«Pino Puglisi, il suo
ricordo in un libro»
Sara Bauducco, su
Korazym 2 gennaio 2007
La vita e la morte di
don Puglisi segnano la rinascita di un angolo di Sicilia impregnato di
mafia e povertà: un sacerdote che ha scelto di non starsene seduto a
guardare. Giustizia e solidarietà: due parole chiave.
|
Bianca Stancanelli, A
testa alta, Einaudi Editore, Torino 2003, pp. 157
“Que importa
nuestra codardia si hay en la tierra un solo ombre valiente” (J. L.
Borges). Questa citazione anticipa luci e ombre che colorano i
personaggi del libro: uomini “codardi” e un uomo valoroso, la cui vita
continua a parlare perché ha cambiato altre vite.
Frasi succinte ed incisive nello stile della parlata siciliana, alcune,
quasi sussurrate introducono il racconto partendo dalla fine. Il lettore
si trova di fronte a una scena carica di suggestione, come un ricordo,
una commemorazione, la confidenza di due “compari”: “Era un uomo buono
solo disarmato. In quattro andarono a sparargli. Lo spiarono, lo
seguirono, lo raggiunsero sul portone di casa. In silenzio gli andarono
alle spalle”. Verismo linguistico e realismo scenografico descritto da
chi conosce bene la cultura e l’ambiente degradato del quartiere
Brancaccio: Bianca Stancanelli, giornalista messinese che si è occupata
di mafia e politica, propone un ritratto di don Puglisi.
“Per rabbia lo uccisero. Per rabbia, per paura, per invidia. Perché
dall’altare li aveva chiamati animali”. Ogni frase aggiunge un tassello
alla precedente: un cammino a ritroso. Pagine ricche di particolari e di
volti perché ogni nome ha una storia alle spalle, una famiglia e delle
relazioni: un intreccio che porta all’inevitabile conclusione della vita
terrena di padre Puglisi. “Perché uccidere il parroco del Brancaccio?”:
la domanda inizia il capitolo che precede gli ultimi due atti… La
risposta è una sfida: “Il delitto diventa occasione di vanto o di
timore, più spesso di perplessità… E’ l’odio per “l’antimafia”, il
terrore di perdere il consenso, la paura di vedersi sottrarre i ragazzi,
i bambini”…
La storia comincia dalla nomina a parroco per la chiesa di San Gaetano e
di Maria Santissima del Divino Amore a Brancaccio: l’ultimo sabato di
settembre del 1990 il cardinale Salvatore Pappalardo “mette fine a una
lunga ricerca”. All’epoca Giuseppe Puglisi aveva 53 anni. “Per tutti è
don Pino”. Pronta la battuta scherzosa di don Puglisi a chi obiettava
che era pericoloso: “E come potevo rifiutare? Sono diventato il parroco
del papa”. Un’affermazione indubbia per tutti i palermitani: “Il papa è
Michele Greco, mafioso e ricco possidente, a lungo ossequiato, capo di
Cosa Nostra dalla fine degli anni settanta”. L’autrice fornisce dati
biografici su molti personaggi citati nel libro.
Brancaccio: una parrocchia di periferia, in un quartiere degradato con
“edilizia famelica”. Il sacerdote conosce quelle zone e conosce anche il
peso della mafia nella vita pubblica. “E della mafia conosce i gesti, i
riti, gli uomini. E pensa, con tutto il cuore, che la mafia è il
peccato”. Gente che guarda e vede ma non parla perché nel cuore c’è
paura: “Dietro persiane chiuse Brancaccio osserva”. Don Puglisi non ci
sta! Il sacerdote chiama delle religiose per collaborare in progetti di
solidarietà a favore dei poveri, di gente che vive con i topi e non ha
da mangiare. Una povertà difficile da ammettere per chi ne è circondato
o se la ritrova addosso: prevale un silenzioso (presunto?) senso di
dignità che nasconde la volontà di risalire la china andando contro il
pensiero comune che attanaglia la società siciliana del quartiere.
Arriva, tra le altre, Suor Carolina, originaria della Campania, con alle
spalle una vita non facile e religiosa di una congregazione che si
richiama ai poveri: “Eppure a Brancaccio ho visto per la prima volta la
vera miseria”. Don Puglisi ha le idee chiare: “La prima cosa da fare è
rimboccarsi le maniche… il discorso pedagogico con il giovane e l’adulto
è molto difficile” afferma il sacerdote a un incontro organizzato dalla
Fuci a Brancaccio il 18 febbraio 1993 “dobbiamo agire per aiutarli ad
avere un senso della propria dignità, della propria vita… Le parole
vanno convalidate dai fatti”. Il suo discorso in quell’occasione diventa
il suo manifesto: forse, qualche spiraglio di luce inizia ad aprirsi.
Brancaccio non deve rinascere: “Cosa Nostra” non vuole. Salvatore
Grigoli ha ventotto anni quando spara quell’unica pallottola alla nuca
del sacerdote. Un uomo dal soprannome che intimorisce e chiarisce la
professione: “cacciatore”. Un uomo che “ha compiuto con diligenza la
gavetta mafiosa”… Tra le pagine non mancano note di verbali di polizia,
trascrizioni di processi e testimonianze. Accanto, una riflessione
dell’autrice si fa quasi rivelazione, per assurdo: “C’è qualcosa di
irresistibile nell’eroe che va alla morte… Gli eroi solitari ci
piacciono perché ci assolvono: la nostra normalità si compiace del loro
eroismo, vede nella loro sconfitta il migliore dei motivi per astenersi
non dal coraggio soltanto, ma da ogni gesto di umana resistenza. Santo,
martire o eroe, se la sconfitta di padre Puglisi era inevitabile,
nessuno è responsabile di non averla evitata. Ma era davvero
inevitabile? La sua storia grida di no”.
Bianca Stancanelli si riappropria della personale identità umana
nell’ultimo verso del libro: ciò che l’ha spinta a scrivere non è stato
un mero interesse giornalistico. “Per rabbia per dolore per vergogna per
un desiderio impossibile di risarcimento ho voluto raccontarla”.
Alcuni Approfondimenti
Dal suo insegnamento
emerge una ineguagliabile lezione d'amore per la giustizia e la non
violenza, insieme a un forte messaggio pedagogico.
"C’è un
aspetto particolare nei martiri dei nostri giorni: essi vengono uccisi
non perché credono, ma perché amano; non in odio della fede, ma in odio
dell’amore… Don Pino è stato ucciso perché la mafia non poteva tollerare
l’amore con cui egli si dedicava a sottrarre i giovani alla strada e
alla malavita… La testimonianza che Salvatore Grigoli, l’assassino di
don Puglisi, ha reso pubblicamente dopo essersi convertito, conferma
che, per estirpare la mafia non basta il coraggio delle forze
dell’ordine… (o) i politici e i magistrati onesti… La forza per
sconfiggere la mafia è l’amore, la carità alimentata dalla fede, che
sola può trasformare le coscienze, cambiare la mentalità, la cultura e
la vita." (padre Bartolomeo Sorge, gesuita, direttore a Palermo del
centro "Pedro Arrupe")
"I
cosiddetti poveri, quale che sia la causa della loro "povertà", non
cessano di essere tali per il solo fatto che tutte le leggi siano
osservate. Occorre fare della giustizia una pratica quotidiana, capace
di consegnare a ciascuno quel che gli appartiene e gli occorre per
vivere decorosamente. Don Pino Puglisi, parroco nel quartiere Brancaccio
di Palermo… con il suo sacrificio, ha messo in crisi la criminalità
organizzata non soltanto per la sua bontà, ma perché ha inteso e vissuto
la legalità come giustizia. Giustizia che esce dalle pagine del codice,
per cercare chi è in strada, per cercare chi è più solo, per incontrare
i minori a rischio di devianza e di abbandono, per farsi carico di
queste povertà offrendo loro alternative possibili. .. Chi ha sbagliato
o è a rischio si vede sempre più spinto verso spirali di ulteriori
errori, mentre noi - gli altri, i buoni – tendiamo a separarci
rigidamente dai cattivi… fino a difendere la nostra sicurezza con una
legalità che può sconfinare nello stesso linguaggio di chi sbaglia: la
violenza" (Giancarlo Caselli, già procuratore della repubblica a
Palermo)
Ma chi era
don Pino? Figlio di un calzolaio, don Treppì, come lo chiamavano i suoi
ragazzi, era nato a Palermo il 15 settembre del ’37 a Romagnolo, una
borgata a pochi passi da Brancaccio, il quartiere di cui diventerà
parroco e nel quale nascerà il suo assassino. Poco prima del diploma
magistrale gli arriva la vocazione. E’prete a Palermo, nella borgata di
Settecannoli, poi parroco a Corleone, nella frazione di Godrano. Sarà il
cardinale Pappalardo a spostarlo a Brancaccio, nella periferia orientale
della città. Il posto lo conosce bene, conosce bene la mentalità, la
gente e il suo difficile modo di tirare avanti. Sa che il problema
principale è il lavoro e che, sulla sua mancanza, la malavita mette
facili radici con le sue allettanti proposte. La formazione,
l’istruzione potrebbero far molto, ma a Brancaccio non c’è neppure la
Scuola Media: a sei anni dalla sua morte aspetta ancora di essere
inaugurata. Pino comincia allora a lavorare coi più giovani, coi
ragazzi: è convinto di essere ancora in tempo per formarli e per dar
loro dignità e speranza. Per i suoi "figli" fonda il Centro "Padre
nostro". "Coi più piccoli – diceva – riusciamo a instaurare un dialogo.
I più grandicelli sfuggono, sono attirati da altre proposte".
Racconta
il suo assassino: "Cosa nostra sapeva tutto. (Che andava) in Prefettura
e al Comune per chiedere la scuola media e fare requisire gli scantinati
di via Hazon. Sapeva del Comitato intercondominiale, delle prediche.
C’era gente vicina a don Pino che andava in chiesa e poi ci veniva a
raccontare." Il piccolo e mite prete comincia a dar fastidio. Lavora in
silenzio, non fa clamore, non va sui giornali, ma scava nelle coscienze,
costruisce legami, apre prospettive diverse. Cominciano allora gli
"avvertimenti": una ad una vengono incendiate le porte di casa dei
membri del comitato. Poi le minacce, sempre più dirette, e il pestaggio
di un ragazzo del Centro. Ma ad ammazzare un prete, fino ad allora, la
mafia non si era ancora spinta. La chiesa era, tutto sommato, un
territorio ancora franco. Se ne poteva sperare comprensione, rifugio. Ma
quel prete… Arriva allora la condanna. Il killer viene allertato. "Lo
avvistammo in una cabina telefonica. Era tranquillo. Che fosse il giorno
del suo compleanno lo scoprimmo dopo. Spatuzza gli tolse il borsello e
gli disse: Padre, questa è una rapina. Lui rispose: Me l’aspettavo. Lo
disse con un sorriso… Quello che posso dire è che c’era una specie di
luce in quel sorriso… Io già ne avevo uccisi parecchi, però non avevo
ancora provato nulla del genere. Me lo ricordo sempre quel sorriso,
anche se faccio fatica persino a tenermi impressi i volti, le facce dei
miei parenti. Quella sera cominciai a pensarci: si era smosso qualcosa".
Un anno fa,
il 28 febbraio, il pubblico ministero Lorenzo Matassa chiudeva così la
sua requisitoria al processo per la morte di don Pino: "Ricordate,
giudici della Corte d’Assise, cosa raccontò "il cacciatore? L’assassino
riferì che lo Spatuzza Gaspare gli sottrasse il borsello e s’impossessò
delle marche della patente. Singolare assonanza con ciò che è scritto
nel Vangelo secondo Giovanni, dopo la crocifissione di Nostro Signore
Gesù: "Si sono divise tra loro le mie vesti". Ma questo Spatuzza Gaspare
e i suoi corrèi non potevano saperlo".
Don Pino
non ha scritto molto. Un suo intervento però ci rimane. L’aveva tenuto a
Trento, due anni prima di morire. Il testo è di un’agghiacciante
profezia: "La testimonianza cristiana è una testimonianza che diventa
martirio. Infatti testimonianza in greco si dice martyrion.
Dalla testimonianza al martirio il passo è breve, anzi è proprio questo
che dà valore alla testimonianza." Essa servirà a dar fiducia "a chi,
nel profondo, conserva rabbia nei confronti della società che vede
ostile… A chi è disorientato, il testimone della speranza indica non
cos’è la speranza, ma chi è la speranza. La speranza è Cristo, e si
indica logicamente attraverso una propria vita orientata verso Cristo".
Dopo la
conversione del suo assassino, don Pino ha fatto il miracolo di far
aprire la scuola
a lui dedicata (18
aule, nuova costruzione). Ma uno, certamente,
continua a farlo tutti i giorni: quello di additare ai credenti e agli
uomini di buona volontà la via della "compromissione" e della
"prossimità" coi fratelli. Da un seme che è morto sta nascendo la spiga.
| indietro | | inizio
pagina |
|