PONTIFICIO CONSIGLIO
PER LA PROMOZIONE DELL'UNITÀ DEI CRISTIANI
Prefazione dei copresidenti
Man mano che è proseguito il cammino verso la piena comunione, la Chiesa
cattolica romana e le Chiese della Comunione anglicana hanno dedicato molti anni
alla fervente considerazione di diverse questioni riguardo alla fede che
condividiamo e al modo in cui la esprimiamo nella vita e nel culto delle nostre
due famiglie di fede. Abbiamo sottoposto delle dichiarazioni di accordo alla
Santa Sede e alla Comunione anglicana perché le commentassero, richiedessero –
se necessarie – ulteriori chiarificazioni, ed esprimessero congiuntamente la
loro accettazione in quanto rispondenti alla fede degli anglicani e dei
cattolici.
Nel comporre questa dichiarazione di accordo, abbiamo attinto dalle Scritture
e dalla comune tradizione che precede la Riforma e la Controriforma. Come già
nei precedenti documenti della Commissione internazionale anglicana - cattolica
romana (ARCIC), abbiamo cercato di utilizzare un linguaggio che riflettesse ciò
che serbiamo in comune e andasse al di là delle controversie del passato. Allo
stesso tempo, in questa dichiarazione abbiamo dovuto affrontare con onestà
definizioni dogmatiche che sono parte integrante della fede dei cattolici ma che
sono largamente estranee alla fede degli anglicani. I membri dell’ARCIC,
inoltre, hanno cercato di compenetrarsi reciprocamente nel modo di fare
teologia, e hanno preso in considerazione insieme il contesto storico in cui si
sono sviluppate determinate dottrine. Nel farlo, abbiamo imparato ad accogliere
in forma rinnovata la nostra propria tradizione, illuminata e approfondita
attraverso la comprensione e l’apprezzamento della tradizione altrui.
La nostra dichiarazione di accordo a riguardo della beata vergine Maria come
modello di grazia e di speranza riflette poderosamente i nostri sforzi di
ricercare quanto serbiamo in comune e celebra importanti aspetti del nostro
comune patrimonio. Maria, la madre del Signore nostro Gesù Cristo, sta davanti a
noi come modello esemplare di fedele obbedienza, e il suo «avvenga di me quello
che hai detto» è la risposta piena di grazia che ciascuno di noi è chiamato a
dare a Dio, sia individualmente sia comunitariamente, in quanto Chiesa, il corpo
di Cristo. In quanto ella è figura della Chiesa, le braccia levate nella
preghiera e nella supplica, le mani aperte nell’accoglienza e nella
disponibilità a ricevere l’effusione dello Spirito Santo, siamo una cosa sola
con Maria che magnifica il Signore. Dice il vero Maria quando afferma nel suo
canto, secondo il Vangelo di Luca: «D’ora in poi tutte le generazioni mi
chiameranno beata».
Le nostre due tradizioni condividono molte delle feste stesse legate a Maria.
La nostra esperienza ci ha fatto capire che è nell’ambito del culto che
realizziamo la più profonda convergenza, allorché rendiamo grazie a Dio per la
madre del Signore, che è una cosa sola con noi in quella sterminata comunità di
amore e di preghiera che chiamiamo comunione dei santi.
Alexander J. Brunett
Peter F. Carnley
Seattle, festa della Presentazione del Signore, 2 febbraio 2004.
Statuto del documento
Il documento qui pubblicato è opera della Commissione internazionale
anglicana - cattolica romana (ARCIC). È una dichiarazione congiunta della
Commissione. Le autorità che hanno nominato la Commissione hanno permesso che la
dichiarazione fosse pubblicata, così che possa essere ampiamente discussa. Non
si tratta di una dichiarazione autoritativa (authoritative) della Chiesa
cattolica romana o della Comunione anglicana, le quali, a tempo debito,
studieranno e valuteranno il documento.
Maria: grazia e speranza in Cristo
Dichiarazione di Seattle
Introduzione
1. Nel rendere onore a Maria come madre del Signore, tutte le generazioni di
anglicani e cattolici hanno richiamato il saluto di Elisabetta: «Benedetta tu
fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!» (Lc 1,42). La Commissione
internazionale anglicana - cattolica romana (ARCIC) rende ora disponibile
questa dichiarazione di accordo sul posto di Maria nella vita e nella dottrina
della Chiesa, nella speranza che essa esprima la nostra fede comune su colei
che, tra tutti i credenti, è la più vicina al nostro Signore e salvatore Gesù
Cristo. Essa risponde a una richiesta delle nostre due comunioni, che ci hanno
posto dinanzi alcuni interrogativi. Una speciale consultazione di vescovi
anglicani e cattolici, riuniti sotto la guida dell’arcivescovo di Canterbury, il
dott. George Carey, e del card. Edward I. Cassidy, presidente del Pontificio
consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, a Mississauga (Canada) nel
2000, ha richiesto specificatamente all’ARCIC uno «studio su Maria nella vita e
nella dottrina della Chiesa». Tale domanda riecheggia un’osservazione contenuta
nel Rapporto di Malta (1968): «delle differenze tra di noi, reali o
apparenti, vengono a galla su punti quali (...) le definizioni mariologiche»
promulgate nel 1854 e nel 1950. Più di recente, nell’Ut unum sint (1995),
papa Giovanni Paolo II identifica, tra le aree che necessitano di uno studio più
ampio da parte di tutte le tradizioni cristiane prima che si possa acquisire un
vero consenso di fede, «la vergine Maria, madre di Dio e icona della Chiesa,
Madre spirituale che intercede per i discepoli di Cristo e per tutta l’umanità»
(n. 79).
2. L’ARCIC ha affrontato in un’altra occasione questo nodo. Già Autorità
nella Chiesa II (1981) registra un significativo grado di accordo:
«Siamo d’accordo che non ci può essere che un solo mediatore tra Dio e
l’uomo, Gesù Cristo, e rifiutiamo ogni interpretazione del ruolo di Maria che
oscuri una tale affermazione. Siamo d’accordo nel riconoscere che la
comprensione cristiana di Maria è inseparabilmente legata alle dottrine su
Cristo e sulla Chiesa. Siamo d’accordo nel riconoscere la grazia e la singolare
vocazione di Maria, madre del Dio incarnato (Theotokos), nell’osservare
le sue festività e nell’attribuirle un posto di onore nella comunione dei santi.
Siamo d’accordo che ella è stata preparata dalla grazia divina a essere la madre
del Redentore, dal quale lei stessa fu redenta e introdotta nella gloria.
Inoltre siamo d’accordo nel riconoscere in Maria un modello di santità, di
obbedienza e fede per tutti i cristiani. Accettiamo che è possibile guardare a
lei come a una figura profetica della Chiesa di Dio, sia prima sia dopo
l’incarnazione» (n. 30).
Lo stesso documento, tuttavia, segnala le differenze che permangono:
«I dogmi dell’immacolata concezione e dell’assunzione suscitano un problema
speciale per quegli anglicani che non ritengono che le precise definizioni
espresse da questi dogmi siano sufficientemente sostenute dalla Scrittura. Per
molti anglicani l’autorità d’insegnare del vescovo di Roma, indipendentemente da
un concilio, va accolta con riserve proprio per il fatto che, mediante essa,
queste dottrine mariane furono proclamate come dogmi vincolanti per tutti i
fedeli. Gli anglicani desiderano anche chiedere se, in un’eventuale unione fra
le due Chiese, sarà loro richiesto di sottoscrivere tali definizioni dogmatiche»
(n. 30).
Queste riserve vennero particolarmente sottolineate nella Risposta
ufficiale della Santa Sede al Rapporto finale (1991, n. 13). Poiché
abbiamo assunto queste credenze condivise e questi problemi come punto di
partenza per la nostra riflessione, possiamo oggi affermare un ulteriore
significativo accordo sul posto di Maria nella vita e nella dottrina della
Chiesa.
3. Questo documento propone una dichiarazione più ampia delle nostre credenze
condivise a riguardo della beata vergine Maria, e in tal modo fornisce il
contesto per un apprezzamento comune del contenuto dei dogmi mariani. Ci
occupiamo anche delle differenze nella pratica, compresa l’esplicita invocazione
di Maria. Questo nuovo studio su Maria si è giovato del nostro precedente studio
sulla recezione ne
Il dono dell’autorità (1999).
Allora concludevamo che, quando la Chiesa riceve e riconosce ciò che identifica
come una vera espressione della Tradizione consegnata una volta per tutte agli
apostoli, tale recezione è a un tempo un atto di fedeltà e di libertà. La
libertà di rispondere in modi nuovi quando si profilano nuove sfide è ciò che
consente alla Chiesa di essere fedele alla Tradizione che essa porta avanti. Di
tempo in tempo, alcuni elementi della Tradizione apostolica possono essere
dimenticati, trascurati o male utilizzati. In questi casi, un rinnovato ricorso
alla Scrittura e alla Tradizione richiama alla memoria la rivelazione di Dio in
Cristo: chiamiamo questo processo ri-recezione (cf.
Il dono dell’autorità, nn.
24-25). I progressi nel dialogo e nella comprensione ecumenici indicano che
abbiamo oggi l’opportunità di una comune ri-recezione della tradizione che
riguarda il posto di Maria nella rivelazione di Dio.
4. Fin dai suoi inizi l’ARCIC ha cercato di andare oltre le posizioni
contrapposte o arroccate per scoprire e sviluppare il nostro comune patrimonio
di fede (cf. Autorità nella Chiesa I, 1976, n. 25). In coerenza con la
Dichiarazione comune del 1966 sottoscritta dal papa Paolo VI e
dall’arcivescovo di Canterbury Michael Ramsey, abbiamo proseguito il nostro
«serio dialogo» fondato sul «Vangelo e le (...) antiche tradizioni comuni».
Abbiamo chiesto fino a che punto la dottrina o la devozione riguardo a Maria
appartengono a una legittima «recezione» della Tradizione apostolica, secondo le
Scritture. Al cuore di tale Tradizione si trova la proclamazione dell’«economia
di salvezza» trinitaria, che fonda la vita e la fede della Chiesa nella
comunione divina del Padre, del Figlio e dello Spirito. Abbiamo cercato di
comprendere la persona e il ruolo di Maria nella storia della salvezza e nella
vita della Chiesa alla luce di una teologia della grazia e della speranza
divine. Una tale teologia è profondamente radicata nella perdurante esperienza
di culto e di devozione cristiani.
5. La grazia di Dio richiede e allo stesso tempo rende possibile la risposta
umana (cf. La salvezza e la Chiesa, 1987, n. 9). È quanto appare nel
racconto evangelico dell’annunciazione, laddove il messaggio dell’angelo suscita
la risposta di Maria. L’incarnazione e tutto ciò che ne consegue, compresa la
passione, la morte e la risurrezione di Cristo e la nascita della Chiesa,
accaddero per mezzo di quel fiat – «avvenga di me quello che hai detto» (Lc
1,38). Nell’evento dell’incarnazione riconosciamo il «sì» di grazia che Dio
rivolge all’intera umanità. Questo ci rammenta, ancora una volta, le parole
dell’Apostolo in 2Cor 1,18-20 (cf.
Il dono dell’autorità, nn. 8ss):
tutte le promesse di Dio trovano il loro «sì» nel Figlio di Dio, Gesù Cristo. In
tale contesto, il fiat di Maria può essere visto come l’esempio supremo
dell’«Amen» di un credente in risposta al «sì» di Dio. I discepoli cristiani
rispondono allo stesso «sì» col proprio «Amen». In questo modo essi si
riconoscono tutti come figli dell’unico Padre celeste, nati nello Spirito come
fratelli e sorelle di Gesù Cristo, attratti nella comunione d’amore della beata
Trinità. Maria ricapitola tale partecipazione alla vita di Dio. La sua risposta
giunse non senza profondi interrogativi, e ne scaturì una vita di gioia
frammista a dolore, che la condusse fino ai piedi della croce di suo Figlio.
Quanto i cristiani si uniscono nell’«Amen» di Maria al «sì» di Dio in Cristo, si
impegnano a una risposta obbediente alla parola di Dio, che conduce a una vita
di preghiera e di servizio. Come Maria, non solo magnificano il Signore con le
loro labbra: si impegnano a servire la giustizia di Dio con le loro vite (cf. Lc
1,46-55).
A. Maria secondo le Scritture
6. Siamo convinti che le sacre Scritture, in quanto parola di Dio scritta,
rendono una testimonianza normativa al disegno di salvezza di Dio; dunque è a
esse, in primo luogo, che questo documento rivolge lo sguardo. Non vi è dubbio
che sia impossibile essere fedeli alla Scrittura e non prendere sul serio Maria.
Riconosciamo, tuttavia, che per secoli gli anglicani e i cattolici hanno
interpretato le Scritture mentre erano divisi gli uni dagli altri. Nel
riflettere insieme sulla testimonianza delle Scritture a riguardo di Maria,
abbiamo scoperto ben di più di qualche intrigante occhiata alla vita di una
grande santa. Ci siamo ritrovati a meditare con meraviglia e gratitudine
sull’intero arco della storia della salvezza: la creazione, l’elezione,
l’incarnazione, la passione e la risurrezione di Cristo, il dono dello Spirito
alla Chiesa, e la visione finale della vita eterna per tutto il popolo di Dio
nella nuova creazione.
7. Nei paragrafi che seguono utilizziamo la Scrittura cercando di attingere
all’intera Tradizione della Chiesa, con tutta la ricchezza e la varietà delle
letture impiegate. Nel Nuovo Testamento, l’Antico Testamento è generalmente
interpretato in forma tipologica:[1]
eventi e immagini vengono compresi in specifico riferimento a Cristo. Questo
approccio è ulteriormente sviluppato dai padri della Chiesa e dai predicatori e
scrittori medievali. I riformatori insistettero sulla chiarezza e la sufficienza
della Scrittura, e pretesero un ritorno alla centralità del messaggio
evangelico. Gli approcci storico-critici tentarono di discernere il significato
voluto dagli autori biblici e di dar conto delle origini dei testi. Ciascuna di
queste letture ha i suoi limiti, e può far sorgere esagerazioni o squilibri: la
tipologia può divenire eccessiva, l’enfasi della Riforma trasformarsi in
riduzionismo, e i metodi critici in storicismo. Negli ultimi anni, gli approcci
alle Scritture mirano all’intera gamma delle possibili letture di un testo, e in
specie alle sue dimensioni narrative, retoriche e sociologiche. In questo
documento cerchiamo di integrare ciò che è valido di ciascuno di questi
approcci, così da poter rettificare e insieme migliorare l’uso che facciamo
della Scrittura. Riconosciamo inoltre che nessuna lettura di un testo è
neutrale, ma ciascuna prende forma in base al contesto e all’interesse dei suoi
lettori. La nostra lettura ha avuto luogo nel contesto del nostro dialogo in
Cristo, per il bene di quella comunione che è sua volontà. È dunque una lettura
ecclesiale ed ecumenica, che cerca di considerare ciascun passo riguardo a Maria
nel contesto di tutto il Nuovo Testamento, sullo sfondo dell’Antico e alla luce
della Tradizione.
La testimonianza della Scrittura: una traiettoria di grazia e di speranza
8. L’Antico Testamento rende testimonianza alla creazione divina degli uomini
e delle donne a immagine di Dio, e di un Dio amorevole che chiama a un rapporto
d’alleanza con lui. Anche quando disobbediscono, Dio non abbandona gli esseri
umani al peccato e al potere della morte. Ogni volta Dio ha offerto nuovamente
un’alleanza di grazia. Dio ha stabilito un alleanza con Noè, per cui mai più
«ogni carne» sarà distrutta dalle acque di un diluvio. Il Signore ha stabilito
un’alleanza con Abramo, per cui in lui si diranno benedette tutte le famiglie
della terra. Attraverso Mosè egli ha stabilito un’alleanza con Israele per cui,
obbediente alla sua Parola, sarà una nazione santa e un popolo sacerdotale. I
profeti hanno ripetutamente chiamato il popolo a volgersi dalla disobbedienza al
Dio di grazia dell’alleanza, ad accogliere la parola di Dio e a lasciarle
portare frutto nella propria vita. Essi erano tutti protesi a un rinnovamento
dell’alleanza in cui vi fossero perfetta obbedienza e perfetto dono di sé:
«Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei
giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro
cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo» (Ger 31,33). Nella
profezia di Ezechiele, questa speranza è espressa non solo in termini di lavacro
e di purificazione, ma anche di dono dello Spirito (Ez 36,25-28).
9. L’alleanza tra il Signore e il suo popolo è ripetutamente descritta come
una storia d’amore tra Dio e Israele, la vergine figlia di Sion, sposa e madre.
«Io stesi il lembo del mio mantello su di te e coprii la tua nudità; giurai
alleanza con te, dice il Signore Dio, e divenisti mia» (Ez 16,8; cf. Is 54,1 e
Gal 4,27). Persino quando punisce l’infedeltà Dio rimane fedele per sempre,
promettendo di ristabilire il rapporto di alleanza e di riunire insieme il
popolo disperso (Os 1-2; Ger 2,2; 31,3; Is 62,4-5). La figura nuziale viene
usata anche nel Nuovo Testamento per descrivere il rapporto tra Cristo e la
Chiesa (Ef 5,21-33; Ap 21,9). In parallelo all’immagine profetica di Israele
sposa del Signore, la letteratura sapienziale dell’Antico Testamento
caratterizza la divina Sapienza come la serva del Signore (Pro 8,22ss; cf. Sap
7,22-26), sottolineando in modo analogo il tema della corrispondenza e
dell’attività creatrice. Nel Nuovo Testamento questi motivi profetici e
sapienziali sono composti (Lc 11,49) e compiuti nella venuta di Cristo.
10. Le Scritture parlano anche della chiamata che Dio rivolge a persone
particolari, come Davide, Elia, Geremia e Isaia, affinché all’interno del popolo
di Dio possano essere realizzati determinati compiti specifici. Essi rendono
testimonianza al dono dello Spirito o alla presenza di Dio che li rende capaci
di compiere la volontà e il proposito di Dio. Vi sono anche profonde riflessioni
su quanto Dio già conosce e chiede sin dall’inizio dell’esistenza di ciascuno (Sal
139,13-16; Ger 1,1-5). Questo senso di meraviglia davanti alla grazia
preveniente di Dio è attestato in maniera analoga nel Nuovo Testamento, in
particolare negli scritti paolini, quando l’Apostolo parla di coloro «che sono
stati chiamati secondo il suo [di Dio] disegno», affermando che quelli che Dio
«da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine
del Figlio suo, (...) quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati;
quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li
ha anche glorificati» (Rm 8,28-30; cf. 2Tm 1,9). La preparazione a un compito
profetico, da parte di Dio, è esemplificata nelle parole rivolte dall’angelo a
Zaccaria prima della nascita di Giovanni il Battista: «sarà pieno di Spirito
Santo fin dal seno di sua madre» (Lc 1,15; cf. Gdc 13,3-5).
11. Proseguendo lungo la traiettoria della grazia di Dio e della speranza in
una perfetta risposta umana, tracciata nei paragrafi precedenti, i cristiani, in
continuità con gli autori del Nuovo Testamento, ne hanno colto il culmine
nell’obbedienza di Cristo. Entro questo contesto cristologico, hanno
riconosciuto un modello simile in colei che ha accolto il Verbo nel suo cuore e
nel suo corpo, è stata presa dallo Spirito sotto la sua ombra e ha generato il
Figlio di Dio. Il Nuovo Testamento parla non solo della preparazione di Dio alla
nascita del Figlio, ma anche dell’elezione, della chiamata e della
santificazione da parte di Dio di una donna ebrea in continuità con quelle sante
donne, come Sara e Anna, i cui figli hanno adempiuto i propositi di Dio sul suo
popolo. Paolo parla del Figlio di Dio nato «quando venne la pienezza del tempo»
e «nato da donna, nato sotto la legge» (Gal 4,4). La nascita del Figlio di Maria
è il compimento della volontà di Dio su Israele, e la parte di Maria in tale
compimento consiste in un libero e incondizionato consenso dato con totale
fiducia e dono di sé. «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello
che hai detto» (Lc 1,38; cf. Sal 123,2).
Maria nella narrazione della nascita secondo Matteo
12. Se in diverse parti il Nuovo Testamento parla della nascita di Cristo,
solo due Vangeli, Matteo e Luca, ciascuno secondo la sua prospettiva propria,
raccontano la storia della sua nascita, e si riferiscono in particolar modo a
Maria. Matteo pone come incipit del suo libro «Genealogia di Gesù Cristo»
(1,1), riecheggiando il modo in cui comincia la Bibbia (Gen 1,1). In tale
genealogia (1,1-18) egli traccia la genesi di Gesù risalendo indietro attraverso
l’esilio, fino a Davide e infine ad Abramo. Matteo fa notare il sorprendente
ruolo ricoperto nell’ordine provvidenziale della storia della salvezza di
Israele da quattro donne, ciascuna delle quali estende i vincoli dell’alleanza.
Questa insistenza sulla continuità con l’antico è controbilanciata, nel
successivo racconto della nascita di Gesù, dall’insistenza sul nuovo (cf. 9,17),
una figura di nuova creazione da parte dello Spirito Santo, che rivela nuove
possibilità di salvezza dal peccato (1,21) e di presenza del «Dio con noi»
(1,23). Matteo estende ulteriormente i vincoli laddove tiene insieme la
discendenza davidica di Gesù con la paternità legale di Giuseppe e la sua
nascita dalla Vergine secondo la profezia di Isaia «Ecco: la vergine concepirà e
partorirà un figlio» (Is 7,14 LXX).
13. Nel racconto di Matteo, Maria è citata in associazione a suo Figlio in
espressioni quali «Maria sua madre» o «il bambino e sua madre» (2,11.13.20.21).
Nel mezzo di un resoconto fatto di intrighi politici, assassini e rifugiati,
l’immaginazione cristiana è rimasta attratta da un solo, calmo momento di
venerazione: i Magi, che per professione sanno quando il tempo è venuto, si
prostrano ad adorare il Re bambino e la sua regale madre (2,2.11). Matteo
insiste sulla continuità fra Gesù Cristo e l’attesa messianica di Israele e
insieme sulla novità che irrompe con la nascita del Salvatore. La discendenza da
Davide per l’una o l’altra via, e la nascita dall’antica città regale, rivelano
la prima. Il concepimento verginale rivela la seconda.
Maria nella narrazione della nascita secondo Luca
14. Nella narrazione dell’infanzia di Luca, Maria è in primo piano sin
dall’inizio. È lei il collegamento tra Giovanni il Battista e Gesù, le cui
nascite miracolose sono deliberatamente collocate in parallelo. È lei a ricevere
il messaggio dell’angelo e a rispondere in umile obbedienza (1,38). È lei a
viaggiare di sua iniziativa dalla Galilea alla Giudea per fare visita a
Elisabetta (1,40) ed è lei, col suo canto, a proclamare il rovesciamento
escatologico che sarà al centro della proclamazione del regno di Dio da parte di
suo Figlio. Maria è colei che, meditando nel suo cuore, guarda oltre
l’esteriorità degli eventi (2,19.51) ed esprime l’interiorità della fede e della
sofferenza (2,35). È lei che parla a nome di Giuseppe nella scena al Tempio e,
sebbene rimproverata per l’iniziale incomprensione, arriva a capire sempre di
più tutte queste cose (2,48-51).
15. All’interno della narrazione di Luca, vi sono due scene particolari che
invitano a riflettere sul posto di Maria nella vita della Chiesa:
l’annunciazione e la visita a Elisabetta. Questi due passi sottolineano che
Maria è in maniera unica la destinataria dell’elezione e della grazia di Dio. La
vicenda dell’annunciazione ricapitola numerosi episodi dell’Antico Testamento,
in particolare la nascita di Isacco (Gen 18,10-14), Sansone (Gdc 13,2-5) e
Samuele (1Sam 1,1-20). Il saluto dell’angelo evoca pure quei passi di Isaia
(66,7-11), Zaccaria (9,9) e Sofonia (3,14-17) che si rivolgono alla «figlia di
Sion», cioè Israele che attende con gioia l’arrivo del suo Signore. La scelta
dell’espressione «stendere / prendere sotto la propria ombra» (episkiasei)
per descrivere l’azione dello Spirito Santo nel concepimento verginale (Lc 1,35)
riecheggia i cherubini che stendono le loro ali sull’Arca dell’alleanza (Es
25,20), la presenza di Dio nella nube che sovrasta il Tabernacolo (Es 40,35) e
lo Spirito che aleggia sulle acque all’inizio della creazione (Gen 1,2). Durante
la visitazione, il canto di Maria, il Magnificat, riflette il canto di
Anna (1Sam 2,1-10), ampliandone la prospettiva in modo tale che Maria diviene
colei che parla a nome di tutti i poveri e gli oppressi che bramano perché si
instauri il regno di giustizia di Dio. Come nel saluto di Elisabetta la madre
riceve una benedizione propria, distinta da quella rivolta al suo bambino
(1,42), così anche nel Magnificat Maria profetizza: «tutte le generazioni
mi chiameranno beata» (1,48). Questo testo fornisce le basi scritturistiche di
un’appropriata devozione a Maria, per quanto mai separata dal suo ruolo di madre
del Messia.
16. Nella vicenda dell’annunciazione, l’angelo chiama Maria la «favorita» del
Signore (in greco kecharitomene, un participio perfetto che significa «tu
che sei stata e rimani colmata di grazia»), in modo tale da implicare una
primigenia santificazione da parte della grazia divina in vista della sua
vocazione. L’annuncio dell’angelo collega la condizione di «santo» e di «Figlio
di Dio» di Gesù al suo concepimento per opera dello Spirito Santo (1,35). Il
concepimento verginale dunque indica la figliolanza divina del Salvatore che
nascerà da Maria. Il bambino non ancora nato viene descritto da Elisabetta come
il Signore: «A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?» (1,43).
Colpisce qui il modello trinitario dell’azione divina: l’incarnazione del Figlio
comincia con l’elezione della beata Vergine da parte del Padre ed è mediata
dallo Spirito Santo. Allo stesso modo, colpisce il fiat di Maria, il suo
«Amen» dato nella fede e nella libertà alla Parola potente di Dio comunicata
dall’angelo (1,38).
17. Nel racconto lucano della nascita di Gesù, la lode resa a Dio dai pastori
si pone in parallelo all’adorazione del bambino da parte dei Magi nel racconto
di Matteo. È questa la scena che costituisce ancor oggi il nucleo centrale della
storia della nascita: «Trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva
nella mangiatoia» (Lc 2,16). Secondo la Legge di Mosè, il bambino viene
circonciso e presentato al Tempio. In tale occasione, Simeone pronuncia una
specifica parola profetica per la madre del Cristo-bambino: «Anche a te una
spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,34-35). Da questo momento in poi, il
pellegrinaggio di fede di Maria è avviato a condurla ai piedi della croce.
Il concepimento verginale
18. Nella buona novella del concepimento verginale, l’iniziativa divina nella
storia dell’uomo viene proclamata attraverso l’azione dello Spirito Santo (Mt
1,20-23; Lc 1,34-35). Il concepimento verginale può apparire in primo luogo come
un’assenza, cioè l’assenza di un padre umano. Tuttavia, in realtà, è un segno
della presenza e dell’opera dello Spirito. Il credere nel concepimento verginale
appartiene a una tradizione dei primi cristiani, assunta e sviluppata
indipendentemente da Matteo e Luca.[2]
Per i credenti cristiani, è un segno eloquente della figliolanza divina di
Cristo e della vita nuova attraverso lo Spirito. Il concepimento verginale
indica anche la nuova nascita di ciascun cristiano, in quanto figlio adottivo di
Dio. Ciascuno è «rinato (dall’alto) da acqua e da Spirito» (Gv 3,3-5). In questa
luce il concepimento verginale, lungi dall’essere un miracolo a sé stante, è una
potente espressione di quello che la Chiesa crede a riguardo del suo Signore e a
riguardo della nostra salvezza.
Maria e la vera famiglia di Gesù
19. Dopo questi racconti della nascita, giunge come a sorprenderci la lettura
dell’episodio, narrato in tutti e tre i Vangeli sinottici, che tocca la
questione della vera famiglia di Gesù. Marco ci dice che arrivano «la madre» di
Gesù «e i suoi fratelli» (Mc 3,31), e, stando fuori, lo mandano a chiamare.
[3]
In tutta risposta, Gesù prende le distanze dalla sua famiglia naturale: parla
invece di quelli radunati intorno a lui, la sua «famiglia escatologica», vale a
dire «chi compie la volontà di Dio» (3,35). In Marco la famiglia naturale di
Gesù, compresa la sua stessa madre, pare, in questa fase, che fatichi a
comprendere la vera natura della sua missione. Ma sarà la stessa cosa anche con
i suoi discepoli (cf. ad es. 8,33-35; 9,30-33; 10,35-40). Marco vuol dire che la
crescita nella comprensione è inevitabilmente lenta e dolorosa, e che
l’autentica fede in Cristo non viene raggiunta se non nell’incontro con la croce
e con il sepolcro vuoto.
20. Luca evita la contrapposizione rigida tra l’atteggiamento verso Gesù
della sua famiglia naturale e quello della sua famiglia escatologica (8,19-21).
In una scena successiva (11,27-28), la donna tra la folla che proferisce una
benedizione su sua madre, «Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui
hai preso il latte!», viene corretta: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la
parola di Dio e la osservano!». Ma una tale forma di benedizione, secondo la
visione di Luca, comprende precisamente Maria, che sin dall’inizio del suo
racconto è stata pronta a consentire che nella sua vita ogni cosa avvenisse
secondo la parola di Dio (1,38).
21. Nel suo secondo libro, gli Atti degli apostoli, Luca segnala che tra
l’ascensione del Signore risorto e la festa di Pentecoste gli apostoli erano
riuniti a Gerusalemme «insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e
con i fratelli di lui» (At 1,14). Maria, che era stata ricettiva nei confronti
dell’opera dello Spirito di Dio alla nascita del Messia (Lc 1,35-38), è qui
parte della comunità dei discepoli che attende in preghiera l’effusione dello
Spirito all’atto della nascita della Chiesa.
Maria nel Vangelo di Giovanni
22. Maria non viene esplicitamente citata nel Prologo del Vangelo di
Giovanni. Tuttavia, ponendola nel contesto delle verità teologiche prese in
esame che l’evangelista formula allorché dispiega la buona novella
dell’incarnazione, si può discernere qualcosa circa il significato del suo ruolo
nella storia della salvezza. L’insistenza teologica sull’iniziativa divina,
espressa nella storia della nascita di Gesù nelle narrazioni di Matteo e di
Luca, è affiancata nel Prologo di Giovanni dall’insistenza sulla volontà e sulla
grazia predestinanti di Dio, per mezzo delle quali tutti coloro che sono
condotti a rinascere sono detti generati «non da sangue, né da volere di carne,
né da volere di uomo, ma da Dio» (Gv 1,13). Parole che possono essere applicate
alla nascita dello stesso Gesù.
23. In due momenti importanti della vita pubblica di Gesù, all’inizio (le
nozze di Cana) e alla fine (la croce), Giovanni segnala la presenza della madre
di Gesù. In tutti e due i casi, è l’ora del bisogno: il primo, all’apparenza, è
un bisogno piuttosto banale, ma anticipazione simbolica, a un livello più
profondo, del secondo. Giovanni dà un ruolo prominente, nel suo Vangelo, alle
nozze di Cana (Gv 2,1-12), definendole l’inizio (arche) dei miracoli di
Gesù. Il racconto insiste sul vino nuovo che viene da Gesù, simbolo della festa
nuziale escatologica di Dio con il suo popolo e del banchetto messianico del
Regno. La storia veicola in primo luogo un messaggio cristologico: Gesù rivela
la sua gloria messianica ai discepoli ed essi credono in lui (2,11).
24. La presenza della «madre di Gesù» è citata all’inizio della storia: ha un
ruolo proprio nel dispiegarsi della narrazione. Maria sembra che sia stata
invitata e sia presente per suo conto, non insieme a «Gesù con i suoi discepoli»
(Gv 2,1-2); Gesù viene visto inizialmente presente in quanto parte della
famiglia di sua madre. Nel dialogo tra loro, quando il vino viene a mancare,
Gesù sembra sulle prime rifiutare la richiesta implicita di Maria, ma alla fine
vi acconsente. La lettura della narrazione, tuttavia, lascia spazio per una
lettura simbolica più profonda dell’evento. Nelle parole di Maria «non hanno più
vino» Giovanni le attribuisce l’espressione non tanto di una carenza
nell’organizzazione delle nozze, quanto della brama di salvezza dell’intero
popolo dell’alleanza, che ha l’acqua per la purificazione ma manca del vino
gioioso del regno messianico. Nella sua riposta, Gesù dapprima chiama in causa
la sua precedente relazione con la propria madre («Che ho da fare con te, o
donna?»), lasciando intendere che deve aver luogo un cambiamento. Non si rivolge
a Maria come «madre» ma come «donna» (cf. Gv 19,26). Gesù non vede più il suo
rapporto con Maria nei semplici termini di una parentela terrena.
25. La risposta di Maria, che ordina ai servi «Fate quello che vi dirà» (Gv
2,5), giunge inaspettata; non è lei la responsabile della festa (cf. 2,8). Il
suo ruolo iniziale di madre di Gesù è radicalmente mutato. Lei stessa ora è
vista come una credente all’interno della comunità messianica. Da questo momento
in poi, ella è totalmente compromessa verso il Messia e verso la sua parola. Ne
risulta un nuovo rapporto, come indica il cambiamento nell’ordine dei personaggi
principali alla fine della storia: «Dopo questo fatto, discese a Cafarnao
insieme con sua madre, i fratelli e i suoi discepoli» (2,12). La narrazione di
Cana si apre collocando Gesù entro la famiglia di Maria, sua madre; da ora in
poi, invece, Maria è parte dei «compagni di Gesù», è sua discepola. La lettura
che abbiamo dato di questo passo riflette la comprensione del ruolo di Maria da
parte della Chiesa: aiutare i discepoli ad arrivare a suo figlio, Gesù Cristo, e
a fare «quello che vi dirà».
26. La seconda citazione della presenza di Maria in Giovanni ricorre nell’ora
decisiva della missione messianica di Gesù, la sua crocifissione (19,25-27).
Maria sta con gli altri discepoli presso la croce, e in tal modo condivide la
sofferenza di Gesù, il quale, in prossimità della fine, rivolge una speciale
parola a lei: «Donna, ecco il tuo figlio!», e al discepolo che ama: «Ecco la tua
madre!». Non si può non rimanere toccati dal fatto che, persino mentre è
morente, Gesù sia preoccupato per il bene della propria madre, mostrando la sua
devozione filiale. Questa interpretazione, che si ferma all’apparenza, ancora
una volta ci invita a una lettura simbolica ed ecclesiale della ricca narrazione
giovannea. Questi ultimi comandamenti di Gesù prima di morire rivelano una
comprensione che va oltre il primario riferimento a Maria e al «discepolo che
ama» come singoli. I ruoli reciproci della «donna» e del «discepolo» sono in
relazione all’identità della Chiesa. Ripetutamente in Giovanni il «discepolo che
ama» viene presentato come il modello della sequela di Gesù, quello più vicino a
lui, che mai lo abbandonò, l’oggetto dell’amore di Gesù, il testimone sempre
fedele (13,25; 19,26; 20,1-10; 21,20-25). Comprese nei termini della sequela, le
parole di Gesù morente danno a Maria un ruolo materno nella Chiesa e
incoraggiano la comunità dei discepoli ad accoglierla come madre spirituale.
27. Se intendiamo «donna» in senso collettivo, allora la Chiesa è
perennemente chiamata a tenere lo sguardo rivolto a Cristo crocifisso, e ogni
discepolo a prendersi cura della Chiesa in quanto madre. Probabilmente vi è qui
implicita una tipologia Eva-Maria: come la prima «donna» fu tratta dalla
«costola» di Adamo (Gen 2,22; LXX pleura) e divenne la madre di tutti i
viventi (Gen 3,20), così la «donna» Maria è, sul piano spirituale, la madre di
tutti coloro che acquistano la vita nuova dall’acqua e dal sangue che sgorgano
dal costato (in greco pleura) di Cristo (19,34) e dallo Spirito che viene
effuso dal suo trionfante sacrificio (19,30; 20,22; cf. 1Gv 5,8). In tali
letture simboliche e collettive, le immagini della Chiesa, di Maria e della
sequela interagiscono reciprocamente. Maria è vista come la personificazione di
Israele, che ora partorisce la comunità cristiana (cf. Is 54,1; 66,7-8), così
come in precedenza ha partorito il Messia (cf. Is 7,14). Allorché il racconto
giovanneo di Maria all’inizio e alla fine del ministero di Gesù è visto in
questa luce, è difficile parlare della Chiesa senza pensare a Maria, la madre
del Signore, come suo archetipo e sua prima realizzazione.
La donna in Apocalisse 12
28. Con un linguaggio fortemente simbolico, ricco di immagini che rimandano a
tutta la Scrittura, il veggente dell’Apocalisse descrive la visione di un segno
nel cielo che comprende una donna, un drago e il bambino della donna. La
narrazione di Apocalisse 12 serve a rassicurare il lettore sulla vittoria finale
di quelli che sono fedeli a Dio in tempi di persecuzione e di combattimento
escatologico. Nel corso della storia, il simbolo della donna ha portato a una
varietà di interpretazioni. La maggior parte degli studiosi conviene che il
primo significato della donna sia collettivo: il popolo di Dio, che sia Israele,
la Chiesa di Cristo, o entrambi. Inoltre, lo stile narrativo dell’autore lascia
intendere che l’immagine della donna sarà completata solo alla fine del libro,
quando la Chiesa di Cristo diventa la nuova Gerusalemme trionfante (Ap 21,1-3).
Le tribolazioni che la comunità dell’autore sta attraversando sono collocate nel
complessivo quadro della storia, che è la scena del combattimento permanente tra
i fedeli e i loro nemici, tra il bene e il male, tra Dio e satana. L’immagine
della discendenza rinvia al combattimento di Genesi 3,15 tra il serpente e la
donna, tra la stirpe del serpente e la stirpe della donna.[4]
29. Data questa primaria interpretazione ecclesiale di Apocalisse 12, è
ancora possibile rintracciarvi un riferimento secondario a Maria? Il testo non
identifica esplicitamente la donna con Maria. Si riferisce alla donna in quanto
madre del «figlio maschio destinato a governare tutte le nazioni con scettro di
ferro», una citazione dal Salmo 2 che in vari luoghi del Nuovo Testamento è
applicata tanto al Messia quanto al fedele popolo di Dio (cf. Eb 1,5; 5,5; At
13,33 e Ap 2,27). In tale prospettiva, alcuni autori patristici, leggendo questo
capitolo, arrivarono a pensare alla madre di Gesù.[5]
Dato il posto del libro dell’Apocalisse all’interno del canone delle Scritture,
nel quale si intrecciano le differenti immagini bibliche, sorge la possibilità
di un’interpretazione più esplicita, sia personale sia collettiva, di Apocalisse
12, che getti luce sul posto di Maria e della Chiesa nella vittoria escatologica
del Messia.
Riflessione sulla base della Scrittura
30. La testimonianza della Scrittura invita tutti i credenti di ogni
generazione a chiamare «beata» Maria, questa donna ebrea di umile condizione,
questa figlia di Israele che vive nella speranza della giustizia per i poveri,
che Dio ha ricolmato di grazia e scelto per diventare la vergine madre del suo
Figlio attraverso lo Spirito Santo che stende su di lei la sua ombra. La
dobbiamo benedire coma «la serva del Signore», che ha dato il suo incondizionato
assenso a che si adempisse il disegno di salvezza di Dio; come la madre che ha
serbato ogni cosa meditandola nel suo cuore, come la profuga che ha cercato
asilo in terra straniera, come la madre trafitta dalla sofferenza innocente del
suo stesso Figlio, e come la donna alla quale Gesù ha affidato i suoi amici.
Siamo una cosa sola con lei e con gli apostoli, raccolti in preghiera per
l’effusione dello Spirito sulla Chiesa nascente, famiglia escatologica di
Cristo. E possiamo persino intravedere in lei il destino finale del popolo di
Dio, la condivisione della vittoria del Figlio suo sulle potenze del male e
della morte.
B. Maria nella tradizione cristiana
Cristo e Maria nella tradizione comune antica
31. Nella Chiesa primitiva, la riflessione su Maria servì a interpretare e
salvaguardare la tradizione apostolica centrata su Gesù Cristo. La testimonianza
patristica su Maria come «genitrice di Dio» (Theotokos) emerse dalla
riflessione sulla Scrittura e dalla celebrazione delle feste cristiane, ma il
suo sviluppo fu dovuto principalmente alle prime controversie cristologiche.
Forgiatasi nel crogiuolo di queste controversie dei primi cinque secoli, e della
loro soluzione nei concili ecumenici che si succedettero, la riflessione sul
ruolo di Maria nell’incarnazione fu parte integrante dell’articolazione della
fede ortodossa in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo.
32. In difesa della vera umanità di Cristo, contro il docetismo, la Chiesa
primitiva mise in evidenza la nascita di Gesù da Maria. Egli non solo «apparve»
come umano; egli non discese dal cielo con un «corpo celeste», e neppure, quando
nacque, si limitò a «passare attraverso» sua madre. Piuttosto, Maria generò suo
figlio dalla sua sostanza umana. Per Ignazio di Antiochia († 110 ca.) e
Tertulliano († 225 ca.) Gesù è pienamente umano, perché «veramente nato» da
Maria. Secondo il Credo niceno-costantinopolitano (381), «si è incarnato per
opera dello Spirito Santo da Maria vergine, e divenne uomo». La definizione di
Calcedonia (451), riaffermando questo Credo, attesta che Cristo è «consostanziale
al Padre per la divinità e consostanziale a noi per l’umanità». Il Credo
atanasiano confessa ancor più concretamente che egli è «uomo, nato dalla
sostanza della madre». È ciò che affermano, insieme, gli anglicani e i
cattolici.
33. A difesa della vera divinità di Cristo, la Chiesa primitiva mise in
evidenza il concepimento verginale di Gesù Cristo da parte di Maria. Secondo i
padri, questo concepimento per opera dello Spirito Santo testimonia l’origine
divina e l’identità divina di Cristo. Colui che è nato da Maria è l’eterno
Figlio di Dio. I padri d’Oriente e d’Occidente, quali Giustino († 150 ca.),
Ireneo († 202 ca.), Atanasio († 373) e Ambrogio († 397), spiegarono questo
insegnamento del Nuovo Testamento alla luce di Genesi 3 (Maria è l’antitipo
della «vergine Eva») e di Isaia 7,14 (ella adempie la visione del profeta e
genera il «Dio con noi»). Essi si riferiscono al concepimento verginale per
difendere sia la divinità del Signore sia l’onore di Maria. È ciò che confessa
il Credo degli apostoli: Gesù Cristo fu «concepito di Spirito Santo, nacque da
Maria vergine». È ciò che affermano, insieme, gli anglicani e i cattolici.
34. Il titolo di Maria Theotokos venne formalmente invocato per
salvaguardare la dottrina ortodossa dell’unità della persona di Cristo. Questo
titolo è stato in uso nelle Chiese che erano sotto l’influsso di quella di
Alessandria per lo meno dal tempo della controversia ariana. Poiché Gesù Cristo
è «Dio vero da Dio vero», come dichiarò il Concilio di Nicea (325), queste
Chiese conclusero che sua madre, Maria, poteva rettamente essere chiamata la
«genitrice di Dio». Le Chiese che erano sotto l’influsso di quella di Antiochia,
tuttavia, consapevoli della minaccia rappresentata dall’apollinarismo verso la
credenza nella piena umanità di Cristo, non adottarono subito questo titolo. La
disputa tra Cirillo di Alessandria († 444) e Nestorio († 455), patriarca di
Costantinopoli, formatosi alla scuola antiochena, rivelò che il vero nodo della
questione intorno al titolo di Maria era l’unità della persona di Cristo. Il
conseguente Concilio di Efeso (431) usò Theotokos (letteralmente
«genitrice di Dio»; in latino Deipara) per affermare l’unicità della
persona di Cristo attraverso l’identificazione di Maria come la madre di Dio, il
Verbo incarnato.[6]
La regola della fede in questa materia assume un’espressione più precisa nella
definizione di Calcedonia: «un solo e medesimo Figlio (...) generato dal Padre
prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi per noi e per la
nostra salvezza da Maria vergine Theotokos secondo l’umanità». In
recezione del Concilio di Efeso e della definizione di Calcedonia, gli anglicani
e i cattolici confessano, insieme, Maria come Theotokos.
La celebrazione di Maria nelle antiche tradizioni comuni
35. Nei primi secoli, faceva parte della comunione in Cristo un forte senso
della presenza viva dei santi come parte integrante dell’esperienza spirituale
delle Chiese (Eb 12,1; 22,24; Ap 6,9-11; 7; 8,3-4). All’interno del «nugolo di
testimoni», la madre del Signore giunge a essere considerata come avente un
posto speciale. Vi sono dei temi che, sviluppati a partire dalla Scrittura e
nella riflessione devozionale, rivelano una profonda consapevolezza del ruolo di
Maria nella redenzione dell’umanità. Fra tali temi rientra quello di Maria come
controparte di Eva e come tipo della Chiesa. La risposta del popolo cristiano
che medita su questi temi trova un’espressione devozionale sia nella preghiera
privata, sia in quella pubblica.
36. Gli esegeti si sono dilettati a trarre dalla Scrittura immagini femminili
per contemplare il significato tanto della Chiesa quanto di Maria. I padri dei
primi secoli, come Giustino Martire († 150 ca.) e Ireneo († 202 ca.), meditando
su testi come Genesi 3 e Luca 1,26-38, svilupparono, a fianco dell’antitesi
Adamo / nuovo Adamo, quella Eva / nuova Eva. Come Eva è associata ad Adamo nel
causare la nostra perdizione, così Maria è associata al suo Figlio nella
vittoria sull’antico nemico (cf. Gen 3,15; cf. sopra, nota 4): la disobbedienza
della «vergine» Eva ha per conseguenza la morte; l’obbedienza della vergine
Maria apre la strada alla salvezza. La nuova Eva condivide la vittoria del nuovo
Adamo sul peccato e sulla morte.
37. I padri della Chiesa presentarono Maria vergine e madre come un modello
di santità per le vergini consacrate, e insegnarono sempre più che era rimasta
«sempre vergine».[7]
Nella loro riflessione, la verginità era compresa non solo in termini di
integrità fisica, ma come una disposizione interiore di apertura, obbedienza e
fedeltà unanime a Cristo che informa di sé la sequela cristiana e produce una
ricchezza di frutti spirituali.
38. Secondo questa comprensione patristica, la verginità di Maria era
strettamente connessa alla sua santità. Sebbene alcuni antichi esegeti
pensassero che Maria non fosse interamente senza peccato,[8]
Agostino († 430) ci è testimone della contemporanea riluttanza a parlare della
presenza di un qualche peccato in lei.
«Escludiamo dunque la santa vergine Maria, nei riguardi della quale per
l'onore del Signore non voglio si faccia questione alcuna di peccato. Infatti da
che sappiamo noi quanto più di grazia, per vincere il peccato sotto ogni
aspetto, sia stato concesso alla Donna che meritò di concepire e partorire colui
che certissimamente non ebbe nessun peccato?» (De natura et gratia 36,
42).
Altri padri d’Occidente e d’Oriente, richiamandosi al saluto dell’angelo (Lc
1,28) e alla risposta di Maria (Lc 1,38), sostengono l’idea che Maria fu
ricolmata di grazia sin dalla sua origine, come anticipazione della sua
singolare vocazione a essere la madre del Signore. Dal V secolo essi la
acclamano come una nuova creazione: senza colpa, senza macchia, «santa in corpo
e anima» (Teodoto di Ancira, Homilia I, 11; † prima del 446). Dal VI
secolo in poi, in Oriente si trova il titolo Panaghia (tutta santa).
39. A seguito delle dispute cristologiche dei concili di Efeso e Calcedonia,
la devozione mariana divenne fiorente. Quando il patriarca di Antiochia si
rifiutò di riconoscere a Maria il titolo di Theotokos, l’imperatore Leone
I (457-474) ordinò al patriarca di Costantinopoli di inserire tale titolo nella
preghiera eucaristica in tutto l’Oriente. A partire dal VI secolo, la memoria di
Maria «genitrice di Dio» divenne universale nelle preghiere eucaristiche
d’Oriente e d’Occidente (con l’eccezione della Chiesa assira dell’Oriente). I
testi e le immagini che celebravano la santità di Maria si moltiplicarono in
poemi e canti liturgici, come l’Akathistos, un inno scritto probabilmente
subito dopo Calcedonia e ancora cantato nella Chiesa d’Oriente. In tal modo si
stabilì gradualmente una tradizione di preghiera con Maria e di lode a Maria.
Dal IV secolo, specie in Oriente, essa è stata associata con la richiesta della
sua protezione.[9]
40. Dopo il Concilio di Efeso, si cominciarono a dedicare chiese a Maria e in
tali chiese si cominciarono a celebrare feste in suo onore, in determinati
giorni. Sospinte dalla pietà popolare e gradualmente adottate dalle Chiese
locali, le feste che celebravano il concepimento di Maria (8-9 dicembre), la
nascita (8 settembre), la presentazione (21 novembre) e la dormizione (15
agosto) rispecchiavano le commemorazioni liturgiche di eventi della vita del
Signore. Esse attinsero sia alle Scritture canoniche sia anche ai racconti
apocrifi relativi all’infanzia di Maria e al suo «addormentarsi». Una festa del
concepimento di Maria può essere datata in Oriente verso la fine del VII secolo,
e venne introdotta nella Chiesa d’Occidente attraverso l’Inghilterra meridionale
all’inizio dell’XI secolo. Tale festa faceva riferimento alla devozione popolare
che si esprimeva nel Protovangelo di Giacomo (II secolo), e si affiancò
alla festa domenicale dell’annunciazione e alla già esistente festa del
concepimento di Giovanni il Battista. La festa dell’«addormentarsi» di Maria
data dalla fine del VI secolo, ma fu influenzata dalle leggendarie narrazioni
sulla fine della vita di Maria, già ampiamente diffuse. In Occidente, le più
influenti tra queste sono i racconti del Transitus Mariae. In Oriente la
festa era nota come la «dormizione», il che implicava la sua morte ma non
escludeva che fosse stata portata in cielo. In Occidente il termine usato fu
«assunzione», che metteva in risalto il fatto che fosse stata portata in cielo
ma non escludeva la possibilità della sua morte. La credenza nella sua
assunzione si basò sulla promessa della risurrezione da morte e sul
riconoscimento della dignità di Maria in quanto Theotokos e «sempre
vergine», unita alla convinzione che colei che aveva generato la Vita dovesse
essere associata alla vittoria del Figlio suo sulla morte, e alla glorificazione
del suo corpo, la Chiesa.
Lo sviluppo della dottrina e della devozione mariane nel Medioevo
41. La diffusione di queste feste di Maria diede origine a omelie nelle quali
i predicatori setacciavano le Scritture alla ricerca di modelli e di motivi in
grado di gettare luce sul posto della Vergine nell’economia della salvezza. Nel
corso dell’alto Medioevo, a una crescente insistenza verso l’umanità di Cristo
corrispose l’attenzione rivolta alle virtù esemplari di Maria. Bernardo, ad
esempio, nelle sue omelie modula questa insistenza. La meditazione sulla vita di
Cristo come su quella di Maria divenne sempre più popolare, e diede origine allo
sviluppo di pratiche devozionali quali il rosario. Le pitture, le sculture e le
vetrate dell’alto e basso Medioevo provvedono a tale devozione immediatezza e
colore.
42. Lungo questi secoli vi furono alcuni importanti spostamenti d’accento
nella riflessione teologica su Maria. I teologi dell’alto Medioevo svilupparono
la riflessione patristica su Maria come «tipo» della Chiesa, e anche come nuova
Eva, secondo una linea che l’associava sempre più strettamente a Cristo nella
permanente opera della redenzione. Il centro dell’attenzione dei credenti si
spostò da Maria come rappresentazione della Chiesa fedele, e in tal modo anche
dell’umanità redenta, a Maria come dispensatrice ai fedeli delle grazie di
Cristo. I teologi della scolastica in Occidente svilupparono un corpo sempre più
elaborato di dottrine riguardo a Maria in quanto tale. Molte di queste dottrine
furono alimentate dalla speculazione riguardo alla santità e alla santificazione
di Maria. Le domande in proposito furono influenzate non solo dalla teologia
scolastica della grazia e del peccato originale, ma anche dalle varie congetture
in tema di procreazione e di relazione tra anima e corpo. Ad esempio, se Maria
era stata santificata nel seno di sua madre, ancor più perfettamente di Giovanni
il Battista e di Geremia, alcuni teologi pensarono che il momento esatto della
sua santificazione doveva essere individuato sulla base della concezione
corrente del momento in cui l’«anima razionale» veniva infusa nel corpo. Gli
sviluppi della teologia nella dottrina occidentale della grazia e del peccato
sollevarono altre questioni: come poteva Maria essere libera da ogni peccato,
compreso il peccato originale, senza mettere in discussione il ruolo di Cristo
come il Salvatore universale? La riflessione speculativa portò a dispute assai
intense su come la grazia redentrice di Cristo potesse aver preservato Maria dal
peccato originale. L’equilibrata teologia intorno alla santificazione di Maria,
presente nella Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino, e il sottile
ragionamento di Duns Scoto a proposito di Maria, furono messi in campo nella
vasta controversia in cui si discuteva se Maria fosse immacolata sin dal primo
istante del suo concepimento.
43. Nel basso Medioevo la teologia scolastica si sviluppò sempre più
separatamente dalla spiritualità. Mentre perdevano progressivamente il
radicamento nell’esegesi biblica, i teologi si affidavano alla probabilità
logica per fondare le loro posizioni, e i nominalisti speculavano su cosa poteva
essere compiuto dall’assoluta potenza e volontà di Dio. La spiritualità, perduta
la tensione creativa che la legava alla teologia, pose in rilievo l’affettività
e l’esperienza personale. Nella religione popolare, Maria giunse a essere
diffusamente considerata come un’intermediaria tra Dio e l’umanità, e persino
come operatrice di miracoli, dotata di poteri che inclinavano verso il divino.
Questa pietà popolare influenzò, a tempo debito, le opinioni teologiche di
coloro che vi erano cresciuti dentro, e che di conseguenza elaborarono un
fondamento teologico per la fiorente devozione mariana del basso Medioevo.
Dalla Riforma ai giorni nostri
44. All’inizio del XVI secolo, uno dei più potenti impulsi alla Riforma fu
rappresentato da una diffusa reazione contro quelle pratiche devozionali che si
accostavano a Maria come mediatrice a fianco di Cristo, o talvolta persino al
suo posto. Tali esagerazioni nella devozione, in parte ispirate da presentazioni
di Cristo come Giudice e Redentore inaccessibile, vennero aspramente criticate
da Erasmo e da Tommaso Moro e risolutamente respinte dai riformatori. Insieme a
una radicale ri-recezione della Scrittura come parametro fondamentale della
divina rivelazione, ci fu una ri-recezione da parte dei riformatori della
credenza in Gesù Cristo come unico mediatore tra Dio e l’umanità. Ciò comportò
un rifiuto degli abusi, reali e supposti, soggiacenti alla devozione mariana.
Ciò condusse anche alla perdita di alcuni aspetti positivi di tale devozione e
alla riduzione del suo posto nella vita della Chiesa.
45. In tale contesto, i riformatori inglesi continuarono ad accettare la
dottrina della Chiesa antica a proposito di Maria. Il loro insegnamento positivo
a riguardo di Maria si focalizzò sul suo ruolo nell’incarnazione: è riassunto
nella loro accoglienza di Maria come la Theotokos, ciò che era visto sia
in coerenza con la Scrittura, sia in accordo con l’antica tradizione comune.
Seguendo le tradizioni della Chiesa primitiva e altri riformatori come Martin
Lutero, i riformatori inglesi, quali Latimer (Opere, 2,105), Cranmer (Opere,
2,60; 2,88) e Jewel (Opere, 3,440-441), accettarono che Maria fosse
«sempre vergine». Seguendo Agostino, mostrarono una certa reticenza ad affermare
che Maria fosse una peccatrice. La loro principale preoccupazione fu di mettere
in evidenza l’unicità di Cristo nella sua assenza di peccato, e il bisogno per
tutta l’umanità, compresa Maria, di un Salvatore (cf. Lc 1,47). Gli Articoli IX
e XV affermarono l’universalità dell’umana condizione di peccato. In essi non si
afferma né si nega la possibilità che Maria sia stata preservata in virtù della
grazia dalla partecipazione a questa condizione umana generale. È significativo
che il Book of Common Prayer nella colletta e nel prefazio di Natale si
riferisca a Maria come a «una pura vergine ».
46. Dal 1561, il calendario della Chiesa d’Inghilterra (riportato nel Book
of Common Prayer del 1662), ha contenuto cinque feste legate a Maria:
Concepimento di Maria, Natività di Maria, Annunciazione, Visitazione e
Purificazione/Presentazione. Peraltro non c’era più una festa dell’Assunzione
(15 agosto): non solo veniva percepita come carente di un fondamento nelle
Scritture, ma era anche vista come un’esaltazione di Maria a danno di Cristo. La
liturgia anglicana, nei successivi Books of Common Prayer (1549, 1552,
1559, 1662), quando cita Maria, mette in risalto il suo ruolo di «pura vergine»
dalla cui «sostanza» il Figlio prese la natura umana (cf. Articolo II). Malgrado
il calo della devozione a Maria nel XVI secolo, l’onore nei suoi confronti
perdurò nel mantenimento del Magnificat nella Preghiera della sera, e
nell’immutata dedicazione di antiche chiese e cappelle. Nel XVII secolo autori
quali Lancelot Andrewes, Jeremy Taylor e Thomas Ken ri-conquistarono dalla
tradizione patristica un più pieno apprezzamento del posto di Maria nelle
preghiere dei credenti e della Chiesa. Ad esempio, Andrewes nelle sue Preces
privatae si rivolse alle liturgie orientali quando mostrò tutto il suo
calore verso la devozione mariana «che celebra la tuttasanta, immacolata,
beatissima madre di Dio e sempre vergine Maria». Questa ri-conquista può essere
delineata lungo il secolo successivo, e nel Movimento di Oxford del XIX secolo.
47. Nella Chiesa cattolica romana l’incessante sviluppo della dottrina e
della devozione mariana, se da un lato fu moderato dai decreti di riforma del
Concilio di Trento (1545-63), dall’altro patì l’influsso deviante delle
polemiche tra protestanti e cattolici. Essere cattolici finì con l’identificarsi
con il porre in primo piano la devozione a Maria. La profondità e la popolarità
della spiritualità mariana nel XIX secolo e nella prima metà del XX
contribuirono alla definizione dei dogmi dell’immacolata concezione (1854) e
dell’assunzione (1950). D’altro canto, una spiritualità così pervasiva cominciò
a dare origine a critiche all’interno come all’esterno della Chiesa cattolica
romana, e avviò un processo di ri-recezione. Questa ri-recezione divenne
evidente al concilio Vaticano II, quando, in coerenza con il rinnovamento
biblico, patristico e liturgico contemporaneo, e tenendo conto della sensibilità
ecumenica, i padri sinodali scelsero di non redigere un documento separato su
Maria, ma di inserire la dottrina che la riguardava nella costituzione sulla
Chiesa
Lumen gentium (1964) – più
esattamente, nella sezione conclusiva che descrive il pellegrinaggio
escatologico della Chiesa (c. VIII). Il Concilio intese «illustrare attentamente
sia la funzione della beata Vergine nel mistero del Verbo incarnato e del corpo
mistico, sia i doveri degli uomini redenti verso la madre di Dio, madre di
Cristo e madre degli uomini, specialmente dei fedeli» (art. n. 54). La
Lumen gentium si conclude
definendo Maria segno di speranza e di consolazione per il popolo di Dio
pellegrino (cf. nn. 68-69). I padri sinodali cercarono consapevolmente di
resistere a certi eccessi riandando alle sottolineature dell’epoca patristica e
collocando la dottrina e la devozione mariane nel contesto cristologico ed
ecclesiale loro proprio.
48. Poco dopo il Concilio, di fronte a un imprevisto declino nella devozione
a Maria, papa Paolo VI pubblicò un’esortazione apostolica, intitolata
Marialis cultus (1974), con
l’obiettivo di rimuovere alcuni dubbi relativamente agli intenti del Concilio e
di promuovere una corretta devozione mariana. La sua trattazione del posto di
Maria nel Rito romano riformato mostrò che non è stata «ridimensionata» dal
rinnovamento liturgico, bensì che la devozione verso di lei è correttamente
collocata all’interno del nucleo cristologico della preghiera pubblica della
Chiesa. Il papa meditò su Maria «quale modello dell'atteggiamento spirituale con
cui la Chiesa celebra e vive i divini misteri» (n. 16). Ella è modello di tutta
la Chiesa, ma anche «maestra di vita spirituale per i singoli cristiani»
(n. 21). Secondo Paolo VI, l’autentico rinnovamento della devozione mariana deve
essere integrato dalla dottrina che riguarda Dio, Cristo e la Chiesa. La
devozione a Maria deve essere conforme alle Scritture e alla liturgia della
Chiesa; deve essere sensibile alle preoccupazioni degli altri cristiani e deve
affermare la piena dignità delle donne nella vita pubblica e in quella privata.
Il papa inoltre ammonì coloro che cadono in errore sia a causa di esagerazioni,
sia a causa di trascuratezze. Infine, raccomandò la recita dell’Angelus e
del rosario, devozioni tradizionali compatibili con queste norme. Nel 2002, papa
Giovanni Paolo II rafforzò il ruolo cristologico centrale del rosario proponendo
cinque «misteri della luce» tratti dai racconti evangelici del ministero
pubblico di Gesù compreso tra il suo battesimo e la sua passione. «Il rosario –
affermò il papa –, pur caratterizzato dalla sua fisionomia mariana, è preghiera
dal cuore cristologico» (Rosarium virginis Mariae, n. 1).
49. Attraverso il rinnovamento liturgico del XX secolo Maria trova una nuova
rilevanza nel culto anglicano. Nella gran parte dei libri liturgici anglicani,
Maria è nuovamente chiamata per nome nelle preghiere eucaristiche. Inoltre il 15
agosto è arrivato a essere diffusamente celebrato come una delle feste
principali in onore di Maria, con letture bibliche, colletta e prefazio propri.
Sono state ricuperate anche altre feste associate a Maria, e sono state messe a
disposizione risorse liturgiche perché trovassero utilizzo in queste festività.
Considerato il ruolo definitivo, nei formulari anglicani, dei testi e delle
pratiche liturgiche autorizzati, tali sviluppi sono estremamente significativi.
50. Gli sviluppi di cui sopra dimostrano che, negli ultimi decenni, nel seno
della Comunione anglicana ha guadagnato spazio una ri-recezione del posto di
Maria nel culto collettivo. Allo stesso tempo, nel c. VIII della
Lumen gentium e nell’esortazione
Marialis cultus la Chiesa
cattolica romana ha cercato di inquadrare la devozione a Maria all’interno del
contesto dell’insegnamento della Scrittura e dell’antica tradizione comune. Ciò
costituisce, per la Chiesa cattolica romana, una ri-recezione dell’insegnamento
su Maria. La revisione del calendario e dei lezionari in uso presso le nostre
comunioni, in particolare le prescrizioni liturgiche legate alle feste di Maria,
mostra tutta l’evidenza di un processo condiviso in cui è stata ri-ricevuta la
testimonianza della Scrittura sul suo posto nella fede e nella vita della
Chiesa. La crescita degli scambi ecumenici ha contribuito al processo di
ri-recezione in ambedue le comunioni.
51. Le Scritture ci conducono insieme a lodare e a benedire Maria come la
serva del Signore, colei che fu preparata provvidenzialmente dalla grazia divina
a essere la madre del nostro Redentore. Il suo incondizionato assenso al
compimento del disegno di salvezza di Dio può essere visto come l’esempio
supremo dell’«Amen» di un credente in risposta al «sì» di Dio. Ella si pone come
modello di santità, di obbedienza e di fede per tutti i cristiani. Essendo colei
che ha ricevuto la Parola nel suo cuore e nel suo corpo, e l’ha portata al
mondo, Maria fa parte della tradizione profetica. Ci siamo trovati d’accordo nel
credere nella beata vergine Maria come Theotokos. Le nostre due comunioni
sono entrambe eredi di una ricca tradizione che riconosce Maria come sempre
vergine, e la vede come nuova Eva e tipo della Chiesa. Ci uniamo nella preghiera
e nella lode a Maria, che tutte le generazioni hanno chiamato beata,
nell’osservare le sue festività e nel riconoscere l’onore che le spetta nella
comunione dei santi, e siamo d’accordo sul fatto che Maria e i santi pregano per
l’intera Chiesa (cf. sotto, sez. D). In tutto questo, vediamo Maria
inseparabilmente legata a Cristo e alla Chiesa. Entro questa ampia
considerazione del ruolo di Maria, ora ci concentreremo sulla teologia della
speranza e della grazia.
C. Maria secondo il modello della grazia e della speranza
52. La partecipazione alla gloria di Dio attraverso la mediazione del Figlio,
per la potenza dello Spirito, è la speranza del Vangelo (cf. 2Cor 3,18; 4,4-6).
La Chiesa gode già di questa speranza e di questo destino attraverso lo Spirito
Santo, che è il «pegno» della nostra eredità in Cristo (Ef 1,14; 2Cor 5,5).
Specie in Paolo, si può comprendere rettamente che cosa significa essere
pienamente umano quando lo si vede nella luce di ciò che siamo destinati a
diventare in Cristo, l’«ultimo Adamo», in opposizione a ciò che siamo diventati
nel vecchio Adamo (1Cor 15,42-49; cf. Rm 5,12-21). Questa prospettiva
escatologica vede la vita cristiana secondo la visione del Cristo che, essendo
stato innalzato al cielo, guida i credenti a deporre i peccati che li assediano
(Eb 12,1-2) e a partecipare alla purezza del suo amore, reso disponibile
attraverso il suo sacrificio d’espiazione (1Gv 3,3; 4,10). In tal modo vediamo
l’economia della grazia nella storia «a partire dalla fine», dal suo compimento
in Cristo, piuttosto che «a partire dall’inizio», dalla creazione caduta verso
il futuro in Cristo. Questa prospettiva fornisce una luce nuova in cui
considerare il posto di Maria.
53. La speranza della Chiesa è fondata sulla testimonianza che ha ricevuto a
riguardo dell’attuale gloria di Cristo. La Chiesa proclama che Cristo non solo
fu risuscitato nella carne dalla tomba, ma fu innalzato alla destra del Padre,
per partecipare alla sua gloria (1Tm 3,16, 1Pt 1,21). I credenti, nella misura
in cui sono uniti a Cristo nel battesimo e ne condividono le sofferenze (Rm
6,1-6), partecipano per mezzo dello Spirito della sua gloria, e sono risuscitati
con lui come anticipazione della rivelazione finale (cf. Rm 8,17; Ef 2,6; Col
3,1). È il destino della Chiesa e dei suoi membri, i «santi» scelti in Cristo
«prima della creazione del mondo» a essere «santi e immacolati» e a partecipare
della gloria di Cristo (Ef 1,3-5; 5,27). Paolo parla in forma retrospettiva,
come se si trovasse nel futuro, quando dice: «quelli poi che ha predestinati li
ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che
ha giustificati li ha anche glorificati» (Rm 8,30). Nei capitoli della Lettera
ai Romani che seguono, Paolo esplicita questo multiforme dramma dell’elezione di
Dio in Cristo, in vista del suo fine: l’inclusione dei gentili, allorché «tutto
Israele sarà salvato» (Rm 11,26).
Maria nell’economia della grazia
54. In tale contesto biblico abbiamo preso nuovamente in considerazione il
posto proprio della vergine Maria nell’economia della grazia, come colei che
generò Cristo, l’eletto di Dio. La parola di Dio di cui Gabriele è messaggero si
rivolge a lei come già «graziata», invitandola a rispondere nella fede e nella
libertà alla chiamata di Dio (Lc 1,28.38.45). Lo Spirito è operante dentro di
lei nel concepimento del Salvatore, e costei che è «benedetta tra le
donne» è ispirata a cantare «tutte le generazioni mi chiameranno benedetta»
(Lc 1,42.48). Dal punto di vista dell’escatologia, Maria in tal modo incarna
l’«eletto Israele» di cui parla Paolo – glorificato, giustificato, chiamato,
predestinato. Questo è il modello della grazia e della speranza che vediamo
operante nella vita di Maria, che occupa un posto proprio nel destino comune
della Chiesa, come colei che ha generato nella sua propria carne «il Signore
della gloria». Maria è designata sin dall’inizio come colei che è stata scelta,
chiamata e ricolmata di grazia da Dio per mezzo dello Spirito Santo in vista del
compito che le sta dinanzi.
55. Le Scritture ci parlano di donne sterili che ricevettero in dono da Dio
dei figli, come Rachele, la moglie di Manoach, Anna (Gen 30,1-24; Gdc 13; 1Sam
1), e di gravidanze in età avanzata, come quella di Sara (Gen 18,9-15; 21,1-7) e
ancor più di Elisabetta, la cugina di Maria (Lc 1,7-24). Queste donne mettono in
rilievo il ruolo del tutto singolare di Maria, che non essendo né sterile né in
età avanzata, fu una vergine feconda: nel suo grembo lo Spirito determinò il
concepimento di Gesù. Le Scritture parlano anche della cura di Dio per ogni
essere umano, prima ancora che venga alla luce (Sal 139,13-18), e riferiscono
dell’azione della grazia di Dio che precede, fin dal concepimento, la specifica
chiamata di particolari persone (cf. Ger 1,5; Lc 1,15; Gal 1,15). Come la Chiesa
primitiva, nell’accoglimento, da parte di Maria, della volontà divina anche noi
ravvisiamo il frutto della preparazione ricevuta anteriormente, espressa dalla
definizione di «piena di grazia» che Gabriele dà di lei. Possiamo così vedere
che Dio era all’opera in Maria sin dai suoi primi istanti, per prepararla alla
singolare vocazione di generare nella propria carne il nuovo Adamo, nel quale
sussistono «tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra» (cf. Col
1,16-17). Possiamo dire di Maria, sia in quanto persona, sia in quanto figura
tipica, che è opera di Dio, creata in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha
predisposto perché le praticassimo (Ef 2,10).
56. Maria, una pura vergine, genera nel suo grembo il Dio incarnato. La sua
intimità fisica col figlio fu una cosa sola con la sequela fedele e con la
materna partecipazione alla vittoriosa auto-donazione di Cristo (Lc 2,35). Come
abbiamo visto, tutto questo è chiaramente attestato nella Scrittura. Non vi è
invece alcuna testimonianza diretta, nella Scrittura, a proposito della fine
della vita di Maria. Tuttavia, alcuni passi ci forniscono l’esempio che quanti
seguono fedelmente i disegni di Dio vengono tratti alla presenza di Dio.
Inoltre, questi passi offrono degli indizi o delle parziali analogie che possono
far luce sul mistero dell’ingresso di Maria nella gloria. Ad esempio, il modello
biblico dell’anticipazione escatologica appare nel racconto di Stefano, il primo
martire (At 7,54-60). Al momento della morte, che è conforme a quella del suo
Signore, egli vede «la gloria di Dio e Gesù», il «Figlio dell'uomo», non assiso
in giudizio, ma «che sta alla destra di Dio» ad accogliere il suo servo fedele.
In modo analogo, il ladrone pentito che fa appello a Cristo crocifisso riceve la
speciale promessa che sarà subito con Cristo in Paradiso (Lc 23,43). Elia, servo
fedele di Dio, viene preso in un turbine e portato in cielo (2Re 2,11), e di
Enoch è scritto: «ricevette la testimonianza di essere stato gradito a Dio» come
uomo di fede, e pertanto «fu trasportato via, in modo da non vedere la morte; e
non lo si trovò più, perché Dio lo aveva portato via» (Eb 11,5; cf. Gen 5,24).
All’interno di un tale modello di anticipazione escatologica, Maria può essere
vista anche come la discepola fedele pienamente presente con Dio in Cristo. In
tal modo, Maria è segno di speranza per tutta l’umanità.
57. Il modello della grazia e della speranza già prefigurato in Maria sarà
compiuto nella nuova creazione in Cristo, quando tutti i redenti parteciperanno
alla pienezza della gloria del Signore (cf. 2Cor 3,18). L’esperienza cristiana
di comunione con Dio nella vita presente è segno e anticipazione della grazia e
della gloria divine, una speranza condivisa con tutta la creazione (Rm 8,18-23).
Il singolo credente e la Chiesa trovano il loro compimento nella nuova
Gerusalemme, la santa sposa di Cristo (cf. Ap 21,2; Ef 5,27). Quando i
cristiani, a Oriente come a Occidente, generazione dopo generazione hanno
considerato l’opera di Dio in Maria, attraverso il loro discernimento nella fede
(cf.
Il dono dell’autorità, n. 29)
hanno trovato appropriato che il Signore l’abbia interamente ricongiunta a sé:
in Cristo, Maria è già una nuova creazione, nella quale «le cose vecchie sono
passate, ecco ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17). Considerata da tale
prospettiva escatologica, Maria può essere vista sia come tipo della Chiesa, sia
come discepola che gode di un posto speciale nell’economia della salvezza.
Le definizioni papali
58. Fino a questo punto abbiamo posto in evidenza la nostra fede comune
riguardo al posto di Maria nel disegno di Dio. I cristiani cattolici, tuttavia,
sono vincolati a credere all’insegnamento definito da papa Pio XII nel 1950:
«Che l’immacolata madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della
vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo». Si noti che il
dogma non adotta una particolare posizione su come ebbe fine la vita di Maria,
[10]
e neppure utilizza, per ciò che la riguarda, il linguaggio della morte e della
risurrezione, ma celebra l’azione di Dio in lei. In tal modo, data la
comprensione che abbiamo raggiunto in riferimento al posto di Maria
nell’economia della speranza e della grazia, possiamo affermare insieme questo
insegnamento: che Dio ha preso nella sua gloria la beata vergine Maria nella
pienezza della sua persona, in consonanza con la Scrittura, e che ciò può essere
davvero compreso solo alla luce della Scrittura. I cattolici possono riconoscere
che questo insegnamento su Maria è contenuto nel dogma. Mentre la vocazione e il
destino di tutti i redenti è la loro glorificazione in Cristo, Maria, in quanto
Theotokos, occupa nella comunione dei santi il posto preminente e incarna
il destino della Chiesa.
59. I cattolici sono pure vincolati a credere che «la beatissima vergine
Maria nel primo istante della sua concezione, per singolare grazia e privilegio
di Dio onnipotente, in vista dei meriti di Gesù Cristo, salvatore del genere
umano, è stata preservata immune da ogni macchia di peccato originale» (Dogma
dell’immacolata concezione di Maria, definito da papa Pio IX, 1854).
[11]
Tale definizione insegna che Maria, come ogni altro essere umano, ha bisogno di
Cristo come Salvatore e Redentore (cf.
Lumen gentium, n. 53;
Catechismo della Chiesa cattolica, n. 491). La nozione
negativa di «senza macchia» corre il rischio di oscurare la pienezza dell’opera
di salvezza di Cristo. Non si tratta tanto del fatto che a Maria manchi qualcosa
che gli altri esseri umani «hanno», e cioè il peccato, quanto che la gloria
della grazia di Dio l’ha ricolmata sin dall’inizio.<[12]
In Maria, prototipo della speranza della grazia per tutta l’umanità, fu vista,
per grazia immeritata, la santità che è il nostro fine in Cristo (cf. 1Gv
3,2-3). Secondo il Nuovo Testamento, la condizione di «graziata» si connota come
condizione di libertà dal peccato per mezzo del sangue di Cristo (Ef 1,6-7). Le
Scritture indicano l’efficacia del sacrificio di riparazione di Cristo anche nei
confronti di coloro che lo hanno preceduto nel tempo (cf. 1Pt 3,19; Gv 8,56;
1Cor 10,4). Di nuovo, qui è la prospettiva escatologica che illumina la nostra
comprensione della persona e della chiamata di Maria. In vista della sua
vocazione a essere la madre del Santo (Lc 1,35), possiamo affermare insieme che
l’opera di redenzione di Cristo ha raggiunto Maria «fino in fondo», nell’intimo
del suo essere e nei suoi primissimi momenti di vita. Ciò non è contrario
all’insegnamento della Scrittura, e può essere compreso solo alla luce della
Scrittura. In ciò, i cattolici possono riconoscere quanto viene affermato nel
dogma – e cioè: «preservata immune da ogni macchia di peccato originale» e «nel
primo istante della sua concezione».
60. Abbiamo concordato insieme che l’insegnamento riguardo a Maria nelle due
definizioni del 1854 e del 1950, compreso all’interno del modello biblico, qui
evidenziato, dell’economia della grazia e della speranza, può dirsi consonante
con l’insegnamento delle Scritture e le antiche tradizioni comuni. Tuttavia,
nella comprensione cattolica, così come si esprime in queste due definizioni, la
proclamazione di un dato insegnamento come dogma comporta che l’insegnamento in
questione venga considerato «divinamente rivelato» e pertanto da credere
«fermamente e inviolabilmente» da parte di tutti i fedeli (cioè che è de fide).
Il problema che il dogma può presentare per gli anglicani può essere posto nei
termini dell’Articolo VI:
«La sacra Scrittura contiene tutto ciò che è necessario per la salvezza. Non
si deve quindi esigere da nessuno di credere come articolo di fede, né si deve
pensare sia richiesto o necessario per la salvezza, tutto ciò che non si legge
in esse o che non può essere provato attraverso di esse».
Siamo d’accordo che non si può richiedere di credere come articolo di fede
nulla che non sia rivelato da Dio. La domanda che tuttavia sorge, per gli
anglicani, è se tali dottrine riguardanti Maria siano rivelate da Dio in modo
tale da dover essere ritenute come materia di fede.
61. Lo specifico contesto e le precise formulazioni delle definizioni del
1854 e del 1950 hanno creato dei problemi non solo fra gli anglicani ma anche
fra gli altri cristiani. Le formulazioni di queste dottrine e alcune obiezioni
nei loro confronti vanno collocate all’interno della forma mentis di quei
tempi. In particolare, le espressioni «rivelata da Dio (a Deo revelatam)»
(1854) e «da Dio rivelato (divinitus revelatum)» (1950) utilizzate nei
dogmi riflettono la teologia della rivelazione predominante nella Chiesa
cattolica romana al tempo in cui le definizioni vennero elaborate, e che si
trova autoritativamente espressa nella costituzione Dei Filius del
concilio Vaticano I. Oggi, quelle espressioni devono essere comprese alla
luce del modo in cui tale insegnamento è stato raffinato dal concilio Vaticano
II nella costituzione
Dei Verbum, con particolare
riguardo al ruolo centrale della Scrittura nella recezione e nella trasmissione
della rivelazione. Quando la Chiesa cattolica romana afferma che una verità è
«rivelata da Dio», non si intende in alcun modo proporre una nuova rivelazione.
Piuttosto, le definizioni sono comprese nel senso di una testimonianza resa a
ciò che è stato rivelato sin dal principio. Le Scritture rendono a tale
rivelazione una testimonianza normativa (cf.
Il dono dell’autorità, n. 19).
Questa rivelazione viene ricevuta dalla comunità dei credenti e trasmessa nel
tempo e nello spazio attraverso le Scritture e attraverso la predicazione, la
liturgia, la spiritualità, la vita e l’insegnamento della Chiesa, che attinge
alle Scritture. Ne
Il dono dell’autorità la
Commissione ha cercato di illustrare attraverso quale metodo questo insegnamento
autoritativo possa sorgere, e ha indicato come punto-chiave la necessità che sia
conforme alla Scrittura, un aspetto che rimane di primaria importanza sia per
gli anglicani che per i cattolici.
62. Gli anglicani hanno anche posto la domanda se tali dottrine devono essere
ritenute dai credenti come materia di fede anche in riferimento al fatto che il
vescovo di Roma ha definito tali dottrine «indipendentemente da un concilio» (cf.
Autorità nella Chiesa II, n. 30). La risposta dei cattolici si è
incentrata sul sensus fidelium, sulla tradizione liturgica presso le
varie Chiese locali e sul sostegno tangibile dei vescovi cattolici (cf.
Il dono dell’autorità, nn.
29-30): sono stati questi gli elementi attraverso i quali tali dottrine sono
state riconosciute parte della fede della Chiesa, e pertanto passibili di
definizione (cf. Il dono dell’autorità, n. 47).
Per i cattolici, fa parte dell’ufficio del vescovo di Roma il fatto che egli, al
verificarsi di precise condizioni, possa definire una proposizione (cf.
Pastor aeternus, 1870; Denz 3069-3070). Le proposizioni del 1854 e del 1950
non furono definite in risposta a una controversia, ma diedero voce al consenso
di fede presente tra i fedeli in comunione col vescovo di Roma. Furono
ri-affermate dal concilio Vaticano II. Per gli anglicani, solo l’assenso di un
concilio ecumenico, il cui insegnamento sia secondo le Scritture, dimostra con
la massima sicurezza che si sono verificate le condizioni necessarie perché un
insegnamento sia de fide. Quando ciò si verifica, come è stato per la
definizione della Theotokos, sia i cattolici sia gli anglicani concordano
che la testimonianza della Chiesa deve essere fermamente e inviolabilmente
creduta da parte di tutti i fedeli (cf. 1Gv 1,1-3).
63. Gli anglicani hanno domandato se tra le condizioni di un futuro
ristabilimento della piena comunione sarà loro richiesto di accettare le
definizioni del 1854 e del 1950. I cattolici giudicano difficile immaginare un
ristabilimento della comunione nel quale l’accettazione di determinate dottrine
sarebbe richiesta agli uni e non agli altri. Nell’affrontare questi problemi,
siamo stati memori del fatto che «una conseguenza della nostra separazione è
stata la tendenza sia degli anglicani sia dei cattolici di esagerare
l’importanza dei dogmi mariani in sé, a spese di altre verità più strettamente
correlate con i fondamenti della fede cattolica» (Autorità nella Chiesa II,
n. 30). Gli anglicani e i cattolici concordano sul fatto che le dottrine
dell’assunzione e dell’immacolata concezione di Maria devono essere comprese
alla luce di una verità più centrale, quella della sua identità di Theotokos,
che a sua volta dipende dalla fede nell’incarnazione. Riconosciamo che, in base
al concilio Vaticano II e all’insegnamento degli ultimi papi, è in corso nella
Chiesa cattolica romana una ri-recezione del contesto cristologico ed
ecclesiologico della dottrina della Chiesa riguardo a Maria. La nostra
indicazione è ora di adottare una prospettiva escatologica, che possa
approfondire la comprensione già condivisa del posto di Maria nell’economia
della grazia, e della tradizione della Chiesa riguardo a Maria che entrambe le
nostre comunioni ricevono. È nostra speranza che la Chiesa cattolica romana e la
Comunione anglicana riconoscano nell’accordo su Maria qui offerto una fede
comune. Una tale ri-recezione significherebbe che l’insegnamento e la devozione
mariani nelle nostre rispettive comunità, comprese le differenze di accenti,
sarebbero visti come un’autentica espressione del credo cristiano.[13]
Ogni ri-recezione di questo tipo dovrebbe aver luogo nel contesto della
reciproca ri-recezione di un’effettiva autorità di insegnare della Chiesa, come
quella esposta ne
Il dono dell’autorità.
D. Maria nella vita della Chiesa
64. «Tutte le promesse di Dio» in Cristo «sono divenute “sì”. Per questo
sempre attraverso lui sale a Dio il nostro “Amen” per la sua gloria» (2Cor
1,20). Il «sì» di Dio in Cristo assume una forma propria ed esigente allorché
viene rivolto a Maria. Il profondo mistero del «Cristo in voi, speranza della
gloria» (Col 1,27) ha per lei un significato del tutto singolare. Le permette di
pronunciare l’«Amen» nel quale, per mezzo dello Spirito che la prende sotto la
propria ombra, si inaugura il «sì» di Dio della nuova creazione. Come abbiamo
visto, questo fiat di Maria assunse un carattere proprio, nella sua
apertura alla parola di Dio e lungo il sentiero su cui lo Spirito la condusse
sino ai piedi della croce e oltre. Le Scritture ritraggono Maria che cresce
nella sua relazione con Cristo: la condivisione, da parte di lui, della famiglia
naturale di lei (cf. Lc 2,39) si trasmuta nella condivisione, da parte di lei,
della famiglia escatologica di lui, di coloro sui quali viene effuso lo Spirito
(At 1,14; 2,1-4). In tal modo l’«Amen» di Maria al «sì» di Dio in Cristo rivolto
a lei è unico e allo stesso tempo è modello per ciascun discepolo e per la vita
della Chiesa.
65. Uno degli esiti del nostro studio è stato la consapevolezza dei
differenti modi in cui l’esempio di Maria che sperimenta la grazia di Dio è
stato assunto nella vita devozionale delle nostre tradizioni. Mentre entrambe le
tradizioni hanno riconosciuto il suo particolare posto nella comunione dei
santi, sono state diverse le sottolineature che hanno segnato il modo in cui
abbiamo sperimentato il suo ministero. Gli anglicani sono tendenzialmente
partiti dalla riflessione sull’esempio biblico, che descrive Maria come
ispirazione e modello della sequela. I cattolici hanno dato maggiore evidenza al
ministero permanente di Maria nell’economia della grazia e nella comunione dei
santi. Maria indirizza le persone a Cristo, gliele raccomanda e le aiuta a
condividere la sua vita. Nessuna di queste due caratterizzazioni generiche rende
piena giustizia alla ricchezza e alla varietà dell’una o dell’altra tradizione,
e il XX secolo è stato testimone di una particolare crescita della convergenza,
poiché molti anglicani sono stati attirati verso una più attiva devozione a
Maria, e i cattolici hanno nuovamente scoperto le radici scritturistiche di
questa devozione. Concordiamo insieme che nel comprendere Maria come il più
pieno esempio umano della vita della grazia, siamo chiamati a riflettere sulle
lezioni che ci vengono dalla sua vita, attestate dalla Scrittura, e a unirci a
lei come a quella che effettivamente non è morta, ma veramente vive in Cristo.
Nel farlo, camminiamo insieme come pellegrini in comunione con Maria, la prima
discepola di Cristo, e con tutti coloro che, già partecipi della nuova
creazione, ci incoraggiano a essere fedeli alla nostra chiamata (cf. 2Cor
5,17.19).
66. Consapevoli che Maria occupa un posto proprio nella storia della
salvezza, i cristiani le hanno assegnato un posto speciale nella loro preghiera
liturgica e personale, lodando Dio per le cose che ha fatto in lei e attraverso
di lei. Nel canto del Magnificat, lodano Dio con lei; nell’eucaristia,
pregano con lei come con tutto il popolo di Dio, ponendo le loro preghiere
all’interno della grande comunione dei santi. Riconoscono il posto di Maria tra
le «preghiere di tutti i santi» che vengono proferite davanti al trono di Dio
nella liturgia celeste (Ap 8,3-4). Tutti questi modi di comprendere Maria nella
lode e nella preghiera appartengono al nostro patrimonio comune, così come il
riconoscimento del suo status unico di Theotokos, che le assegna un posto
proprio nella comunione dei santi.
Intercessione e mediazione nella comunione dei santi
67. La prassi dei credenti di chiedere a Maria di intercedere in loro favore
presso suo figlio si diffuse rapidamente a seguito della proclamazione di Maria
Theotokos al Concilio di Efeso. La formula oggi più comune di tale
intercessione è l’Ave Maria. È una formula che combina insieme i saluti
che le rivolgono Gabriele ed Elisabetta (Lc 1,28.42). È stata ampiamente usata
sin dal V secolo, senza la frase conclusiva «prega per noi peccatori / adesso e
nell’ora della nostra morte», che fu aggiunta per la prima volta nel XV secolo,
e inserita nel Breviario romano da Pio V nel 1568. I riformatori inglesi
hanno criticato questa invocazione e altre simili forme di preghiera, perché
credevano che mettessero in discussione l’unica mediazione di Gesù Cristo.
Trovandosi di fronte a devozioni esagerate, che derivavano da un’eccessiva
esaltazione del ruolo e del potere di Maria a fianco di Cristo, hanno rifiutato
la «dottrina romana riguardante (…) l’invocazione dei santi» in quanto «non
trova alcun fondamento e giustificazione nella Scrittura» ma (...) «è piuttosto
contraria alla parola di Dio» (Articolo XXII). Il Concilio di Trento ha
affermato che chiedere l’assistenza dei santi per ottenere benefici da Dio è
«cosa buona e utile»: tali richieste vengono fatte «per mezzo del figlio suo
Gesù Cristo, nostro Signore, che è l’unico salvatore e redentore» (Denz 1821).
Il concilio Vaticano II ha sancito la secolare prassi dei credenti di chiedere a
Maria di pregare per loro, sottolineando che «la funzione materna di Maria verso
gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce questa unica mediazione di Cristo,
ma ne mostra l’efficacia. (...) Non impedisce minimamente l’unione immediata dei
credenti con Cristo, anzi la facilita» (Lumen
gentium, n. 60). Pertanto la Chiesa cattolica romana continua
a promuovere la devozione a Maria, mentre rimprovera coloro che esagerano o
minimizzano il ruolo di Maria (cf.
Marialis cultus, n. 31). Tenendo
conto di questo, cerchiamo un modo teologicamente fondato di riavvicinarci nella
vita di preghiera in comunione con Cristo e con i suoi santi.
68. Le Scritture insegnano che è «uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini,
l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1Tm 2,5-6).
Come abbiamo già osservato, sulla base di questo insegnamento «rifiutiamo ogni
interpretazione del ruolo di Maria che oscuri una tale affermazione» (Autorità
nella Chiesa II, n. 30). È anche vero, tuttavia, che tutti i ministri della
Chiesa, in particolare i ministri della Parola e del sacramento, mediano la
grazia di Dio attraverso degli esseri umani. Questi ministri non si misurano con
l’unica mediazione di Cristo, ma piuttosto sono a suo servizio, e trovano in
essa la loro origine. In particolare, la preghiera della Chiesa non si pone a
fianco dell’intercessione di Cristo o in luogo di essa, ma viene fatta
attraverso di lui, nostro avvocato e mediatore (cf. Rm 8,34; Eb 7,25; 12,24; 1Gv
2,1). Tale preghiera trova la sua possibilità e la sua pratica in e attraverso
lo Spirito Santo, che è l’altro avvocato inviato secondo la promessa di Cristo (cf.
Gv 14,16-17). Dunque chiedere ai nostri fratelli e sorelle, sulla terra e nel
cielo, di pregare per noi, non contesta l’unica opera di mediazione di Cristo,
ma è piuttosto un mezzo attraverso il quale, in e attraverso lo Spirito, il suo
potere può essere manifestato.
69. Nella nostra preghiera, noi cristiani rivolgiamo le nostre istanze a Dio,
nostro Padre celeste, in e attraverso Gesù Cristo, spinti e ammaestrati dallo
Spirito Santo. Ognuna di queste invocazioni ha luogo all’interno della comunione
che è l’essenza e il dono di Dio. Nella vita di preghiera invochiamo il nome di
Cristo in solidarietà con tutta la Chiesa, sostenuti dalle preghiere dei
fratelli e delle sorelle di ogni tempo e di ogni luogo. Come ha già detto l’ARCIC
in una precedente occasione, «Il cammino di fede del credente è vissuto con il
reciproco sostegno di tutto il popolo di Dio. In Cristo tutti i fedeli, vivi e
defunti, sono legati insieme in una comunione di preghiera» (La salvezza e la
Chiesa, 1987, n. 22). Nello sperimentare questa comunione di preghiera, i
credenti sono consapevoli della loro permanente unione con le sorelle e i
fratelli che «si sono addormentati», quel «gran nugolo di testimoni» che ci
circondano mentre corriamo sulla via della fede. È un’intuizione che per alcuni
significa avvertire la presenza degli amici; per altri può significare
considerare le cose della vita in compagnia di quanti li hanno preceduti nella
fede. L’intuizione che sperimentiamo afferma la nostra solidarietà in Cristo con
i cristiani di ogni tempo e di ogni luogo, non da ultimo con la donna per mezzo
della quale è divenuto «in ogni cosa a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb
4,15).
70. Le Scritture invitano i cristiani a chiedere ai fratelli e alle sorelle
di pregare per loro, in e attraverso Cristo (cf. Gc 5,13-15). Coloro che ora
sono «con Cristo», sciolti dai legacci del peccato, condividono la preghiera e
la lode ininterrotte che caratterizzano la vita del cielo (ad es., Ap 5,9-14;
7,9-12; 8,3-4). Alla luce di questi testimoni, molti cristiani hanno trovato
giusto ed efficace rivolgere richieste di assistenza nella preghiera a quei
membri della comunione dei santi che si sono distinti per la loro vita di
santità (cf. Gc 5,16-18). In tal senso affermiamo che chiedere ai santi di
pregare per noi non va escluso come estraneo alla Scrittura, anche se le
Scritture non lo insegnano direttamente tra le componenti necessarie della vita
in Cristo. Inoltre, siamo d’accordo che il modo in cui viene chiesta questa
assistenza non deve porre in ombra l’accesso diretto dei credenti a Dio nostro
Padre celeste, che si rallegra nel dare cose buone ai suoi figli (Mt 7,11).
Quando, nello Spirito e attraverso Cristo, i credenti rivolgono le loro
preghiere a Dio, sono assistiti dalle preghiere degli altri credenti, specie di
quelli che sono realmente vivi in Cristo e liberi dal peccato. Si osservi che le
forme liturgiche della preghiera sono rivolte a Dio: non rivolgono preghiere
«ai» santi, ma piuttosto chiedono loro di «pregare per noi». Tuttavia, in questi
casi come in altri, qualsiasi concezione di invocazione che oscuri l’economia
trinitaria della grazia e della speranza va respinto, in quanto non consonante
con le Scritture o con le antiche tradizioni comuni.
Il ministero proprio di Maria
71. Fra tutti i santi, Maria occupa il posto della Theotokos: viva in
Cristo, dimora presso colui che ha generato, tuttora «altamente favorita» nella
comunione della grazia e della speranza, esempio dell’umanità redenta, icona
della Chiesa. Di conseguenza si crede che eserciti un ministero proprio di
assistenza attraverso la sua attiva preghiera. Molti cristiani, leggendo il
racconto di Cana, sentono ancor oggi Maria che li istruisce: «fate quello che vi
dirà», e confidano che saprà attirare l’attenzione di suo figlio sulle loro
necessità: «non hanno più vino» (Gv 2,1-12). Molti sperimentano un senso di
empatia e di solidarietà con Maria, soprattutto in quei momenti-chiave in cui il
racconto della sua vita rispecchia la loro, ad esempio l’accoglienza della
vocazione, lo scandalo della sua gravidanza, le circostanze improvvisate del
travaglio, del parto e del suo rifugiarsi in un paese straniero. I quadri che
ritraggono Maria ai piedi della croce, e quelli che tradizionalmente la
raffigurano mentre riceve tra le braccia il corpo crocifisso di Gesù (la
Pietà), evocano l’unicità della sofferenza di una madre alla morte del
figlio. Anglicani e cattolici sono ugualmente attratti dalla madre di Cristo,
figura della tenerezza e della compassione.
72. Il ruolo materno di Maria, che in primo luogo è attestato dai racconti
evangelici che descrivono il suo rapporto con Gesù, si è sviluppato in diversi
modi. I credenti in Cristo riconoscono che Maria è la madre del Dio incarnato.
Allorché meditano le parole che il nostro Salvatore rivolge in punto di morte al
discepolo che egli ama, «ecco tua madre» (Gv 19,27), essi possono udire l’invito
ad avere a cuore Maria come la «madre di tutti i fedeli»: lei avrà cura di loro
come ha avuto cura di suo figlio nel momento del bisogno. Sentendo chiamare Eva
«la madre di tutti i viventi» (Gen 3,20), possono giungere a vedere in Maria la
madre della nuova umanità, attiva nel suo ministero di orientare tutti a Cristo,
in vista del bene di tutti i viventi. Siamo d’accordo che, sebbene sia
necessario usare cautela allorché si attinge a queste rappresentazioni, è
appropriato applicarle a Maria, in quanto è un modo in cui onorare il rapporto
proprio che ella ha con suo figlio, e l’efficacia in lei dell’opera della
redenzione.
73. Molti cristiani ritengono che il loro culto a Dio venga arricchito se
esprimono in forma devozionale il loro apprezzamento per questo ministero di
Maria. L’autentica devozione popolare nei confronti di Maria, che per sua natura
esibisce un’ampia varietà individuale, regionale e culturale, è da rispettare.
Le folle che si radunano in determinati luoghi in cui si crede che sia apparsa
Maria ci dicono che tali apparizioni costituiscono una parte importante di
questa devozione, e sono fonte di conforto spirituale. C’è bisogno di un attento
discernimento nel soppesare il valore spirituale di ciascuna presunta
apparizione. È quanto viene sottolineato da un recente intervento cattolico.
«La rivelazione privata (...) può essere un valido aiuto per comprendere e
vivere meglio il Vangelo nell’ora attuale; perciò non lo si deve trascurare. È
un aiuto, che è offerto, ma del quale non è obbligatorio fare uso. Il criterio
per la verità e il valore di una rivelazione privata è pertanto il suo
orientamento a Cristo stesso. Quando essa ci allontana da lui, quando essa si
rende autonoma o addirittura si fa passare come un altro e migliore disegno di
salvezza, più importante del Vangelo, allora essa non viene certamente dallo
Spirito Santo» (Congregazione per la dottrina della fede,
Commento teologico al Messaggio di Fatima,
26.6.2000).
Siamo d’accordo che, entro i limiti definiti in questo insegnamento al fine
di garantire che l’onore reso a Cristo conservi la sua preminenza, una devozione
privata di questo tipo sia accettabile, sebbene non possa mai essere pretesa dai
credenti.
74. Quando Maria fu riconosciuta per la prima volta da Elisabetta come la
madre del Signore, rispose lodando Dio e proclamandone, nel Magnificat,
la giustizia verso i poveri (Lc 1,46-55). Nella risposta di Maria possiamo
riconoscere un atteggiamento di povertà davanti a Dio che rispecchia l’opzione
preferenziale di Dio per il povero. Nella sua impotenza Maria è esaltata dal
favore di Dio. Sebbene, talvolta, la sua testimonianza di obbedienza e di
accettazione della volontà di Dio sia stata usata per incoraggiare la passività
e imporre l’asservimento delle donne, essa viene giustamente considerata come un
impegno radicale verso Dio, che ha misericordia della sua serva, esalta gli
umili e rovescia i potenti. Dalla riflessione quotidiana su questo straordinario
canto di Maria sono sorte questioni relative alla giustizia verso le donne e
alla promozione sociale e politica degli oppressi. Ispirate dalle sue parole, in
diverse culture comunità di donne e uomini si sono impegnate a lavorare con i
poveri e gli esclusi. La giusta condivisione nell’economia della speranza e
della grazia che Maria proclama e incarna si verifica solo quando la gioia è
congiunta alla giustizia e alla pace.
75. Quando affermiamo insieme inequivocabilmente l’unica mediazione di
Cristo, che porta frutto nella vita della Chiesa, non consideriamo divisiva per
la comunione la prassi di chiedere a Maria e ai santi di pregare per noi. Poiché
gli ostacoli del passato sono stati rimossi attraverso la chiarificazione della
dottrina, la riforma liturgica e le norme pratiche che sono in armonia con essa,
crediamo che non permanga alcuna ragione teologica a sostegno della divisione
ecclesiale su queste materie.
E. Conclusione
76. Il nostro studio, che si apre con un’attenta lettura ecclesiale ed
ecumenica delle Scritture, alla luce dell’antica tradizione comune, ha
illuminato in modo nuovo il posto di Maria nell’economia della speranza e della
grazia. Ri-affermiamo insieme gli accordi precedentemente raggiunti dall’ARCIC,
in Autorità nella Chiesa II, n. 30:
– che ogni interpretazione del ruolo di Maria non deve oscurare l’unica
mediazione di Cristo;
– che ogni considerazione di Maria deve essere legata alle dottrine di Cristo
e della Chiesa;
– che riconosciamo la beata vergine Maria come Theotokos, la madre del
Dio incarnato, e dunque osserviamo le sue festività e le attribuiamo un posto
d’onore tra i santi;
– che Maria è stata preparata dalla grazia a essere la madre del nostro
Redentore, dal quale ella stessa fu redenta e accolta nella gloria;
– che riconosciamo Maria come modello di santità, di fede e di obbedienza per
tutti i cristiani; e
– che Maria può essere vista come una figura profetica della Chiesa.
Crediamo che questo documento approfondisca e amplî in modo significativo
questi accordi, contestualizzandoli all’interno di uno studio complessivo della
dottrina e della devozione che si accompagnano a Maria.
77. Siamo convinti che qualsiasi tentativo di pervenire a una comprensione
riconciliata di questa materia deve cominciare dall’ascolto della parola di Dio
nelle Scritture. Pertanto questa nostra dichiarazione comune prende avvio da un
attento esame della ricca testimonianza che il Nuovo Testamento rende a Maria,
alla luce dei temi e dei modelli complessivamente presenti in tutta la
Scrittura.
– Questo studio ci ha condotto alla conclusione che è impossibile essere
fedeli alla Scrittura senza rivolgere alla persona di Maria la dovuta attenzione
(nn. 6-30).
– Nel rifarci insieme alle antiche tradizioni comuni, abbiamo nuovamente
colto l’importanza centrale della Theotokos nelle controversie
cristologiche, e l’utilizzo presso i padri della Chiesa di immagini bibliche per
interpretare e celebrare il posto di Maria nel disegno della salvezza (nn.
31-40).
– Abbiamo ripercorso la crescita della devozione a Maria nei secoli
medievali, e le controversie teologiche che l’hanno accompagnata. Abbiamo visto
in che modo alcuni eccessi, nella tarda devozione medievale, e le reazioni
avverse da parte dei riformatori, abbiano contribuito alla rottura della
comunione fra noi, con la conseguenza che gli atteggiamenti verso Maria hanno
preso strade divergenti (nn. 41-46).
– Abbiamo anche seguito le tracce dei successivi sviluppi in entrambe le
nostre comunioni, che hanno aperto la strada verso una ri-recezione del posto di
Maria nella fede e nella vita della Chiesa (nn. 47-51).
– Questa crescente convergenza ci ha anche permesso di accostarci in modo
nuovo alle questioni relative a Maria che le nostre due comunioni hanno posto
dinanzi a noi. Nel farlo, abbiamo collocato il nostro lavoro all’interno del
modello della grazia e della speranza che è presente nella Scrittura –
«predestinati... chiamati... giustificati... glorificati» (Rm 8,30) (nn. 52-57).
Progressi nell’accordo
78. Come risultato del nostro studio, la Commissione offre gli accordi che
seguono, che a nostro parere fanno progredire eloquentemente il nostro consenso
riguardo a Maria. Affermiamo insieme:
– l’insegnamento che Dio ha preso nella sua gloria la beata vergine Maria
nella pienezza della sua persona, in consonanza con la Scrittura, e che ciò può
essere compreso solo alla luce della Scrittura (n. 58);
– che in vista della sua vocazione a essere la madre del Santo, l’opera di
redenzione di Cristo ha raggiunto Maria «fino in fondo», nell’intimo del suo
essere e nei suoi primissimi momenti di vita (n. 59);
– che l’insegnamento riguardo a Maria nelle due definizioni dell’assunzione e
dell’immacolata concezione, compreso all’interno del modello biblico
dell’economia della speranza e della grazia, può dirsi consonante con
l’insegnamento delle Scritture e le antiche tradizioni comuni (n. 60);
– che tale accordo, qualora venisse accettato dalle nostre due comunioni,
collocherebbe in un nuovo contesto ecumenico le questioni riguardo all’autorità
che sorgono dalle due definizioni del 1854 e del 1950 (nn. 61-63);
– che Maria ha un permanente ministero a servizio del ministero di Cristo,
nostro unico mediatore, che Maria e i santi pregano per tutta la Chiesa e che la
prassi di chiedere a Maria e ai santi di pregare per noi non è divisiva della
comunione (nn. 64-75).
79. Siamo d’accordo che non si possono dire rivelate da Dio né considerare
insegnamento della Chiesa quelle dottrine e quelle devozioni che sono contrarie
alla Scrittura. Siamo d’accordo che quelle dottrine e quelle devozioni che sono
incentrate su Maria, comprese le pretese «rivelazioni private», devono essere
moderate attraverso norme che assicurino il posto centrale e unico di Gesù
Cristo nella vita della Chiesa, e che nella Chiesa solo Cristo, insieme con il
Padre e con lo Spirito Santo, va adorato.
80. La nostra dichiarazione ha cercato non tanto di sgombrare il campo da
ogni possibile problema, quanto di approfondire la nostra comprensione comune
fin dove le restanti diversità di pratica devozionale possono essere accolte
come la multiforme opera dello Spirito in mezzo al popolo di Dio. Crediamo che
l’accordo qui evidenziato sia esso stesso il frutto di una ri-recezione, da
parte degli anglicani e dei cattolici, della dottrina riguardo a Maria, e che
esso ci orienti verso la possibilità di un’ulteriore riconciliazione, nella
quale i punti che riguardano la dottrina e la devozione verso Maria non debbano
più essere visti come divisivi della comunione o come ostacolo a un nuovo passo
nella crescita verso la koinonia visibile. Questa dichiarazione
concordata viene ora offerta alle nostre rispettive autorità. Essa può anche
rivelarsi, in sé stessa, come un valido studio dell’insegnamento delle Scritture
e dell’antica tradizione comune riguardo alla beata vergine Maria, la madre di
Dio incarnato. La nostra speranza è che, mentre condividiamo quel solo Spirito
dal quale Maria è stata preparata e santificata per la sua singolare vocazione,
possiamo partecipare insieme a lei e a tutti i santi all’incessante lode di Dio.
Membri della Commissione
Anglicani: Frank Griswold, vescovo presidente della Chiesa episcopaliana
degli Stati Uniti (copresidente fino al 2003); Peter Carnley, arcivescovo
di Perth e primate della Chiesa anglicana d’Australia (copresidente dal 2003);
John Baycroft, vescovo emerito di Ottawa, Canada; E. Rozanne Elder, professore
di storia, Università del Western Michigan, USA; Jaci Maraschin, professore di
teologia, Istituto ecumenico, São Paulo, Brasile; John Muddiman, ricercatore in
Nuovo Testamento, Mansfield College, Università di Oxford, Gran Bretagna;
Michael Nazir-Ali, vescovo di Rochester, Gran Bretagna; Nicholas Sagovsky,
teologo, canonico dell’Abbazia di Westminster, Londra, Gran Bretagna; Charles
Sherlock, direttore della sezione sul ministero dell’Istituto di teologia di
Melbourne, Australia.
Segreteria: David Hamid, direttore della sezione Affari e rapporti
ecumenici dell’Anglican Communion Office, Londra, Gran Bretagna (fino al 2002);
Gregory K. Cameron, direttore della sezione Affari e rapporti ecumenici dell’Anglican
Communion Office, Londra, Gran Bretagna (dal 2002). Osservatore
dell’arcivescovo di Canterbury: Richard Marsh, segretario dell’arcivescovo
di Canterbury per gli affari ecumenici, Londra, Gran Bretagna (fino al 1999);
Herman Browne, vicesegretario dell’arcivescovo di Canterbury per gli Affari
ecumenici e della Comunione anglicana (dal 2000-2001); Jonathan Gough,
segretario dell’arcivescovo di Canterbury per l’ecumenismo (dal 2002).
Cattolici: Cormac Murphy-O’Connor, vescovo di Arundel e Brighton, Gran
Bretagna (copresidente fino al 2000); Alexander Brunett, arcivescovo di
Seattle, USA (copresidente dal 2000); Sara Butler MSBT, professore di
teologia dogmatica, seminario St Joseph, Yonkers, New York, USA; Peter Cross,
professore di teologia sistematica, Catholic Theological College, Clayton,
Australia; Adelbert Denaux, professore alla Facoltà di teologia dell’Università
cattolica di Lovanio, Belgio; Brian Farrell, segretario del Pontificio consiglio
per la promozione dell’unità dei cristiani, Città del Vaticano (dal 2003),
Walter Kasper, segretario del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità
dei cristiani, Città del Vaticano (dal 1999 al 2000); Malcolm McMahon OP,
vescovo di Nottingham, Gran Bretagna (dal 2001); Charles Morerod OP,
decano della Facoltà di filosofia, Pontificia università San Tommaso d’Aquino,
Roma, Italia (dal 2002); Marc Ouellet PSS, segretario del Pontificio
consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, Città del Vaticano (dal
2001 al 2002); Jean M.R. Tillard OP, professore alla Facoltà domenicana di
teologia, Ottawa, Canada (fino alla morte, nel 2000); Liam Walsh OP,
professore emerito, Facoltà di teologia, Università di Friburgo, Svizzera.
Segreteria: Timothy Galligan, addetto del Pontificio consiglio per la
promozione dell’unità dei cristiani, Città del Vaticano (fino al 2001);
Donald Bolen, addetto del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei
cristiani, Città del Vaticano (dal 2001). Consultore: Emmanuel
Lanne OSB, monastero di Chevetogne, Belgio (dal 2001).
Osservatore del CEC: Michael Kinnamon, decano del Seminario teologico di
Lexington, Kentucky, USA.
Staff: Christine Codner, Anglican Communion Office, Londra, Gran
Bretagna; Giovanna Ramon, Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei
cristiani, Città del Vaticano.
[1]
Definiamo «tipologica» una lettura che accetta che alcune cose nella Scrittura
(persone, luoghi, eventi) prefigurino o illuminino altre cose, o riflettano
modelli di fede in forma immaginativa (ad esempio, Adamo è figura di Cristo: Rm
5,14; Is 7,14 allude alla nascita verginale di Gesù: Mt 1,23). Questo senso
tipologico è stato considerato come un significato che va oltre il senso
letterale. Questo approccio assume l’unità e la coerenza della divina
rivelazione.
[2]
Data la forte matrice ebraica di questa tradizione, sia nella versione matteana
sia in quella lucana, spiegarne le origini facendo riferimento ad analogie con
la mitologia pagana o a un’esaltazione della verginità come superiore alla
condizione sponsale non è plausibile. Non lo è neppure l’idea di un concepimento
verginale probabilmente derivato da una lettura iperletterale del testo greco di
Is 7,14 (LXX), perché non è in tal modo che l’idea viene introdotta nel racconto
lucano. Inoltre, anche l’ipotesi che essa abbia origine come risposta
all’accusa, lanciata a Gesù, di essere un figlio illegittimo è improbabile,
poiché tale accusa avrebbe potuto ugualmente insorgere, sia a causa del fatto
che era noto che c’era qualcosa di inconsueto nella nascita di Gesù (cf. Mc 6,3;
Gv 8,41), sia a causa della pretesa della Chiesa riguardo al suo concepimento
verginale.
[3]
Sebbene la parola «fratello» si riferisca in genere a un fratello di sangue, il
greco adelphos, alla pari dell’ebraico ’ah, può avere il più ampio
significato di parente, congiunto (cf. ad es. Gen 29,12 LXX) o fratellastro (cf.
ad es. Mc 6,17s). Possono essere compresi in questo uso del termine in Mc 3,31
congiunti che non siano fratelli germani. Maria ebbe certamente una famiglia
estesa: Gv 19,25 fa riferimento a sua sorella e Lc 1,36 alla sua parente
Elisabetta. Nella Chiesa primitiva si dettero differenti spiegazioni dei
riferimenti ai «fratelli» di Gesù, come fratellastri o cugini.
[4] Il
testo ebraico di Gen 3,15 parla di inimicizia tra il serpente e la donna, e tra
la discendenza di entrambi. Il pronome personale (hu’) nelle parole
rivolte al serpente, «Questi ti schiaccerà la testa», è al maschile. Nella
traduzione greca usata dalla Chiesa primitiva (LXX), tuttavia, il pronome
personale autos (egli) non può riferirsi alla discendenza (neutro: to
sperma), ma deve riferirsi a un individuo maschio che può dunque essere il
Messia, nato da donna. La Vulgata traduce (erroneamente) la frase con
ipsa conteret caput tuum («Questa ti schiaccerà la testa»). Questo
pronome al femminile ha fatto da supporto a una lettura di questo passo in
riferimento a Maria, che è divenuta tradizionale nella Chiesa latina. La
Neo-Vulgata (1986), peraltro, ritorna al neutro ipsum, che si
riferisce a semen illius: «Inimicitias ponam inter te et mulierem et
semen tuum et semen illius; ipsum conteret caput tuum, et tu conteres calcaneum
eius».
[5] Cf.
Epifanio di Salamina († 402), Panarion 78,11; Quodvultdeus († 454),
Sermones de Symbolo III, I.4-6; Ecumenio († 550 ca.), Commentarius in
Apocalypsin 6.
[6] Il
Concilio approvò solennemente il contenuto della Seconda lettera di Cirillo a
Nestorio: «Infatti non è stato generato prima dalla santa Vergine un uomo
qualsiasi sul quale poi sarebbe disceso il Verbo: ma il Verbo si è unito con la
carne fin dal seno della madre, è nato secondo la carne, accettando la nascita
della propria carne. ... Perciò essi [i santi padri] non dubitarono di
chiamare Theotokos (madre di Dio) la santa Vergine» (Denz 251).
[7] Il
Tomus Leonis, che fu decisivo per l’esito del Concilio di Calcedonia
(451), afferma che Cristo «è stato poi concepito dallo Spirito Santo nel seno
della Vergine madre, che lo partorì (restando) intatta la sua verginità, così
come con intatta verginità lo concepì» (Denz 291). In modo simile Atanasio, nel
De Virginitate (Le Muséon 42,244.248), parla di «Maria, che (...)
rimase una vergine a favore di [come modello per] tutti quelli che sarebbero
venuti dopo di lei». Cf. Giovanni Crisostomo († 407), In Matthaeum Hom. V, 3.
Il primo concilio ecumenico che usa il termine aeiparthenos (semper
virgo) fu il concilio Costantinopolitano II (553). Questo titolo è già
implicito nella classica formula occidentale sulla virginitas di Maria
ante partum, in partu, post partum. Questa tradizione appare
con continuità nella Chiesa occidentale da Ambrogio in avanti. Scrive Agostino
che «ella lo concepì come vergine, lo partorì come vergine, rimase vergine» (Sermo
51, 18; cf. Sermo 196, 1).
[8] In
tal modo Ireneo la critica per la sua «eccessiva fretta» a Cana, «cercando di
spingere suo Figlio a compiere un miracolo prima che fosse giunta la sua ora» (Adversus
Haereses III, 16, 7); Origene parla di uno sbandamento della sua fede presso
la croce, «così che anch’ella avrebbe avuto qualche peccato per il quale Cristo
morì» (Homilia in Lucam, 17, 6). Altri riferimenti di questo tipo si
trovano negli scritti di Tertulliano, Ambrogio e Giovanni Crisostomo.
[9] La
testimonianza dell’invocazione di Maria si trova nell’antico testo
tradizionalmente noto come Sub tuum praesidium: (cf. O. Stegemüller,
Sub tuum praesidium. Bemerkungen zur ältesten Überlieferung, in ZKTh
74(1952), 76-82 [77]). Questo testo, con due cambiamenti, è usato ai giorni
nostri nella tradizione liturgica greca; sono presenti versioni di questa
preghiera anche nelle liturgie ambrosiana, romana, bizantina e copta. La
versione italiana d’uso recita: «Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, /
santa Madre di Dio: / non disprezzare le suppliche / di noi che siamo nella
prova, / ma liberaci da ogni pericolo, / o Vergine gloriosa e benedetta».
[10]
Il riferimento, nel dogma, a Maria assunta «in anima e corpo» ha generato per
alcuni delle difficoltà, sul piano storico e su quello filosofico Il dogma
lascia peraltro aperta la questione di cosa significhi, in termini storici,
l’assenza dei suoi resti mortali. Inoltre, «assunta in anima e corpo» non
significa privilegiare una particolare antropologia. Più in positivo, «assunta
in anima e corpo» può essere visto nelle sue implicazioni cristologiche ed
ecclesiologiche. Maria come «genitrice di Dio» è intimamente, e di certo
corporalmente, legata a Cristo: la stessa glorificazione corporea di quest’ultimo
ora li comprende entrambi. E dal momento che Maria genera il suo corpo di carne,
lei è intimamente legata alla Chiesa, corpo di Cristo. In breve, la formulazione
del dogma risponde, in riferimento a Maria, a questioni teologiche, piuttosto
che storiche o filosofiche.
[11]
La definizione risponde a un’antica controversia intorno al momento della
santificazione di Maria, dichiarando che essa ebbe luogo precisamente nel primo
istante del suo concepimento.
[12]
L’affermazione di Paolo in Rm 3,23, «tutti hanno peccato e sono privi della
gloria di Dio», potrebbe all’apparenza escludere qualsiasi eccezione, compresa
Maria. Tuttavia, è importante osservare il contesto retorico-apologetico del
tema complessivo di Romani 1–3, che è preoccupato di mostrare che vi è un’uguale
condizione di peccato negli ebrei e nei gentili (3,9). Rm 3,23 ha un fine del
tutto specifico in un contesto che è slegato dall’essere «senza macchia» di
Maria o da altro che la riguardi.
[13]
In tali circostanze, l’esplicita accettazione della formulazione esatta delle
definizioni del 1854 e del 1950 potrebbe non essere richiesta a credenti che non
erano in comunione con Roma nel momento in cui quelle proposizioni vennero
definite. Di contro, gli anglicani dovrebbero accettare che quelle definizioni
sono una legittima espressione della fede cattolica, e devono essere rispettate
come tali, anche se da loro formulazioni del genere non sono state utilizzate.
Vi sono, negli accordi ecumenici, esempi in cui ciò che uno dei partner ha
definito de fide può essere espresso dall’altro partner in modo diverso,
come ad esempio nella Dichiarazione cristologica comune tra la Chiesa
cattolica romana e la Chiesa assira dell’Oriente (1994) o nella
Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione tra la Chiesa
cattolica romana e la Federazione luterana mondiale (1999).