Celebriamo la
Messa di suffragio per un sacerdote romano, Don Andrea Santoro. Uno dei tanti,
perché questa Diocesi ha circa 900 sacerdoti e ogni anno alcuni di loro fanno
ritorno al Signore. Eppure questa Basilica è straordinariamente affollata, e
tutti sappiamo il perché. Don Andrea aveva 60 anni, era originario di Priverno
ma come sacerdote era totalmente romano: nato in una famiglia profondamente
cristiana, si era formato nel Seminario Romano Minore e poi in quello Maggiore.
Era diventato sacerdote 35 anni fa, il 18 ottobre 1970. Poi aveva percorso le
tappe consuete della vita e del ministero di un sacerdote romano: vicario
parrocchiale nella parrocchia dei Santi Marcellino e Pietro al Casilino e poi in
quella della Trasfigurazione. In seguito parroco della parrocchia di Gesù di
Nazareth e finalmente di quella dei Santi Fabiano e Venanzio, fino all’Anno
Santo del 2000. E tuttavia già da molti anni Don Andrea manifestava una strana
inquietudine, che poteva sembrare un’instabilità di carattere. Ha chiesto
infatti a più riprese e con forte insistenza, prima al Cardinale Poletti e poi
a me, di poter lasciare Roma per dedicarsi a esperienze nuove e diverse, sempre
però incentrate sulla ricerca della prossimità a Cristo e sulla preghiera.
Così già nel 1980 ha passato un periodo a Gerusalemme e anche nel 1993-94 ha
trascorso un anno sabbatico, guidando vari pellegrinaggi dell’Opera Romana con
meta la Terra Santa e in genere il Medio Oriente.
Ma la sua propria
strada, la sua chiamata specifica e definitiva Don Andrea l’ha individuata con
certezza soltanto in età matura, attraverso le esperienze dei pellegrinaggi che
continuava a guidare in Medio Oriente e l’affettuosa insistenza dell’allora
Vicario Apostolico dell’Anatolia, la parte orientale della Turchia, Mons.
Ruggero Franceschini, che lo voleva con sé, come sacerdote “fidei donum”,
dono della fede, mandato da Roma a rendere presente Cristo in quelle terre dove
la fede cristiana aveva messo agli inizi robuste e feconde radici, giungendo da
lì ben presto fino a Roma. Proprio questo era l’animo e lo spirito con cui
Don Andrea chiese di andare in Anatolia: intendeva essere una presenza credente
e amica, favorire uno scambio di doni, anzitutto spirituali, tra l’Oriente e
Roma, tra cristiani, ebrei e musulmani.
All’inizio la sua richiesta di partire per l’Anatolia mi ha lasciato
perplesso e ha trovato in me una certa resistenza: mi rincresceva privare Roma
di un ottimo parroco e temevo che Don Andrea, uomo pieno di iniziative, non
reggesse a lungo in una situazione che non consentiva, invece, molti margini di
azione e nemmeno una ricchezza di relazioni. Tra l’altro Don Andrea ignorava
del tutto la lingua turca. Egli però era un uomo tenace nel domandare, quando
riteneva di dover corrispondere a una chiamata del Signore. Così è partito e
ricordo l’insistenza con la quale, allora, e tante volte in seguito, mi
chiedeva conferma che però egli non andava di propria volontà e nel proprio
nome, ma nel nome e per mandato della Chiesa di Roma. Sì, perchè Don Andrea
era, istintivamente, un uomo della Chiesa; nemmeno concepiva di poter
appartenere a Cristo senza appartenere alla Chiesa.
È cominciato
così, nel 2000, il suo soggiorno in Anatolia, dapprima ad Urfa, vicino alla
località biblica di Harran, la terra di origine del Patriarca Abramo: ad Urfa
Don Andrea era intimamente felice, pur nella solitudine in cui viveva e nelle
grandi difficoltà dell’apprendimento della nuova lingua. Sentiva infatti
compiersi misteriosamente in se stesso le parole della chiamata di Abramo, che
spesso ripeteva: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo
padre, verso il paese che io ti indicherò” (Gen 12,1). Dopo tre anni però si
apriva per lui una possibilità nuova, dove avrebbe potuto avere una sia pur
piccola comunità cristiana e una chiesa da riaprire e restaurare. Andava dunque
a Trebisonda – Trabzon in turco –, con gioia e con fiducia, e lì continuava
a pregare e a cercare di fare del bene, nel rispetto delle leggi locali, fino a
domenica scorsa, a quella fine improvvisa che tutto il mondo conosce ma di cui,
nell’ottica di Don Andrea, non è importante approfondire i particolari.
Dobbiamo soltanto respingere con sdegno le accuse e insinuazioni assurde e
calunniose riguardo a mezzi non leciti per ottenere conversioni, escluse in
radice dalla sua rigorosa coscienza di cristiano e di sacerdote.
Vorrei
soffermarmi piuttosto sulla sostanza vera della sua vita e della sua missione,
che è anche il significato e l’insegnamento della sua morte. Don Andrea ha
preso tremendamente sul serio Gesù Cristo e, da quell’uomo tenace, rigoroso,
addirittura testardo che era, ha cercato con tutte le sue forze di muoversi
sempre e rigorosamente nella logica di Cristo, e ancor prima di affidarsi a
Cristo nella preghiera, non presumendo certo delle proprie forze umane. Per lui
dunque valgono davvero le parole che l’Apostolo Paolo ha detto di se stesso:
“Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21).
Per questo Don
Andrea è stato, inseparabilmente, uomo di fede e testimone dell’amore
cristiano. Uomo di fede, anzitutto: nei molti anni del suo ministero di
sacerdote a Roma non si stancava di cercare persone da condurre, o ricondurre,
all’incontro con il Signore. Lo spingeva la certezza profonda che Gesù Cristo
è il Figlio unigenito di Dio e il nostro unico Salvatore: una certezza che
sosteneva la sua vita e gli chiedeva imperiosamente di conformarsi a Cristo in
tutte le scelte e i comportamenti quotidiani. Perciò Don Andrea viveva
poveramente, era esigente con se stesso, e non di rado anche con gli altri. Le
sue richieste, però, erano dettate dall’amore, nascevano dalla carità di
Cristo che ardeva in lui e che a volte sembrava fargli dimenticare un poco il
senso della misura.
Al centro dei
suoi comportamenti stava infatti una semplice convinzione: Gesù Cristo ha dato
per tutti la sua vita sulla croce e quindi un discepolo di Cristo, e
massimamente un sacerdote, deve a sua volta voler bene a tutti e spendersi per
tutti, senza distinzioni. Come scrive l’Apostolo Paolo, “l’amore di Cristo
ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti” (2Cor, 5,14).
Così, forse,
possiamo comprendere più profondamente la sua scelta di andare a vivere e a
svolgere il ministero in Turchia, anzi, nella parte per noi più remota della
Turchia. Don Andrea era un uomo di intelligenza penetrante, e all’occorrenza
anche molto concreto. Sapeva bene che in quella terra e tra quelle popolazioni
il suo slancio apostolico avrebbe dovuto accettare moltissime limitazioni e di
fatto, serenamente, le aveva accettate e interiorizzate. Era convinto infatti
che una presenza di preghiera e di testimonianza di vita avrebbe parlato da sé,
sarebbe stata segno efficace di Gesù Cristo e fermento di amore e
riconciliazione.
La sua fine violenta potrebbe portare a concludere che si illudeva. Ma egli una
simile fine l’aveva sicuramente messa nel conto, considerata una possibilità
concreta: molte sue parole, e forse ancor più alcuni suoi silenzi, ci rendono
certi di questo; anch’io ne sono testimone. Il fatto è che Don Andrea credeva
fino in fondo alle parole di Gesù che abbiamo ascoltato nel Vangelo di questa
Messa: “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se
invece muore, produce molto frutto”. In realtà Don Andrea era un uomo a cui
il coraggio non mancava, un uomo abbastanza lucido e animoso da affrontare
giorno dopo giorno, inerme, il rischio della vita. Il suo, infatti, era un
coraggio cristiano, quel tipico coraggio di cui i martiri hanno dato prova,
attraverso i secoli, in innumerevoli occasioni: un coraggio cioè che ha la sua
radice nell’unione con Gesù Cristo, nella forza che viene da lui, in maniera
tanto misteriosa quanto vera e concreta.
Di un coraggio
analogo ciascuno di noi ha bisogno, se vuole affrontare da cristiano il cammino
della vita. E ne abbiamo bisogno tutti insieme, se vogliamo, nell’attuale
situazione storica, affermare il diritto alla libertà di religione, madre di
ogni libertà, come valido in concreto ovunque nel mondo, davvero senza
discriminazioni.
Noi siamo oggi,
pur con tutti i nostri difetti, infedeltà e peccati, i cristiani di Roma, e Don
Andrea era certamente un autentico cristiano di Roma. Ci fa bene perciò
ascoltare le parole della Lettera di San Paolo ai Romani che sono state lette
nella seconda lettura: “Io sono infatti persuaso che né morte né vita …
potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore”.
Così saremo aiutati anche noi a non cedere alla paura, ricordando l’ammonimento
di Gesù: “non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno
potere di uccidere l’anima: temete piuttosto Colui che ha il potere di far
perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10,28).
Ho messo l’accento
sul coraggio di Don Andrea e sul significato del coraggio cristiano. Questo
coraggio, però, non è per colpire ed uccidere, ma per amare e per costruire,
in concreto per costruire la comprensione, l’amicizia e la pace là dove
troppo spesso regnano l’intolleranza, il disprezzo e l’odio. Ripeto qui le
commosse parole pronunciate mercoledì da Papa Benedetto, dopo aver ricordato la
lettera di Don Andrea che aveva appena ricevuto: “Il Signore … faccia sì
che il sacrificio della sua vita contribuisca alla causa del dialogo fra le
religioni e della pace tra i popoli”. Questo era certamente l’animo con il
quale Don Andrea è andato a vivere in Turchia e questo è il senso che egli
intendeva dare a una sua eventuale morte violenta e prematura.
Spesso si pensa
che per ogni singolo uomo, nel nostro caso per Don Andrea, con la morte tutto
sia terminato. Già la Sapienza dell’Antico Testamento, che abbiamo ascoltato
nella prima lettura, è però di diverso avviso. Essa ci assicura che “le
anime dei giusti sono nelle mani di Dio” e “nessun tormento le toccherà.
Agli occhi degli stolti … la loro fine fu ritenuta una sciagura”, ma invece
“la loro speranza è piena di immortalità”. Don Andrea era nutrito di
questa certezza; anzi, aveva una speranza ancora più grande: quella speranza e
quella certezza che Gesù stesso attesta nel Vangelo di questa Messa, quando
parla del chicco di grano che morendo produce molto frutto. Dice infatti Gesù,
riferendosi alla propria morte ormai imminente: “È giunta l’ora che sia
glorificato il Figlio dell’uomo”. Anche Don Andrea, in unione con Gesù,
può dire queste parole: la sua tragica morte è infatti, in realtà, la sua
glorificazione; non solo la glorificazione effimera che possiamo attribuirgli
noi, ma la gloria eterna che solo Dio può dare.
Permettetemi, a
questo riguardo, di esprimere con franchezza la mia personale convinzione.
Rispetteremo pienamente, nel processo di beatificazione e canonizzazione che ho
in animo di aprire, tutte le leggi e i tempi della Chiesa, ma fin da adesso sono
interiormente persuaso che nel sacrificio di Don Andrea ricorrono tutti gli
elementi costitutivi del martirio cristiano.
Termino ricordando con commozione le parole pronunciate da sua madre, Maria
Polselli vedova Santoro: “La mamma di Don Andrea perdona con tutto il cuore la
persona che si è armata per uccidere il figlio e prova una grande pena per lui
essendo anche lui un figlio dell’unico Dio che è amore”.
Alla mamma e alle
sorelle di Don Andrea siamo tutti vicini con l’affetto, la gratitudine e la
preghiera. Esse condividono fino in fondo la fede del loro figlio e fratello e
perciò sanno che egli, adesso, è a loro ancora più vicino, nel mistero del
Dio che è amore. Allo stesso modo, Don Andrea rimane nel cuore della Chiesa di
Roma e questa Chiesa confida nella sua intercessione, come in quella di tanti
altri propri figli che prima di Don Andrea hanno versato il sangue per il
Signore.
10 febbraio 2006