofi sono una voce terribile ma paterna della bontà di Dio, che ci scuote e ci richiama col pensiero ai nostri grandi destini, al fine ultimo della nostra vita, che è immortale.

Infatti se la terra non avesse pericoli, dolori, catastrofi, eserciterebbe sopra di noi un fascino irresistibile, non ci accorgeremmo che essa è un luogo d'esilio, e dimenticheremmo troppo facilmente, che noi siamo cittadini del cielo. Scrive mons. Mazzella:

“Come quei viaggiatori che, passando per una regione incantevole ove tutto è azzurro di cielo, sorriso di prati, trasparenza di onde tranquille, provano il desiderio di fermarsi, di abbandonarsi ad un dolce riposo, e sentono meno vivo il tormento della patria lontana, cosi noi sotto un cielo sempre senza nubi, alla riva di un mare senza tempeste, sopra una terra che mai tremasse, saremmo colpiti da un sonno dolce, ma fatale nell'oblio delle nostre immortali speranze. Le grandi catastrofi sono la voce di Dio, che ci sveglia dal sonno letale, e ci fa pensare alla patria lontana; sono, dirò meglio, il cerchio di ferro, col quale Dio ci stringe per farci sentire che la terra è angusta per noi e non è che luogo di passaggio per la nostra anima immortale. La terra ci attira, perché ci attira il piacere”. Quando la terra trema, l’uomo riscopre la fragilità delle cose terrene e solleva lo sguardo dalla terra al Cielo.

Mons. Mazzella ricorda “che la sera precedente al famoso terremoto del 1908, un medico, spirito forte in tempo tranquillo, bestemmiava sulle cose più sante: durante la notte la terra trema, ed il medico è il primo a gridare preghiere e voti a san Francesco di Paola!”. Ciò fu il principio di una conversione che non sarebbe potuta avvenire senza la tragedia.

In secondo luogo, osserva l’arcivescovo di Rossano Calabro, le catastrofi sono talora esigenza della Giustizia di Dio, della quale sono giusti castighi.

Alla colpa del peccato originale si aggiungono infatti, nella nostra vita, le nostre colpe personali; nessuno di noi è immune dal peccato e può dirsi innocente e le nostre colpe possono essere personali o collettive: possono essere le colpe di un singolo o quelle di un popolo: ma mentre Dio premia o castiga i singoli nell’eternità è sulla terra che premia o castiga le nazioni, perché le nazioni non hanno vita eterna, hanno un orizzonte terreno.

Nessuno può dire con certezza se il terremoto di Messina o quello del Giappone sia stato un castigo di Dio. Sicuramente è stata una catastrofe e, dice mons. Mazzella, “la catastrofe è un fenomeno naturale, che Dio ha potuto introdurre nel suo piano di creazione per molteplici fini, degni della sua sapienza e bontà. Ha potuto farlo per raggiungere un fine della stessa natura, ottenendo per mezzo di una catastrofe un bene fisico più generale, come quando con una tempesta di venti, che produce danni, si purifica l'aria: ha potuto farlo per un fine di ordine morale, come, per esempio, acuire il genio dell'uomo, eccitarlo a studiare la natura per difendersi dalla sua potenza distruggitrice, e così determinare un progresso della scienza; ha potuto farlo per uno dei fini per i quali la fede ci dice, che talora l'ha fatto, come sarebbe quello d'infliggere ad una città un esemplare castigo: ha potuto farlo per un fine a noi ignoto. Per quale fine in concreto Dio ha operato in un caso speciale? Per quale fine Messina e Reggio sono state distrutte? Chi potrebbe dirlo? E possibile fare delle congetture, non è possibile affermare alcuna cosa con certezza. Intanto per noi, al nostro scopo, basta la sicurezza, che le catastrofi possono essere, e talora sono esigenza della giustizia di Dio”.

Ora questo concetto che Dio, talora, si serva delle grandi catastrofi per raggiungere un fine alto della sua giustizia, si trova in tutte le pagine della Bibbia. Che cosa furono il diluvio, il fuoco caduto su Sodoma e Gomorra e quello che non si abbatte su Ninive, se non castighi di Dio?

Ma – si dice – la catastrofe è cieca, punisce il colpevole, e colpisce l'innocente; come si conciliano colla Provvidenza queste stragi dell'innocenza e della virtù? La risposta è che Dio non potrebbe fare in modo che un terremoto colpisca il colpevole e rispetti l'innocente, senza moltiplicare miracoli, o modificare profondamente il piano della creazione divina. Senza dubbio talvolta Iddio salva l'innocente operando un miracolo; ma Dio non è obbligato a moltiplicare i miracoli, o a rinunziare al piano della sua creazione per salvare la vita di un innocente.

Dio, inoltre, è padrone della vita e della morte, misura i giorni dell'uomo sulla terra, e stabilisce l'ora e il modo della morte di ciascuno. Quindi l'innocente che muore sotto una catastrofe generale che punisce i colpevoli, si trova nelle stesse condizioni, nella quale si trovano tutti gli innocenti, che sono sorpresi dalla morte: per loro questa morte non è un castigo di colpa personale, ma è l'esecuzione di un decreto di colui, che è il padrone della vita e della morte.

Ogni giorno vediamo fanciulli innocenti, uomini virtuosi che muoiono di morte naturale o violenta, perché meravigliarsi quando vediamo molti innocenti morire sotto le rovine di un terremoto? La loro morte, presa isolatamente, non è diversa da quella di tanti uomini innocenti e virtuosi, che sono vittime di un accidente, e muoiono ad esempio, schiacciati da una macchina, investiti da un treno.

Terzo punto infine: le grandi catastrofi sono spesso una benevola manifestazione della misericordia di Dio.

Abbiamo detto infatti che nessuno, mettendosi la mano sulla coscienza, potrebbe dare a se stesso un certificato d'innocenza. Un giorno, quando il velo, che copre l'opera della Provvidenza, sarà sollevato, ed alla luce di Dio vedremo ciò che Egli avrà operato ne' popoli e nelle anime, ci accorgeremo che per molte di quelle vittime, che compiangiamo oggi, il terremoto è stato un battesimo di sofferenza che ha purificato la loro anima da tutte le macchie, anche le più lievi, e grazie a questa morte tragica la loro anima è volata al cielo prima del tempo perché Dio ha voluto risparmiarle un triste avvenire.

“Noi – scrive mons. Mazzella – pensiamo con raccapriccio a quei momenti terribili passati da loro tra la vita e la morte sotto le rovine, ma forse appunto in quei momenti discese su quelle anime il torrente di una speciale misericordia di Dio, sotto forma di profonda contrizione e rassegnazione. Chi può dire ciò che è passato tra quelle anime e la misericordia di Dio negli ultimi momenti? Chi sa quali slanci Dio, misericordioso e buono, nelle terribili sofferenze ha toccato i loro cuori per unirli a lui? Chi potrebbe, in una parola, scandagliare l'abisso di espiazione, di merito e di doni di Dio, che in quelle anime fu scavato per occasione del terremoto?”.

Non si tratta di pie illusioni. Sta scritto che nella tribolazione Dio rimette più facilmente i peccati (Tobiae, III, i3) e versa più abbondantemente i suoi doni (Nahum, I, 7), perché Dio manda la morte prematura agli innocenti per liberarli da triste avvenire.

Davanti alle grandi catastrofi noi vediamo la superficie delle cose e non la loro intima sostanza: vediamo la potenza livellatrice del cataclisma, ma non vediamo il disegno di Dio nascosto sotto la forza cieca della natura.

Questo disegno divino non è sempre uguale: talora è mistero di giustizia, talora è mistero di misericordia, ma sempre è mistero degno di un'infinita sapienza e di un'infinita bontà.

Qualcuno dirà che il terremoto è un fenomeno di natura, risultato di forze fatali, perché governate da leggi precise e costanti, e che per questo non può esser legato alle esigenze variabili della giustizia o della misericordia di Dio. È vero, ma Dio è l'autore dell'universo con le sue forze e con le sue leggi. Chi potrebbe negare a Lui la scienza e la potenza di disporre il meccanismo delle forze e delle leggi della natura in modo da produrre un fenomeno secondo le esigenze della sua giustizia o della sua misericordia? Dio sa tutto, può tutto, è infinitamente buono: è per questo che la sua Provvidenza trae il bene da ogni male, piccolo o grande che sia.

Le grandi catastrofi sono certamente un male, però non sono un male assoluto, ma un male relativo, dal quale sorgono beni di ordine superiore e più universali. La luce della fede ci insegna che le grandi catastrofi, o sono un richiamo paterno della bontà di Dio, o sono esigenze della divina giustizia, che infligge un castigo meritato, o sono un tratto della divina misericordia, che purifica le vittime aprendo loro le porte del Cielo. Perché il Cielo è il nostro destino eterno.

II parte

Gli eventi naturali catastrofici si succedono negli ultimi anni. Non si è ancora spento il ricordo dello tsunami che ha flagellato le coste dell’Indonesia che ora giungono le terribili notizie dal Giappone. Ci chiediamo se c’è un messaggio di Dio in questi eventi. E quale?

È curioso che al centro di questi eventi sia sempre, almeno per ora, l’Oriente. Significherà anche questo qualcosa? Non sarà come un vento che prima di abbattersi in Occidente soffia da Oriente, come supremo monito all’Occidente? La tradizione dice che Gesù, morendo in Croce, volgesse lo sguardo all’Occidente, all’Europa, alla terra privilegiata che avrebbe dovuto diffondere il suo Vangelo nel mondo, che avrebbe dovuto ospitare la Cattedra di Pietro.

I cristiani continuano a essere perseguitati in Cina e in India, i due Stati più popolati del mondo, i Paesi considerati emergenti nell’economia mondiale: in India da parte dei fondamentalisti indù in numerosi Stati, come l’Orissa e il Kandhamal, in Cina da parte dello Stato comunista; nei Paesi arabi da parte dei Fratelli Musulmani.

Sono passati quasi cent’anni, ma il massacro dei cristiani pare non avere fine in Iraq, dove l’assalto terroristico contro la chiesa siro-cattolica di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso, avvenuto a Baghdad il 31 ottobre 2010, è l’apice di una serie di attentati, che non risalgono al dopo Saddam, ma che già avvenivano sotto di lui. Tra le quarantasei vittime di Baghdad, anche il sacerdote che celebrava la Messa, Thair Abd-Al, 32 anni, e l’altro che confessava, Wasim al-Kas Butros, 29 anni; ad essi vanno aggiunti il sacerdote caldeo Ragheed Ganni, 35 anni, assassinato a sangue freddo insieme con tre suddiaconi a Mosul il 3 giugno 2007; l’arcivescovo caldeo Paulos Farj Rahho, trovato morto il 13 marzo 2008 dopo due settimane di sequestro.

Il martirio è una realtà quotidiana anche per i cristiani d’Egitto, dove il 2011 si è aperto con l’attentato alla chiesa dei Santi di Alessandria che ha provocato ventitré morti e settantasette feriti. Un anno prima, nella notte fra il 6 e il 7 gennaio 2010, tre uomini aprirono il fuoco sui fedeli che uscivano dalla messa di Natale a Nagaa Hammadi, nell’Alto Egitto. Commentando l’accaduto, il patriarca Shenouda III parlò di mille e ottocento omicidi di cristiani negli ultimi trent’anni, mai giudicati e tantomeno puniti, e di duecento atti di vandalismo contro i loro beni.

Ma voglio soffermarmi soprattutto sull’ultimo episodio, l’assassinio di Shalbaz Bhatti, il ministro pakistano per le Minoranze ucciso il 2 marzo 2011 a colpi d’arma da fuoco a Islamabad, la capitale del Pakistan. Aveva 42 anni ed era l’unico cristiano presente nell’esecutivo di quel Paese musulmano. Tre mesi fa, Shahbaz Bhatti aveva previsto la sua fine in un video testamento registrato a futura memoria. Questo documento è reperibile su Internet. Io voglio leggere questa toccante testimonianza del ministro pakistano, per farmi eco, con la mia voce, della sua e per ritrasmetterla a voi, cari amici di Radio Maria, così come lui l’ha voluta trasmettere attraverso la telecamera.

“Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia. Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdi di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico. Mi è stato richiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è cosi forte in me che mi considererei privilegiato qualora – in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan- Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, finchè avrò vita, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri. Vedo che i cristiani del mondo hanno teso la mani ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005 abbiano costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere il cuore e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione. Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani qualunque sia la loro religione vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù e io potrò guardarLo senza provare vergogna”.

Queste sono le parole di un cristiano: non sono solo parole: sono parole imbevute di sangue, di quel sangue che, diceva Tertulliano, è fecondo perché è seme di cristiani e c’è da credere che l’assassinio di Bhatti non spegnerà, ma ravviverà la fede cristiana in Oriente, come sempre è accaduto in seguito alle persecuzioni. Ma il fatto che le persecuzioni producano martiri e i martiri aprano la strada alla conversione dei popoli non ci deve dar dimenticare che triste è la sorte dei persecutori, in questa terra e nell’altra, come hanno affermato i grandi scrittori cristiani dell’antichità, che hanno richiamato i persecutori alle loro terribili responsabilità dinanzi a Dio.

Dobbiamo affermare che le persecuzioni non sono eventi naturali, come i terremoti e i maremoti dietro le persecuzioni ci sono uomini, imbevuti di odio e di false ideologie o false religioni, dietro agli uomini ci sono questi sistemi religiosi o ideologici che si chiamano induismo, islamismo, comunismo.

Il Cristianesimo è la religione più perseguitata nel mondo, ma nel mondo il Cristianesimo non perseguita nessuno. In nome dell’induismo i cristiani vengono perseguitati, in nome dell’islamismo i cristiani vengono perseguitati, in nome del comunismo i cristiani vengono perseguitati, in nome del laicismo i cristiani vengono perseguitati.

Il laicismo perseguita i cristiani in Occidente; in maniera incruenta, in maniera dolce, ma non meno terribile, attraverso l’emarginazione e l’isolamento morale, che prepara la strada alla condanna giudiziaria, come già sta avvenendo in alcuni Paesi per chi critichi apertamente le false religioni o la violazione dell’ordine morale o voglia esporre pubblicamente i propri simboli religiosi. Per questo a mio parere il nome del ministro pakistano Shalbaz Bhatti va iscritto nell’albo dei martiri, accanto a quello di un altro uomo politico martire, il presidente dell’Ecuador Gabriel García Moreno. Shalbaz Bhatti è stato vittima dell’Islam, all’alba del XXI secolo; García Moreno fu vittima del laicismo massonico, in America Latina, nell’Ottocento. Entrambi sono stati testimoni di Cristo. Per chi non conosce il nome di García Moreno, ricordiamo che, nato nel 1821, fu professore, giornalista, sindaco di Quito, senatore e rettore dell’Università, finché nel 1861 fu proclamato Presidente della piccola nazione sudamericana dell’Ecuador. La sua azione spirituale e morale culminò nel 1873, in pieno accordo con l’episcopato nazionale e con entrambe le camere legislative, nell’atto di Consacrazione del Paese al Sacro Cuore di Gesù. García Moreno convinse l’arcivescovo di Quito José Ignacio Checa, a convocare l’episcopato per fare una prima solenne consacrazione della nazione, che avvenne il 30 agosto 1873. García la sanzionò ufficialmente con un decreto governativo e poi, il 25 marzo 1874, nella cattedrale di Quito, in qualità di Capo di Stato, egli stesso pronunciò la consacrazione, proclamando l’Ecuador “Repubblica del Sacro Cuore”.

Lo scopo soprannaturale dell’iniziativa era chiaro: instaurare un nuova economia di grazie fra Cristo e la nazione ecuadoriana per portarla ai vertici morali. L’atto, che voleva anche riparare in una certa misura la mancata consacrazione della Francia al Cuore di Gesù, chiesta da Nostro Signore a Luigi XIV per mezzo di santa Margherita Maria Alacocque, fu poi imitato da diversi altri Paesi latinoamericani e infine dalla stessa Spagna.

Con questo atto García Moreno voleva spingere il suo popolo a riparare alle proprie colpe passate e avviare lo Stato verso una riforma cristiana delle proprie istituzioni. Fu proprio per questo che la Massoneria ordinò di assassinare i promotori della Consacrazione. Quando, il 13 aprile 1873 García Moreno ottenne la consacrazione del suo Paese, al Sacro Cuore di Gesù, la sua fama si sparse in tutto il mondo, ma al plauso dei cattolici fecero eco le minacce e le intimidazioni delle forze liberalmassoniche. Tutta la stampa liberale sudamericana reclamò la testa del “tiranno”. Subì un primo attentato. Prima ancora che giungesse la notizia che il colpo era andato a vuoto, la stampa dell’America Latina pubblicò il necrologio del Presidente dell’Ecuador. Le veline erano già pronte lo stesso giorno dell’agguato. A chi gli suggeriva di circondarsi di una scorta, García Moreno rispondeva che non avrebbe avuto modo di proteggersi dalla scorta stessa. Così arrivò al 6 agosto 1875. Nonostante le voci che già circolavano insistentemente di un complotto per assassinarlo, García Moreno fece tutto il tragitto a piedi, senza scorta, dalla Chiesa al palazzo, interrompendolo per recarsi un momento nella cattedrale antistante ad adorare il Santissimo Sacramento. Fu aggredito mentre usciva, sulle scale della Chiesa, a colpi di pistola e di machete. Prima di cadere crivellato di colpi gridò con tutte le sue forze “Dios no muere”: Dio non muore. Fu la sua ultima frase.

Due anni dopo fu ucciso l’Arcivescovo di Quito, in modo doppiamente sacrilego: avvelenando le specie eucaristiche da consumare in cattedrale il Venerdì Santo dell’anno 1877.

I laicisti anticristiani avevano capito tutta la portata dell’atto di consacrazione al Cuore di Gesù e, dopo l’assassinio dei suoi due grandi protagonisti, fecero precipitare la Nazione in un buio periodo di persecuzione religiosa, che a tratti ricorda quella del Messico contro i cristeros. Questa amara notte per il cattolicesimo ecuadoriano durò fino al 1906: in essa vennero sacrificati sacerdoti, religiose e laici; vescovi furono mandati in esilio; le profanazioni a templi e tabernacoli divennero correnti. Oggi però l’Ecuador, grazie anche a quel sangue versato, continua ad essere uno dei Paesi più fervidamente cattolici del continente latino-americano. Il grande statista riposa nella cripta della cattedrale e il suo cuore, assieme a quello dell’arcivescovo Checa, è custodito nell’immenso santuario neogotico in pietra dedicato al Sacro Cuore di Gesù che svetta nel centro della capitale.

I martiri sono testimoni della fede che tracciano la strada dei cristiani: strada di affermazione della verità e di lotta per diffondere e difendere la verità contro i lupi che la minacciano. Gesù nel suo grande discorso per la missione degli apostoli (Mt. 10) dice: “Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi” (v. 16) e preannuncia: “Guardatevi dagli uomini perché essi vi trascineranno nei tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe” (v. 17) “e sarete condotti per causa mia davanti a governatori e ai re, per rendermi testimonianza davanti a loro e davanti ai gentili” (v. 18).

Il significato specifico del termine martirio è connesso con il “rendere testimonianza” che raggiunge il suo apice nella professione della frase christianus sum . La testimonianza del martire presuppone e conferma la testimonianza di Colui che “era nato e venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità” (Gv. 18, 37).

Ciò che rende il martire tale non è la morte violenta, ma il fatto che la morte sia inflitta in odio alla verità cristiana: questo elemento causale o finalistico distingue l’olocausto cristiano da qualsiasi altro sacrificio. Il martire deve essere messo a morte a motivo della sua fedeltà a uno dei princìpi di fede o di morale, di cui la Chiesa è maestra infallibile, secondo il detto agostiniano: martyres non facit poena, sed causa . Non è la morte che fa il martire, dice sant’Agostino, ma il fatto che la sua sofferenza e la sua morte siano ordinate alla verità. La morte subita per testimoniare la verità è il martirio.

Nella visione cristiana il martirio è la negazione più radicale del relativismo. Il martirio è il “vertice – come afferma Giovanni Paolo II – della testimonianza alla verità” . Esso è anche il più perfetto atto di carità, poiché ci fa perfetti imitatori di Gesù secondo le parole del Vangelo: “Avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità, dando per noi la sua vita, nessuno ha più grande amore di colui che dà la sua vita per Lui e per i suoi fratelli” (Gv. 3, 16; 15, 13).

Il martirio è testimonianza della verità, ma la persecuzione testimonia l’esistenza del male che non tollera la proclamazione della verità. Arriviamo alla conclusione: il male esiste, male fisico e male morale: non solo esiste, ma è ineliminabile.

L’uomo combatte il male e ha ragione di farlo, ma sbaglia quando pensa di poterlo vincere da solo, con le proprie forze.

Il supremo male fisico è la morte: su questo tutti concordano. L’uomo si illude di poter vincere la morte prolungando la vita all’infinito, cercando il segreto dell’immortalità e finché non lo trova, cerca di rimuovere il pensiero della morte, opponendo una filosofia di vita del piacere alla filosofia del Vangelo che parte dall’accettazione della morte e della sofferenza.

Il segreto dell’immortalità esiste, ma è spirituale, è la vita eterna, la vita oltre la morte e l’unica via per raggiungere la felicità nella vita eterna è quella di vincere nella vita temporale il peccato, che è l’unica ragione dei mali fisici che ci inondano perché, come dice san Paolo (Rm 5, 12), è attraverso il peccato che è entrata nel mondo la morte e tutti i disordini e i mali del mondo hanno la loro sorgente nel peccato originale trasmesso da Adamo all’umanità e nei peccati attuali, commessi ogni giorno dagli uomini.

Morte, malattie, sofferenze, angosce di ogni tipo, tutto è frutto del peccato e tutto può essere vinto dalla vita della Grazia che, morendo sulla Croce, Gesù ha portato agli uomini spalancandoci le porte della vita eterna, della eterna felicità. Sono questi i pensieri a cui ci dovrebbero richiamare le tragedie collettive, come i terremoti, permessi da Dio per ottenere beni spirituali più alti della vita materiale, perché le sofferenze materiali non sono il male supremo e Dio le permette, come castighi o come purificazioni, e comunque, sempre, come strumenti di meditazione, per aprire il nostro cuore a beni più alti di quelli materiali.

Ma accanto al male fisico è entrato con il peccato originale, nella vita degli uomini, anche il male morale, che è il peccato, ovvero l’allontanamento da Dio deliberatamente scelto dall’uomo, la trasgressione voluta della legge divina: il male morale, che san Paolo definisce mistero di iniquità, è un terribile e profondo mistero che apre la storia, si rivela nella Passione di Gesù Cristo e si rinnova ancora oggi nella persecuzione dei cristiani, che provoca l’eroismo dei martiri. Il loro esempio illumina la storia e deve illuminare la nostra vita. E un modo di testimoniare la verità è anche quello di ricordare che dietro le grandi sciagure naturali della storia c’è sempre la mano sapiente e provvidente di Dio.


[Fonte: Agenzia Corrispondenza Romana

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