Riflessioni sul mistero del male
I parte
Cari amici di Radio Maria,
vorrei fare questa sera con voi alcune riflessioni che partono da fatti
drammatici di attualità.
Il primo fatto è la tragedia del Giappone: lo spaventoso terremoto e
maremoto, con il rischio nucleare che si profila.
Il secondo è l’acuirsi delle persecuzioni anticristiane recentemente
culminate nell’assassinio del ministro pakistano Shahbaz Bhatti.
In entrambi i casi ci troviamo di fronte al problema del dolore e del male.
Ma con una fondamentale differenza. La sofferenza che consegue alle catastrofi
naturali, come in Giappone, è indipendente dalla volontà dell’uomo, l’uomo la
subisce non la sceglie.
Le sofferenze di chi è perseguitato invece non sono mali fisici provenienti
dalle forze della natura. Sono mali provenienti dalle azioni di altri uomini.
Sono mali fisici conseguenza di mali morali. Non c’è male morale nel terremoto
giapponese. C’è male morale nell’uccisione del ministro pakistano. C’è male
morale, ovvero c’è volontà deliberata di commettere un atto terroristico, c’è il
terrore come scelta, c’è l’odio, c’è il fanatismo. Le passioni disordinate del
cuore umano sono alle origini delle persecuzioni.
Non c’è male morale nel terremoto perché il terremoto viene dalla natura, che
è in sé buona, è creata da Dio e se Dio permette i terremoti e altre sciagure
esistono ragioni che Egli conosce e che noi non conosciamo.
Per questo dobbiamo combattere i persecutori, per evitare le persecuzioni, e
invece accettare la volontà di Dio dinanzi alle catastrofi naturali, pur facendo
tutto quanto è in nostro potere per evitarle. Il male morale va combattuto, in
noi stessi innanzitutto, e poi nel prossimo, mentre il male fisico va accettato,
nella misura in cui è indipendente dalla nostra volontà.
Invece oggi c’è la tendenza ad assuefarci alle persecuzioni, a considerarle
quasi come eventi naturali ineluttabili, e, al contrario, quando accadono le
catastrofi naturali a rifiutarne l’imponderabilità cercando sempre i
responsabili, rifiutando l’idea che qualche cosa possa sfuggire al controllo
dell’uomo. Su questo punto vi suggerisco di leggere un articolo di Corrado
Gnerre apparso sull’agenzia “Corrispondenza
Romana”: lo potete trovare su Internet, cercando l’ultimo numero di
Corrispondenza Romana.
Cosa dice Gnerre? Dice che “l’uomo di oggi vive come se Dio non esistesse e
quindi è portato ad osservare e a ritenere la vita in cui agisce come un
palcoscenico in cui egli è tanto attore quanto autore della trama. Si tratta di
un rifiuto dell’imponderabilità intesa come imprevedibilità. Può esserci
qualcosa che sfugga alla capacità umana di ordinare e programmare? Questa
eventualità è rifiutata dall’uomo contemporaneo che ama leggere la realtà con
una prospettiva utopica, nella convinzione che nella forza dell’uomo e del suo
pensiero il mondo possa essere totalmente trasformato, eliminando da esso ogni
imperfezione e ogni incidente. La conseguenza di questo errore è però una
duplice contraddizione.
La prima di carattere culturale: da una parte, l’uomo può risolvere tutto;
dall’altra, lo stesso uomo può errare, se è vero che poi si va alla ricerca
ossessiva del colpevole. E ancora: la tecnica può redimere l’uomo, ma la stessa
tecnica può fallire, se è vero che si ricerca sempre il cosiddetto “errore
tecnico”.
La seconda contraddizione è di carattere antropologico: nella prospettiva
utopica di onnipotenza umana non c’è spazio per un dio che giudica, che esige e
che condanna gli errori umani; eppure il perfezionismo utopico non tollera gli
erranti, condannandoli a mo’ di capri espiatori da sacrificare a beneficio
dell’ideologia della ‘nessuna-imprevedibilità-sulla-faccia-della-terra’”.
L’imponderabile, l’imprevedibile, è ciò che non può essere previsto e
programmato dagli uomini. L’imponderabile esiste, fa parte della nostra vita. Ma
l’imponderabile non è il caso. Il caso, che è l’assenza di significato degli
eventi, non esiste. Dobbiamo ripetere con forza che il caso non esiste: tutto
ciò che accade, nella nostra vita e in quella dell’universo, ha un significato.
Il fatto che noi non comprendiamo il significato di tutto ciò che accade, non
significa che vi sia qualcosa priva di significato. Solo Dio conosce il
significato di ogni cosa, attribuisce a ogni cosa il suo significato. Pretendere
di conoscere il significato di tutto significa voler essere Dio, farci Dio noi
stessi; e significa negare l’esistenza di un Dio creatore e regolatore
dell’universo: perché Dio non crea l’universo per poi abbandonarlo, ma lo
conserva nell’essere, lo guida al suo fine, dà significato a tutto il creato,
nulla escluso. Se Dio è la causa prima dell’universo, l’origine e il fine ultimo
di tutte le cose, nulla sfugge alla sua potenza e al suo governo. Tutto ciò che
esiste è da Lui creato, amato e condotto al suo fine: in una parola tutto ciò
che esiste e accade è raccolto nelle mani della Divina Provvidenza. Lo dice il
Vangelo quando afferma che tutti i nostri capelli del nostro capo sono contati.
Se qualche cosa potesse sfuggire all’azione creatrice e conservatrice di Dio,
Dio non sarebbe tale.
La grandezza della Divina Provvidenza si manifesta soprattutto nella capacità
di Dio di trarre il bene dal male fisico e morale dell’universo, quel male che
egli non causa, ma che permette per un fine superiore. Non è che Dio subisca il
male: se volesse potrebbe fare in modo che non accada e spesso interviene per
evitarlo; ma altre volte preferisce permettere l’esistenza del male per
realizzare il bene attraverso quel male. Si pensi solo al male enorme del
peccato originale, che Dio non voleva, ma che ha permesso che avvenisse, per
trarne il bene immenso dall’Incarnazione.
Per comprendere l’azione della Provvidenza, che dà una ragione a tutto ciò
che avviene, anche alle tragedie, come i terremoti, bisogna però avere una
prospettiva soprannaturale: la prospettiva di chi crede nell’esistenza di un Dio
creatore e rimuneratore della vita eterna.
Chi nega Dio, gli atei e i laicisti militanti, ma anche coloro che pur non
professando l’ateismo vivono di fatto nell’ateismo pratico, non può concepire
l’idea della Provvidenza.
Il 1° novembre del 1755, un terribile terremoto del 9° grado della scala
Richter, colpì Lisbona, capitale del grande Impero portoghese, e la rase al
suolo. Lisbona era uno dei più influenti centri europei dell’Illuminismo: si
parlò di castigo divino e il capo degli illuministi, Voltaire, scese in campo
con un Poema sul disastro di Lisbona pieno di invettive contro l’idea di
Provvidenza divina. Voltaire, in quello scritto, chiede provocatoriamente: “Ai
deboli lamenti di voci moribonde, alla vista pietosa di ceneri fumanti, direte:
è questo l’effetto delle leggi eterne che a un Dio libero e buono non lasciano
la scelta? Direte, vedendo questi mucchi di vittime: fu questo il prezzo che Dio
fece pagare per i loro peccati? Quali peccati, quali colpe hanno commesso questi
infanti sul seno materno schiacciati e sanguinanti?”.
Si aprì da allora un dibattito filosofico che non si è mai spento e che
riemerse con un altro terribile terremoto, quello che il 28 dicembre del 1908
distrusse la città di Messina, facendo quasi centomila vittime.
Mons. Orazio Mazzella, (1860-1939) arcivescovo di Rossano Calabro,
all’indomani della tragedia fece una serie di riflessioni che vi riassumo (La
provvidenza di Dio, l'efficacia della preghiera, la carità cattolica ed il
terremoto del 28 di Dicembre 1908: cenni apologetici, Desclée e C., Roma 1909).
In primo luogo le grandi catastrofi sono una voce terribile ma paterna della
bontà di Dio, che ci scuote e ci richiama col pensiero ai nostri grandi destini,
al fine ultimo della nostra vita, che è immortale.
Infatti se la terra non avesse pericoli, dolori, catastrofi, eserciterebbe
sopra di noi un fascino irresistibile, non ci accorgeremmo che essa è un luogo
d'esilio, e dimenticheremmo troppo facilmente, che noi siamo cittadini del
cielo. Scrive mons. Mazzella:
“Come quei viaggiatori che, passando per una regione incantevole ove tutto è
azzurro di cielo, sorriso di prati, trasparenza di onde tranquille, provano il
desiderio di fermarsi, di abbandonarsi ad un dolce riposo, e sentono meno vivo
il tormento della patria lontana, cosi noi sotto un cielo sempre senza nubi,
alla riva di un mare senza tempeste, sopra una terra che mai tremasse, saremmo
colpiti da un sonno dolce, ma fatale nell'oblio delle nostre immortali speranze.
Le grandi catastrofi sono la voce di Dio, che ci sveglia dal sonno letale, e ci
fa pensare alla patria lontana; sono, dirò meglio, il cerchio di ferro, col
quale Dio ci stringe per farci sentire che la terra è angusta per noi e non è
che luogo di passaggio per la nostra anima immortale. La terra ci attira, perché
ci attira il piacere”. Quando la terra trema, l’uomo riscopre la fragilità delle
cose terrene e solleva lo sguardo dalla terra al Cielo.
Mons. Mazzella ricorda “che la sera precedente al famoso terremoto del 1908,
un medico, spirito forte in tempo tranquillo, bestemmiava sulle cose più sante:
durante la notte la terra trema, ed il medico è il primo a gridare preghiere e
voti a san Francesco di Paola!”. Ciò fu il principio di una conversione che non
sarebbe potuta avvenire senza la tragedia.
In secondo luogo, osserva l’arcivescovo di Rossano Calabro, le catastrofi
sono talora esigenza della Giustizia di Dio, della quale sono giusti castighi.
Alla colpa del peccato originale si aggiungono infatti, nella nostra vita, le
nostre colpe personali; nessuno di noi è immune dal peccato e può dirsi
innocente e le nostre colpe possono essere personali o collettive: possono
essere le colpe di un singolo o quelle di un popolo: ma mentre Dio premia o
castiga i singoli nell’eternità è sulla terra che premia o castiga le nazioni,
perché le nazioni non hanno vita eterna, hanno un orizzonte terreno.
Nessuno può dire con certezza se il terremoto di Messina o quello del
Giappone sia stato un castigo di Dio. Sicuramente è stata una catastrofe e, dice
mons. Mazzella, “la catastrofe è un fenomeno naturale, che Dio ha potuto
introdurre nel suo piano di creazione per molteplici fini, degni della sua
sapienza e bontà. Ha potuto farlo per raggiungere un fine della stessa natura,
ottenendo per mezzo di una catastrofe un bene fisico più generale, come quando
con una tempesta di venti, che produce danni, si purifica l'aria: ha potuto
farlo per un fine di ordine morale, come, per esempio, acuire il genio
dell'uomo, eccitarlo a studiare la natura per difendersi dalla sua potenza
distruggitrice, e così determinare un progresso della scienza; ha potuto farlo
per uno dei fini per i quali la fede ci dice, che talora l'ha fatto, come
sarebbe quello d'infliggere ad una città un esemplare castigo: ha potuto farlo
per un fine a noi ignoto. Per quale fine in concreto Dio ha operato in un caso
speciale? Per quale fine Messina e Reggio sono state distrutte? Chi potrebbe
dirlo? E possibile fare delle congetture, non è possibile affermare alcuna cosa
con certezza. Intanto per noi, al nostro scopo, basta la sicurezza, che le
catastrofi possono essere, e talora sono esigenza della giustizia di Dio”.
Ora questo concetto che Dio, talora, si serva delle grandi catastrofi per
raggiungere un fine alto della sua giustizia, si trova in tutte le pagine della
Bibbia. Che cosa furono il diluvio, il fuoco caduto su Sodoma e Gomorra e quello
che non si abbatte su Ninive, se non castighi di Dio?
Ma – si dice – la catastrofe è cieca, punisce il colpevole, e colpisce
l'innocente; come si conciliano colla Provvidenza queste stragi dell'innocenza e
della virtù? La risposta è che Dio non potrebbe fare in modo che un terremoto
colpisca il colpevole e rispetti l'innocente, senza moltiplicare miracoli, o
modificare profondamente il piano della creazione divina. Senza dubbio talvolta
Iddio salva l'innocente operando un miracolo; ma Dio non è obbligato a
moltiplicare i miracoli, o a rinunziare al piano della sua creazione per salvare
la vita di un innocente.
Dio, inoltre, è padrone della vita e della morte, misura i giorni dell'uomo
sulla terra, e stabilisce l'ora e il modo della morte di ciascuno. Quindi
l'innocente che muore sotto una catastrofe generale che punisce i colpevoli, si
trova nelle stesse condizioni, nella quale si trovano tutti gli innocenti, che
sono sorpresi dalla morte: per loro questa morte non è un castigo di colpa
personale, ma è l'esecuzione di un decreto di colui, che è il padrone della vita
e della morte.
Ogni giorno vediamo fanciulli innocenti, uomini virtuosi che muoiono di morte
naturale o violenta, perché meravigliarsi quando vediamo molti innocenti morire
sotto le rovine di un terremoto? La loro morte, presa isolatamente, non è
diversa da quella di tanti uomini innocenti e virtuosi, che sono vittime di un
accidente, e muoiono ad esempio, schiacciati da una macchina, investiti da un
treno.
Terzo punto infine: le grandi catastrofi sono spesso una benevola
manifestazione della misericordia di Dio.
Abbiamo detto infatti che nessuno, mettendosi la mano sulla coscienza,
potrebbe dare a se stesso un certificato d'innocenza. Un giorno, quando il velo,
che copre l'opera della Provvidenza, sarà sollevato, ed alla luce di Dio vedremo
ciò che Egli avrà operato ne' popoli e nelle anime, ci accorgeremo che per molte
di quelle vittime, che compiangiamo oggi, il terremoto è stato un battesimo di
sofferenza che ha purificato la loro anima da tutte le macchie, anche le più
lievi, e grazie a questa morte tragica la loro anima è volata al cielo prima del
tempo perché Dio ha voluto risparmiarle un triste avvenire.
“Noi – scrive mons. Mazzella – pensiamo con raccapriccio a quei momenti
terribili passati da loro tra la vita e la morte sotto le rovine, ma forse
appunto in quei momenti discese su quelle anime il torrente di una speciale
misericordia di Dio, sotto forma di profonda contrizione e rassegnazione. Chi
può dire ciò che è passato tra quelle anime e la misericordia di Dio negli
ultimi momenti? Chi sa quali slanci Dio, misericordioso e buono, nelle terribili
sofferenze ha toccato i loro cuori per unirli a lui? Chi potrebbe, in una
parola, scandagliare l'abisso di espiazione, di merito e di doni di Dio, che in
quelle anime fu scavato per occasione del terremoto?”.
Non si tratta di pie illusioni. Sta scritto che nella tribolazione Dio
rimette più facilmente i peccati (Tobiae, III, i3) e versa più abbondantemente i
suoi doni (Nahum, I, 7), perché Dio manda la morte prematura agli innocenti per
liberarli da triste avvenire.
Davanti alle grandi catastrofi noi vediamo la superficie delle cose e non la
loro intima sostanza: vediamo la potenza livellatrice del cataclisma, ma non
vediamo il disegno di Dio nascosto sotto la forza cieca della natura.
Questo disegno divino non è sempre uguale: talora è mistero di giustizia,
talora è mistero di misericordia, ma sempre è mistero degno di un'infinita
sapienza e di un'infinita bontà.
Qualcuno dirà che il terremoto è un fenomeno di natura, risultato di forze
fatali, perché governate da leggi precise e costanti, e che per questo non può
esser legato alle esigenze variabili della giustizia o della misericordia di
Dio. È vero, ma Dio è l'autore dell'universo con le sue forze e con le sue
leggi. Chi potrebbe negare a Lui la scienza e la potenza di disporre il
meccanismo delle forze e delle leggi della natura in modo da produrre un
fenomeno secondo le esigenze della sua giustizia o della sua misericordia? Dio
sa tutto, può tutto, è infinitamente buono: è per questo che la sua Provvidenza
trae il bene da ogni male, piccolo o grande che sia.
Le grandi catastrofi sono certamente un male, però non sono un male assoluto,
ma un male relativo, dal quale sorgono beni di ordine superiore e più
universali. La luce della fede ci insegna che le grandi catastrofi, o sono un
richiamo paterno della bontà di Dio, o sono esigenze della divina giustizia, che
infligge un castigo meritato, o sono un tratto della divina misericordia, che
purifica le vittime aprendo loro le porte del Cielo. Perché il Cielo è il nostro
destino eterno.
II parte
Gli eventi naturali catastrofici si succedono negli ultimi anni. Non si è
ancora spento il ricordo dello tsunami che ha flagellato le coste dell’Indonesia
che ora giungono le terribili notizie dal Giappone. Ci chiediamo se c’è un
messaggio di Dio in questi eventi. E quale?
È curioso che al centro di questi eventi sia sempre, almeno per ora,
l’Oriente. Significherà anche questo qualcosa? Non sarà come un vento che prima
di abbattersi in Occidente soffia da Oriente, come supremo monito all’Occidente?
La tradizione dice che Gesù, morendo in Croce, volgesse lo sguardo
all’Occidente, all’Europa, alla terra privilegiata che avrebbe dovuto diffondere
il suo Vangelo nel mondo, che avrebbe dovuto ospitare la Cattedra di Pietro.
I cristiani continuano a essere perseguitati in Cina e in India, i due Stati
più popolati del mondo, i Paesi considerati emergenti nell’economia mondiale: in
India da parte dei fondamentalisti indù in numerosi Stati, come l’Orissa e il
Kandhamal, in Cina da parte dello Stato comunista; nei Paesi arabi da parte dei
Fratelli Musulmani.
Sono passati quasi cent’anni, ma il massacro dei cristiani pare non avere
fine in Iraq, dove l’assalto terroristico contro la chiesa siro-cattolica di
Nostra Signora del Perpetuo Soccorso, avvenuto a Baghdad il 31 ottobre 2010, è
l’apice di una serie di attentati, che non risalgono al dopo Saddam, ma che già
avvenivano sotto di lui. Tra le quarantasei vittime di Baghdad, anche il
sacerdote che celebrava la Messa, Thair Abd-Al, 32 anni, e l’altro che
confessava, Wasim al-Kas Butros, 29 anni; ad essi vanno aggiunti il sacerdote
caldeo Ragheed Ganni, 35 anni, assassinato a sangue freddo insieme con tre
suddiaconi a Mosul il 3 giugno 2007; l’arcivescovo caldeo Paulos Farj Rahho,
trovato morto il 13 marzo 2008 dopo due settimane di sequestro.
Il martirio è una realtà quotidiana anche per i cristiani d’Egitto, dove il
2011 si è aperto con l’attentato alla chiesa dei Santi di Alessandria che ha
provocato ventitré morti e settantasette feriti. Un anno prima, nella notte fra
il 6 e il 7 gennaio 2010, tre uomini aprirono il fuoco sui fedeli che uscivano
dalla messa di Natale a Nagaa Hammadi, nell’Alto Egitto. Commentando l’accaduto,
il patriarca Shenouda III parlò di mille e ottocento omicidi di cristiani negli
ultimi trent’anni, mai giudicati e tantomeno puniti, e di duecento atti di
vandalismo contro i loro beni.
Ma voglio soffermarmi soprattutto sull’ultimo episodio, l’assassinio di
Shalbaz Bhatti, il ministro pakistano per le Minoranze ucciso il 2 marzo 2011 a
colpi d’arma da fuoco a Islamabad, la capitale del Pakistan. Aveva 42 anni ed
era l’unico cristiano presente nell’esecutivo di quel Paese musulmano. Tre mesi
fa, Shahbaz Bhatti aveva previsto la sua fine in un video testamento registrato
a futura memoria. Questo documento è reperibile su Internet. Io voglio leggere
questa toccante testimonianza del ministro pakistano, per farmi eco, con la mia
voce, della sua e per ritrasmetterla a voi, cari amici di Radio Maria, così come
lui l’ha voluta trasmettere attraverso la telecamera.
“Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio
padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo
i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia
infanzia. Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda
ispirazione negli insegnamenti nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu
l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le
spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero.
Ricordo un venerdi di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone
sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E
pensai di corrispondere quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e
sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei
bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico. Mi è stato
richiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a
rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa. Non
voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi
di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me
e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è cosi forte in me che mi
considererei privilegiato qualora – in questo mio battagliero sforzo di aiutare
i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan- Gesù volesse
accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo per Lui voglio
morire. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno
desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno
terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, finchè avrò vita, fino al mio ultimo
respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i
cristiani, i bisognosi, i poveri. Vedo che i cristiani del mondo hanno teso la
mani ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005 abbiano
costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e
di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto
che riusciremo a vincere il cuore e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un
cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome
della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia,
coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione. Credo che i bisognosi,
i poveri, gli orfani qualunque sia la loro religione vadano considerati
innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio
corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di
Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati
un posto ai piedi di Gesù e io potrò guardarLo senza provare vergogna”.
Queste sono le parole di un cristiano: non sono solo parole: sono parole
imbevute di sangue, di quel sangue che, diceva Tertulliano, è fecondo perché è
seme di cristiani e c’è da credere che l’assassinio di Bhatti non spegnerà, ma
ravviverà la fede cristiana in Oriente, come sempre è accaduto in seguito alle
persecuzioni. Ma il fatto che le persecuzioni producano martiri e i martiri
aprano la strada alla conversione dei popoli non ci deve dar dimenticare che
triste è la sorte dei persecutori, in questa terra e nell’altra, come hanno
affermato i grandi scrittori cristiani dell’antichità, che hanno richiamato i
persecutori alle loro terribili responsabilità dinanzi a Dio.
Dobbiamo affermare che le persecuzioni non sono eventi naturali, come i
terremoti e i maremoti dietro le persecuzioni ci sono uomini, imbevuti di odio e
di false ideologie o false religioni, dietro agli uomini ci sono questi sistemi
religiosi o ideologici che si chiamano induismo, islamismo, comunismo.
Il Cristianesimo è la religione più perseguitata nel mondo, ma nel mondo il
Cristianesimo non perseguita nessuno. In nome dell’induismo i cristiani vengono
perseguitati, in nome dell’islamismo i cristiani vengono perseguitati, in nome
del comunismo i cristiani vengono perseguitati, in nome del laicismo i cristiani
vengono perseguitati.
Il laicismo perseguita i cristiani in Occidente; in maniera incruenta, in
maniera dolce, ma non meno terribile, attraverso l’emarginazione e l’isolamento
morale, che prepara la strada alla condanna giudiziaria, come già sta avvenendo
in alcuni Paesi per chi critichi apertamente le false religioni o la violazione
dell’ordine morale o voglia esporre pubblicamente i propri simboli religiosi.
Per questo a mio parere il nome del ministro pakistano Shalbaz Bhatti va
iscritto nell’albo dei martiri, accanto a quello di un altro uomo politico
martire, il presidente dell’Ecuador Gabriel García Moreno. Shalbaz Bhatti è
stato vittima dell’Islam, all’alba del XXI secolo; García Moreno fu vittima del
laicismo massonico, in America Latina, nell’Ottocento. Entrambi sono stati
testimoni di Cristo. Per chi non conosce il nome di García Moreno, ricordiamo
che, nato nel 1821, fu professore, giornalista, sindaco di Quito, senatore e
rettore dell’Università, finché nel 1861 fu proclamato Presidente della piccola
nazione sudamericana dell’Ecuador. La sua azione spirituale e morale culminò nel
1873, in pieno accordo con l’episcopato nazionale e con entrambe le camere
legislative, nell’atto di Consacrazione del Paese al Sacro Cuore di Gesù. García
Moreno convinse l’arcivescovo di Quito José Ignacio Checa, a convocare
l’episcopato per fare una prima solenne consacrazione della nazione, che avvenne
il 30 agosto 1873. García la sanzionò ufficialmente con un decreto governativo e
poi, il 25 marzo 1874, nella cattedrale di Quito, in qualità di Capo di Stato,
egli stesso pronunciò la consacrazione, proclamando l’Ecuador “Repubblica del
Sacro Cuore”.
Lo scopo soprannaturale dell’iniziativa era chiaro: instaurare un nuova
economia di grazie fra Cristo e la nazione ecuadoriana per portarla ai vertici
morali. L’atto, che voleva anche riparare in una certa misura la mancata
consacrazione della Francia al Cuore di Gesù, chiesta da Nostro Signore a Luigi
XIV per mezzo di santa Margherita Maria Alacocque, fu poi imitato da diversi
altri Paesi latinoamericani e infine dalla stessa Spagna.
Con questo atto García Moreno voleva spingere il suo popolo a riparare alle
proprie colpe passate e avviare lo Stato verso una riforma cristiana delle
proprie istituzioni. Fu proprio per questo che la Massoneria ordinò di
assassinare i promotori della Consacrazione. Quando, il 13 aprile 1873 García
Moreno ottenne la consacrazione del suo Paese, al Sacro Cuore di Gesù, la sua
fama si sparse in tutto il mondo, ma al plauso dei cattolici fecero eco le
minacce e le intimidazioni delle forze liberalmassoniche. Tutta la stampa
liberale sudamericana reclamò la testa del “tiranno”. Subì un primo attentato.
Prima ancora che giungesse la notizia che il colpo era andato a vuoto, la stampa
dell’America Latina pubblicò il necrologio del Presidente dell’Ecuador. Le
veline erano già pronte lo stesso giorno dell’agguato. A chi gli suggeriva di
circondarsi di una scorta, García Moreno rispondeva che non avrebbe avuto modo
di proteggersi dalla scorta stessa. Così arrivò al 6 agosto 1875. Nonostante le
voci che già circolavano insistentemente di un complotto per assassinarlo,
García Moreno fece tutto il tragitto a piedi, senza scorta, dalla Chiesa al
palazzo, interrompendolo per recarsi un momento nella cattedrale antistante ad
adorare il Santissimo Sacramento. Fu aggredito mentre usciva, sulle scale della
Chiesa, a colpi di pistola e di machete. Prima di cadere crivellato di colpi
gridò con tutte le sue forze “Dios no muere”: Dio non muore. Fu la sua ultima
frase.
Due anni dopo fu ucciso l’Arcivescovo di Quito, in modo doppiamente
sacrilego: avvelenando le specie eucaristiche da consumare in cattedrale il
Venerdì Santo dell’anno 1877.
I laicisti anticristiani avevano capito tutta la portata dell’atto di
consacrazione al Cuore di Gesù e, dopo l’assassinio dei suoi due grandi
protagonisti, fecero precipitare la Nazione in un buio periodo di persecuzione
religiosa, che a tratti ricorda quella del Messico contro i cristeros.
Questa amara notte per il cattolicesimo ecuadoriano durò fino al 1906: in essa
vennero sacrificati sacerdoti, religiose e laici; vescovi furono mandati in
esilio; le profanazioni a templi e tabernacoli divennero correnti. Oggi però
l’Ecuador, grazie anche a quel sangue versato, continua ad essere uno dei Paesi
più fervidamente cattolici del continente latino-americano. Il grande statista
riposa nella cripta della cattedrale e il suo cuore, assieme a quello
dell’arcivescovo Checa, è custodito nell’immenso santuario neogotico in pietra
dedicato al Sacro Cuore di Gesù che svetta nel centro della capitale.
I martiri sono testimoni della fede che tracciano la strada dei cristiani:
strada di affermazione della verità e di lotta per diffondere e difendere la
verità contro i lupi che la minacciano. Gesù nel suo grande discorso per la
missione degli apostoli (Mt. 10) dice: “Io vi mando come pecore in mezzo ai
lupi” (v. 16) e preannuncia: “Guardatevi dagli uomini perché essi vi
trascineranno nei tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe” (v. 17) “e
sarete condotti per causa mia davanti a governatori e ai re, per rendermi
testimonianza davanti a loro e davanti ai gentili” (v. 18).
Il significato specifico del termine martirio è connesso con il “rendere
testimonianza” che raggiunge il suo apice nella professione della frase
christianus sum . La testimonianza del martire presuppone e conferma la
testimonianza di Colui che “era nato e venuto al mondo per rendere testimonianza
alla verità” (Gv. 18, 37).
Ciò che rende il martire tale non è la morte violenta, ma il fatto che la
morte sia inflitta in odio alla verità cristiana: questo elemento causale o
finalistico distingue l’olocausto cristiano da qualsiasi altro sacrificio. Il
martire deve essere messo a morte a motivo della sua fedeltà a uno dei princìpi
di fede o di morale, di cui la Chiesa è maestra infallibile, secondo il detto
agostiniano: martyres non facit poena, sed causa . Non è la morte che fa
il martire, dice sant’Agostino, ma il fatto che la sua sofferenza e la sua morte
siano ordinate alla verità. La morte subita per testimoniare la verità è il
martirio.
Nella visione cristiana il martirio è la negazione più radicale del
relativismo. Il martirio è il “vertice – come afferma Giovanni Paolo II – della
testimonianza alla verità” . Esso è anche il più perfetto atto di carità, poiché
ci fa perfetti imitatori di Gesù secondo le parole del Vangelo: “Avendo Gesù,
Figlio di Dio, manifestato la sua carità, dando per noi la sua vita, nessuno ha
più grande amore di colui che dà la sua vita per Lui e per i suoi fratelli” (Gv.
3, 16; 15, 13).
Il martirio è testimonianza della verità, ma la persecuzione testimonia
l’esistenza del male che non tollera la proclamazione della verità. Arriviamo
alla conclusione: il male esiste, male fisico e male morale: non solo esiste, ma
è ineliminabile.
L’uomo combatte il male e ha ragione di farlo, ma sbaglia quando pensa di
poterlo vincere da solo, con le proprie forze.
Il supremo male fisico è la morte: su questo tutti concordano. L’uomo si
illude di poter vincere la morte prolungando la vita all’infinito, cercando il
segreto dell’immortalità e finché non lo trova, cerca di rimuovere il pensiero
della morte, opponendo una filosofia di vita del piacere alla filosofia del
Vangelo che parte dall’accettazione della morte e della sofferenza.
Il segreto dell’immortalità esiste, ma è spirituale, è la vita eterna, la
vita oltre la morte e l’unica via per raggiungere la felicità nella vita eterna
è quella di vincere nella vita temporale il peccato, che è l’unica ragione dei
mali fisici che ci inondano perché, come dice san Paolo (Rm 5, 12), è attraverso
il peccato che è entrata nel mondo la morte e tutti i disordini e i mali del
mondo hanno la loro sorgente nel peccato originale trasmesso da Adamo
all’umanità e nei peccati attuali, commessi ogni giorno dagli uomini.
Morte, malattie, sofferenze, angosce di ogni tipo, tutto è frutto del peccato
e tutto può essere vinto dalla vita della Grazia che, morendo sulla Croce, Gesù
ha portato agli uomini spalancandoci le porte della vita eterna, della eterna
felicità. Sono questi i pensieri a cui ci dovrebbero richiamare le tragedie
collettive, come i terremoti, permessi da Dio per ottenere beni spirituali più
alti della vita materiale, perché le sofferenze materiali non sono il male
supremo e Dio le permette, come castighi o come purificazioni, e comunque,
sempre, come strumenti di meditazione, per aprire il nostro cuore a beni più
alti di quelli materiali.
Ma accanto al male fisico è entrato con il peccato originale, nella vita
degli uomini, anche il male morale, che è il peccato, ovvero l’allontanamento da
Dio deliberatamente scelto dall’uomo, la trasgressione voluta della legge
divina: il male morale, che san Paolo definisce mistero di iniquità, è un
terribile e profondo mistero che apre la storia, si rivela nella Passione di
Gesù Cristo e si rinnova ancora oggi nella persecuzione dei cristiani, che
provoca l’eroismo dei martiri. Il loro esempio illumina la storia e deve
illuminare la nostra vita. E un modo di testimoniare la verità è anche quello di
ricordare che dietro le grandi sciagure naturali della storia c’è sempre la mano
sapiente e provvidente di Dio.
[Fonte: Agenzia
Corrispondenza Romana