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COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE
(*)
INDICE GENERALE
Introduzione
CAPITOLO I: CONVERGENZE
1.1. Le sapienze e le religioni del mondo
1.2. Le fonti greco-romane della legge naturale
1.3. L’insegnamento della Sacra Scrittura
1.4. Gli sviluppi della tradizione cristiana
1.5. Evoluzioni ulteriori
1.6. Il magistero della Chiesa e la legge naturale
CAPITOLO II: LA PERCEZIONE DEI VALORI MORALI
2.1. Il ruolo della società e della cultura
2.2. L’esperienza morale: «Bisogna fare il bene»
2.3. La scoperta dei precetti della legge naturale: universalità della legge
naturale
2.4. I precetti della legge naturale
2.5. L’applicazione dei precetti comuni: storicità della legge naturale
2.6. Le disposizioni morali della persona e il suo agire concreto
CAPITOLO III: I FONDAMENTI DELLA LEGGE NATURALE
3.1. Dall’esperienza alla teoria
3.2. Natura, persona e libertà
3.3. La natura, l’uomo e Dio: dall’armonia al conflitto
3.4. Vie verso una riconciliazione
CAPITOLO IV: LA LEGGE NATURALE E LA CITTÀ
4.1. La persona e il bene comune
4.2. La legge naturale, misura dell’ordine politico
4.3. Dalla legge naturale al diritto naturale
4.4. Diritto naturale e diritto positivo
4.5. L’ordine politico e l’ordine escatologico
4.6. L’ordine politico è un ordine temporale e razionale
CAPITOLO V: GESÚ CRISTO, COMPIMENTO DELLA LEGGE
NATURALE
5.1. Il “Logos” incarnato, Legge vivente
5.2. Lo Spirito Santo e la nuova Legge di libertà
CONCLUSIONE
Introduzione
torna su
1. Esistono valori morali oggettivi in grado di unire gli uomini e di procurare
ad essi pace e felicità? Quali sono? Come riconoscerli? Come attuarli nella vita
delle persone e delle comunità? Questi interrogativi di sempre intorno al bene e
al male oggi sono più urgenti che mai, nella misura in cui gli uomini hanno
preso maggiormente coscienza di formare una sola comunità mondiale. I grandi
problemi che si pongono agli esseri umani hanno ormai una dimensione
internazionale, planetaria, poiché lo sviluppo delle tecniche di comunicazione
favorisce una crescente interazione tra le persone, le società e le culture. Un
avvenimento locale può avere una risonanza planetaria quasi immediata. Emerge
così la consapevolezza di una solidarietà globale, che trova il suo ultimo
fondamento nell’unità del genere umano. Questa si traduce in una responsabilità
planetaria. Così il problema dell’equilibrio ecologico, della protezione
dell’ambiente, delle risorse e del clima è divenuta una preoccupazione
pressante, che interpella tutta l’umanità e la cui soluzione va ampiamente oltre
gli ambiti nazionali. Anche le minacce che il terrorismo, il crimine organizzato
e le nuove forme di violenza e di oppressione fanno pesare sulle società hanno
una dimensione planetaria. I rapidi sviluppi delle biotecnologie, che a volte
minacciano la stessa identità dell’essere umano (manipolazioni genetiche,
clonazioni...), reclamano urgentemente una riflessione etica e politica di
ampiezza universale. In tale contesto, la ricerca di valori etici comuni conosce
un ritorno di attualità.
2. Con la loro saggezza, la loro generosità e talvolta il loro eroismo, uomini e
donne sono testimoni viventi di tali valori etici comuni. L’ammirazione che essi
suscitano in noi è il segno di una prima acquisizione spontanea di valori
morali. La riflessione dei cattedratici e degli scienziati sulle dimensioni
culturali, politiche, economiche, morali e religiose della nostra esistenza
sociale nutre tale determinazione sul bene comune dell’umanità. Ci sono pure gli
artisti che, con la manifestazione della bellezza, reagiscono contro la perdita
di senso e rinnovano la speranza degli esseri umani. Anche uomini politici
lavorano con energia e creatività per attuare programmi di rimozione della
povertà e di protezione delle libertà fondamentali. Molto importante è inoltre
la costante testimonianza dei rappresentanti delle religioni e delle tradizioni
spirituali che vogliono vivere alla luce delle verità ultime e del bene
assoluto. Tutti contribuiscono, ciascuno a suo modo e in un reciproco scambio, a
promuovere la pace, un ordine politico più giusto, il senso della comune
responsabilità, un’equa ripartizione delle ricchezze, il rispetto dell’ambiente,
la dignità della persona umana e i suoi diritti fondamentali. Tuttavia questi
sforzi possono avere successo soltanto se le buone intenzioni si fondano su un
valido accordo di base circa i beni e i valori che rappresentano le aspirazioni
più profonde dell’essere umano, a titolo individuale e comunitario. Soltanto il
riconoscimento e la promozione di questi valori etici possono contribuire alla
costruzione di un mondo più umano.
3. La ricerca di questo linguaggio etico comune riguarda tutti gli uomini. Per i
cristiani, si accorda misteriosamente con l’opera del Verbo di Dio, «la luce
vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9), e con l’opera dello Spirito Santo
che fa nascere nei cuori «amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà,
fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22-23). La comunità dei cristiani, che
condivide «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini
d’oggi» e «perciò si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano
e con la sua storia» (1), non può assolutamente sottrarsi a tale comune
responsabilità. Illuminati dal Vangelo, impegnati in un dialogo paziente e
rispettoso con tutti gli uomini di buona volontà, i cristiani partecipano alla
ricerca comune dei valori umani da promuovere: «Quello che è vero, nobile,
giusto, puro, amabile, onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo
sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,8). Essi sanno che Gesù Cristo, «nostra
pace» (Ef 2,14), che ha riconciliato tutti gli uomini con Dio per mezzo della
croce, è il principio di unità più profondo verso il quale il genere umano è
chiamato a convergere.
4. La ricerca di un linguaggio etico comune è inseparabile da un’esperienza di
conversione, con la quale persone e comunità si allontanano dalle forze che
cercano di imprigionare l’essere umano nell’indifferenza o lo spingono a
innalzare muri contro l’altro o contro lo straniero. Il cuore di pietra —
freddo, inerte e indifferente alla sorte del prossimo e del genere umano — deve
trasformarsi, sotto l’azione dello Spirito, in un cuore di carne (2), sensibile
ai richiami della saggezza, alla compassione, al desiderio della pace e alla
speranza per tutti. Questa conversione è la condizione di un vero dialogo.
5. Non mancano i tentativi contemporanei per definire un’etica universale. Dopo
la fine della seconda guerra mondiale, la comunità delle nazioni, traendo le
conseguenze delle strette complicità che il totalitarismo aveva mantenuto con il
puro positivismo giuridico, ha definito nella Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo (1948) alcuni diritti inalienabili della persona umana che
trascendono le leggi positive degli Stati e devono servire loro come riferimento
e norma. Tali diritti non sono semplicemente concessi dal legislatore: essi sono
dichiarati, cioè la loro esistenza oggettiva, anteriore alla decisione del
legislatore, è resa manifesta. Derivano infatti dal «riconoscimento della
dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana» (Preambolo).
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo costituisce uno dei più bei
successi della storia moderna. Essa «rimane una delle espressioni più alte della
coscienza umana nel nostro tempo» (3) e offre una solida base per la promozione
di un mondo più giusto. Tuttavia i risultati non sono stati sempre all’altezza
delle speranze. Alcuni Paesi hanno contestato l’universalità di tali diritti,
giudicati troppo occidentali, e questo spinge a cercare una loro formulazione
più comprensiva. Inoltre, una certa propensione a moltiplicare i diritti
dell’uomo, in funzione più dei desideri disordinati dell’individuo consumista o
di rivendicazioni settoriali che non di esigenze oggettive del bene comune
dell’umanità, ha contribuito non poco a svalutarli. Separata dal senso morale
dei valori che trascendono gli interessi particolari, la moltiplicazione delle
procedure e delle regolamentazioni giuridiche conduce soltanto a un
affossamento, che in definitiva serve soltanto gli interessi dei più forti.
Soprattutto, si manifesta una tendenza a reinterpretare i diritti dell’uomo
separandoli dalla dimensione etica e razionale, che costituisce il loro
fondamento e il loro fine, a profitto di un puro legalismo utilitarista (4).
6. Per spiegare il fondamento etico dei diritti dell’uomo, alcuni hanno cercato
di elaborare un’«etica mondiale» nell’ambito di un dialogo tra le culture e le
religioni. L’«etica mondiale» indica l’insieme dei valori obbligatori
fondamentali che da secoli formano il tesoro dell’esperienza umana. Essa si
trova in tutte le grandi tradizioni religiose e filosofiche (5). Tale progetto,
degno di interesse, è espressione del bisogno attuale di un’etica che abbia
validità universale e globale. Ma la ricerca puramente induttiva, sul modello
parlamentare, di un consenso minimo già esistente può soddisfare le esigenze di
fondare il diritto sull’assoluto? Inoltre, tale etica minima non conduce forse a
relativizzare le esigenze etiche forti di ogni religione o sapienza particolare?
7. Da molti decenni la questione dei fondamenti etici del diritto e della
politica è stata messa da parte in alcuni settori della cultura contemporanea.
Con il pretesto che ogni pretesa di una verità oggettiva e universale sarebbe
fonte di intolleranza e di violenza, e che soltanto il relativismo potrebbe
salvaguardare il pluralismo dei valori e la democrazia, si fa l’apologia del
positivismo giuridico che rifiuta di riferirsi a un criterio oggettivo,
ontologico, di ciò che è giusto. In tale prospettiva, l’ultimo orizzonte del
diritto e della norma morale è la legge in vigore, che è considerata giusta per
definizione, poiché è espressione della volontà del legislatore. Ma questo
significa aprire la via all’arbitrio del potere, alla dittatura della
maggioranza aritmetica e alla manipolazione ideologica, a detrimento del bene
comune. «Nell’etica e nella filosofia attuale del diritto, i postulati del
positivismo giuridico sono largamente presenti. La conseguenza è che la
legislazione diventa spesso soltanto un compromesso tra interessi diversi; si
tenta di trasformare in diritti interessi o desideri privati che si oppongono ai
doveri derivanti dalla responsabilità sociale» (6). Ma il positivismo giuridico
è notoriamente insufficiente, poiché il legislatore può agire legittimamente
soltanto all’interno di determinati limiti che derivano dalla dignità della
persona umana e al servizio dello sviluppo di ciò che è autenticamente umano.
Ora, il legislatore non può abbandonare la determinazione di ciò che è umano a
criteri estrinseci e superficiali, come farebbe, ad esempio, se legittimasse da
sé tutto ciò che è realizzabile nell’ambito delle biotecnologie. Insomma, deve
agire in modo eticamente responsabile. La politica non può prescindere
dall’etica né la legge civile e l’ordine giuridico possono prescindere da una
legge morale superiore.
8. In tale contesto nel quale il riferimento a valori oggettivi assoluti
universalmente riconosciuti è diventato problematico, alcuni, desiderosi di dare
comunque una base razionale alle decisioni etiche comuni, raccomandano un’«etica
della discussione» nella linea di una comprensione «dialogica» della morale.
L’etica della discussione consiste nell’usare, nel corso di un dibattito etico,
soltanto le norme a cui tutti i partecipanti interessati, rinunciando a
comportamenti «strategici» per imporre i propri punti di vista, possano dare il
loro assenso. Così si può determinare se una regola di condotta e di azione o un
comportamento sono morali, poiché, lasciando da parte i condizionamenti
culturali e storici, il principio di discussione offre una garanzia di
universalità e di razionalità. L’etica della discussione si interessa
soprattutto del metodo con cui, grazie al dibattito, i princìpi e le norme
etiche possono essere messe alla prova e divenire obbligatori per tutti i
partecipanti. È essenzialmente un procedimento per saggiare il valore delle
norme proposte, ma non può produrre nuovi contenuti sostanziali. L’etica della
discussione è dunque un’etica puramente formale che non riguarda gli
orientamenti morali di fondo. Corre anche il rischio di limitarsi a una ricerca
di compromesso. Certo, il dialogo e il dibattito sono sempre necessari per
ottenere un accordo realizzabile sull’applicazione concreta delle norme morali
in una data situazione, ma non potrebbero emarginare la coscienza morale. Un
vero dibattito non sostituisce la convinzioni morali personali, ma le suppone e
le arricchisce.
9. Consapevoli delle attuali poste in gioco della questione, in questo documento
intendiamo invitare tutti coloro che si interrogano sui fondamenti ultimi
dell’etica, come pure dell’ordine giuridico e politico, a considerare le risorse
che contiene una presentazione rinnovata della dottrina della legge naturale.
Questa afferma in sostanza che le persone e le comunità umane sono capaci, alla
luce della ragione, di riconoscere gli orientamenti fondamentali di un agire
morale conforme alla natura stessa del soggetto umano e di esprimerlo in modo
normativo sotto forma di precetti o di comandamenti. Tali precetti fondamentali,
oggettivi e universali, sono chiamati a fondare e ad ispirare l’insieme delle
determinazioni morali, giuridiche e politiche che regolano la vita degli uomini
e delle società. Essi ne costituiscono un’istanza critica permanente e
assicurano la dignità della persona umana di fronte alla fluttuazione delle
ideologie. Nel corso della sua storia, nell’elaborazione della propria
tradizione etica, la comunità cristiana, guidata dallo Spirito di Gesù Cristo e
in dialogo critico con le tradizioni di sapienza che ha incontrato, ha assunto,
purificato e sviluppato tale insegnamento sulla legge naturale come norma etica
fondamentale. Ma il cristianesimo non ha il monopolio della legge naturale.
Infatti essa, fondata sulla ragione comune a tutti gli esseri umani, è la base
di collaborazione fra tutti gli uomini di buona volontà, al di là delle loro
convinzioni religiose.
10. È vero che l’espressione «legge naturale» è fonte di molti malintesi nel
contesto attuale. A volte richiama semplicemente una sottomissione rassegnata e
del tutto passiva alle leggi fisiche della natura, mentre l’essere umano,
giustamente, cerca piuttosto di dominare e orientare questi determinismi per il
suo bene. A volte, presentata come un dato oggettivo che si imporrebbe
dall’esterno alla coscienza personale, indipendentemente dal lavoro della
ragione e della soggettività, è sospettata di introdurre una forma di eteronomia
insopportabile alla dignità della persona umana libera. Altre volte, nel corso
della sua storia, la teologia cristiana ha giustificato troppo facilmente con la
legge naturale posizioni antropologiche che, in seguito, sono apparse
condizionate dal contesto storico e culturale. Ma una comprensione più profonda
dei rapporti tra il soggetto morale, la natura e Dio come pure una migliore
considerazione della storicità che riguarda le applicazioni concrete della legge
naturale consentono di dissipare tali malintesi. Oggi è importante anche
proporre la dottrina tradizionale della legge naturale in termini che
manifestino meglio la dimensione personale ed esistenziale della vita morale.
Bisogna anche insistere maggiormente sul fatto che l’espressione delle esigenze
della legge naturale è inseparabile dallo sforzo di tutta la comunità umana per
superare le tendenze egoistiche e faziose e sviluppare un approccio globale con
l’«ecologia dei valori», senza la quale la vita umana rischia di perdere la
propria integrità e il proprio senso di responsabilità per il bene di tutti.
11. L’idea della legge morale naturale assume numerosi elementi comuni alle
grandi sapienze religiose e filosofiche dell’umanità. Perciò il nostro
documento, nel capitolo 1, inizia col ricordare tali «convergenze». Senza
pretendere di essere esauriente, indica che queste grandi sapienze religiose e
filosofiche sono testimoni dell’esistenza di un patrimonio morale largamente
comune, che forma la base di ogni dialogo sulle questioni morali. Ancor più,
esse suggeriscono, in un modo o in un altro, che questo patrimonio esplicita un
messaggio etico universale immanente alla natura delle cose e che gli uomini
sono in grado di decifrare. Il documento ricorda poi alcuni punti di riferimento
essenziali dello sviluppo storico dell’idea di legge naturale e cita alcune
interpretazioni moderne che sono parzialmente all’origine delle difficoltà che i
nostri contemporanei provano dinanzi a tale nozione. Nel capitolo 2 («La
percezione dei valori morali comuni»), il nostro documento descrive come, a
partire dai dati più semplici dell’esperienza morale, la persona umana coglie
immediatamente alcuni beni morali fondamentali e formula di conseguenza i
precetti della legge naturale. Questi non costituiscono un codice completo di
prescrizioni intangibili, ma un principio permanente e normativo di ispirazione
al servizio della vita morale concreta della persona. Il capitolo 3 («I
fondamenti della legge naturale»), passando dall’esperienza comune alla teoria,
approfondisce i fondamenti filosofici, metafisici e religiosi della legge
naturale. Per rispondere ad alcune obiezioni contemporanee, precisa il ruolo
della natura nell’agire personale e si interroga sulla possibilità per la natura
di costituire una norma morale. Il capitolo 4 («La legge naturale e la Città»)
esplicita il ruolo regolatore dei precetti della legge naturale nella vita
politica. La dottrina della legge naturale possiede già coerenza e validità sul
piano filosofico della ragione comune a tutti gli uomini, ma il capitolo 5 («Gesù
Cristo, compimento della legge naturale») mostra che essa acquista il suo senso
pieno all’interno della storia della salvezza: infatti Gesù Cristo, inviato dal
Padre, è, con il suo Spirito, la pienezza di ogni legge.
Capitolo primo: convergenze
torna su
1.1. Le sapienze e le religioni del mondo
12. Nelle diverse culture, gli uomini hanno progressivamente elaborato e
sviluppato tradizioni di sapienza nelle quali esprimono e trasmettono la loro
visione del mondo, come pure la loro percezione riflessa del posto che l’essere
umano occupa nella società e nel cosmo. Prima di ogni teorizzazione concettuale,
queste sapienze, che sono spesso di natura religiosa, trasmettono un’esperienza
che identifica ciò che favorisce o ciò che impedisce il pieno manifestarsi della
vita personale e il buon andamento della vita sociale. Esse costituiscono una
sorta di «capitale culturale» disponibile per la ricerca di una sapienza comune
necessaria per rispondere alle sfide etiche contemporanee. Secondo la fede
cristiana, queste tradizioni di sapienza, nonostante i loro limiti e talvolta i
loro errori, colgono un riflesso della sapienza divina che opera nel cuore degli
uomini. Esse richiedono attenzione e rispetto, e possono aver valore di
praeparatio evangelica.
La forma e l’estensione di queste tradizioni possono variare considerevolmente.
Tuttavia sono testimoni dell’esistenza di un patrimonio di valori morali comuni
a tutti gli uomini, al di là del modo in cui tali valori sono giustificati
all’interno di una particolare visione del mondo. Ad esempio, la «regola d’oro»
(«Non fare a nessuno ciò che non vuoi che sia fatto a te» [Tb 4,15]) si ritrova,
sotto una forma o un’altra, nella maggior parte delle tradizioni di sapienza
(7). Inoltre, sono generalmente concordi nel riconoscere che le grandi regole
etiche non solo si impongono a un determinato gruppo umano, ma valgono
universalmente per ogni individuo e per tutti i popoli. Infine molte tradizioni
riconoscono che questi comportamenti morali universali sono richiesti dalla
natura stessa dell’essere umano: essi esprimono la maniera in cui l’uomo deve
inserirsi, in modo creativo e insieme armonioso, in un ordine cosmico o
metafisico che lo supera e che dà senso alla sua vita. Infatti tale ordine è
impregnato da una sapienza immanente. È portatore di un messaggio morale che gli
uomini sono in grado di decifrare.
13. Nelle tradizioni indù il mondo — il cosmo, come pure le società umane — è
regolato da un ordine o da una legge fondamentale (dharma) che bisogna
rispettare per non provocare gravi squilibri. Il dharma definisce perciò gli
obblighi socio-religiosi dell’uomo. Nella sua specificità, l’insegnamento morale
dell’induismo si comprende alla luce delle dottrine fondamentali delle
Upanishads: la credenza in un ciclo indefinito di trasmigrazioni (samsāra), con
l’idea che le azioni buone o cattive compiute nella vita presente (karman) hanno
influenza sulle rinascite successive. Tali dottrine hanno importanti conseguenze
sul comportamento nei confronti degli altri: implicano un alto grado di bontà e
di tolleranza, il senso dell’azione disinteressata a beneficio degli altri, come
pure la pratica della non-violenza (ahimsā). La principale corrente dell’induismo
distingue due corpi di testi: šruti («ciò che è inteso», cioè la rivelazione) e
smrti («ciò che si ricorda», cioè la tradizione). Le prescrizioni etiche si
trovano soprattutto nella smrti, più in particolare nei dharmaśāstra (i più
importanti dei quali sono i mānava dharmaśāstra o leggi di Manu, del 200-100 a.C.).
Oltre al principio di base, secondo il quale «il costume immemorabile è la legge
trascendente approvata dalla sacra scrittura e dai codici dei divini
legislatori; perciò ogni uomo delle tre classi principali, che rispetta lo
spirito supremo che è in lui, deve sempre conformarsi diligentemente al costume
immemorabile» (8), vi si trova un equivalente pratico della regola d’oro: «Ti
dirò ciò che è l’essenza del più grande bene dell’essere umano. L’uomo che
pratica la religione (dharma) del non-nuocere (ahimsā) universale acquista il
più grande Bene. Quest’uomo che si domina nelle tre passioni, la cupidigia, la
collera e l’avarizia, rinunciandovi in rapporto agli esseri, acquisisce il
successo. [...] Quest’uomo che considera tutte le creature come il proprio “se
stesso” e li tratta come il proprio “sé”, deponendo la verga punitiva e
dominando completamente la sua collera, si assicurerà il possesso della
felicità. [...] Non farà all’altro ciò che si considera nocivo per se stesso. È
insomma la regola della virtù. [...] Nel fatto di rifiutare e di dare,
nell’abbondanza e nell’infelicità, nel gradevole e nello sgradevole, si
giudicherà di tutte le conseguenze considerando il proprio “sé”» (9). Diversi
precetti della tradizione indù si possono mettere in parallelo con le esigenze
del Decalogo (10).
14. Generalmente si definisce il buddismo con le quattro «nobili verità»
insegnate da Buddha dopo la sua illuminazione:
- la realtà è sofferenza e
insoddisfazione;
- l’origine della sofferenza è il desiderio;
- la cessazione
della sofferenza è possibile (con l’estinzione del desiderio);
- c’è una via
che conduce alla cessazione della sofferenza. Questa via è il «nobile ottuplice
sentiero» che consiste nella pratica della disciplina, della concentrazione e
della sapienza. Sul piano etico le azioni favorevoli si possono riassumere nei
cinque precetti (śīla, sīla):
- non nuocere agli esseri viventi e non togliere
la vita;
- non prendere ciò che non è dato;
- non avere una condotta sessuale
scorretta;
- non usare parole false o menzognere;
- non ingerire prodotti
intossicanti che diminuiscono il dominio di sé.
Il profondo altruismo della
tradizione buddista, che si traduce in un atteggiamento deliberato di
non-violenza, con la benevolenza amichevole e la compassione, raggiunge così la
regola d’oro.
15. La civiltà cinese è profondamente segnata dal taoismo di Laozi o Lao-Tse (VI
sec. a.C.). Secondo Lao-Tse, la Via o Dào è il principio primordiale, immanente
a tutto l’universo. È un principio inafferrabile di cambiamento permanente sotto
l’azione di due poli contrari e complementari: lo yīn e lo yáng. Spetta all’uomo
sposare tale processo naturale di trasformazione, lasciarsi andare al flusso del
tempo, grazie all’atteggiamento di non-azione (wú-wéi). La ricerca dell’armonia
con la natura, indissociabilmente materiale e spirituale, è dunque al cuore
dell’etica taoista. Quanto a Confucio (571-479 a.C.), («Maestro Kong»), in
occasione di un periodo di crisi profonda egli tenta di restaurare l’ordine con
il rispetto dei riti, fondato sulla pietà filiale che dev’essere al cuore di
ogni vita sociale. Infatti le relazioni sociali si modellano sulle relazioni
familiari. L’armonia si ottiene con un’etica della giusta misura, in cui la
relazione ritualizzata (il li), che inserisce l’essere umano nell’ordine
naturale, è la misura di tutte le cose. L’ideale da raggiungere è il ren, virtù
perfetta di umanità, fatta di dominio di sé e di benevolenza verso gli altri.
«“Mansuetudine” (shù) non è forse la parola chiave? Ciò che tu non vorresti
fosse fatto a te, non infliggerlo agli altri» (11). La pratica di questa regola
indica la via del Cielo (Tiān Dào).
16. Nelle tradizioni africane, la realtà fondamentale è la stessa vita. Essa è
il bene più prezioso, e l’ideale dell’uomo consiste non solo nel vivere al
riparo delle preoccupazioni fino alla vecchiaia, ma soprattutto nel rimanere,
anche dopo la morte, una forza vitale continuamente rafforzata nella e con la
sua progenie. Infatti la vita è un’esperienza drammatica. L’essere umano,
microcosmo all’interno del macrocosmo, vive intensamente il dramma dello scontro
fra la vita e la morte. La missione che gli compete, di assicurare la vittoria
della vita sulla morte, orienta e determina il suo agire etico. Così l’uomo deve
identificare, in un orizzonte etico conseguente, gli alleati della vita,
guadagnarli alla sua causa e così assicurare la propria sopravvivenza che è al
tempo stesso la vittoria della vita. Questo è il significato profondo delle
religioni tradizionali africane. L’etica africana si rivela così come un’etica
antropocentrica e vitale: gli atti ritenuti suscettibili di favorire lo
schiudersi della vita, di conservarla, di proteggerla, di svilupparla o di
accrescere il potenziale vitale della comunità sono perciò considerati buoni;
ogni atto considerato dannoso alla vita degli individui o della comunità è
giudicato cattivo. Le religioni tradizionali africane appaiono così
essenzialmente antropocentriche, ma un’osservazione attenta unita alla
riflessione mostra che né il posto riconosciuto all’uomo vivo né il culto degli
antenati costituiscono qualche cosa di chiuso. Le religioni tradizionali
africane raggiungono il loro vertice in Dio, fonte della vita, creatore di tutto
ciò che esiste.
17. L’islàm si considera la restaurazione della religione naturale originale.
Vede in Maometto l’ultimo profeta inviato da Dio per ricondurre definitivamente
gli uomini sulla retta via. Maometto però è stato preceduto da altri: «Non c’è
comunità nella quale non sia passato un ammonitore» (12). L’islàm si attribuisce
dunque una vocazione universale e si rivolge a tutti gli uomini, che sono
considerati «naturalmente» musulmani. La legge islamica, indissolubilmente
comunitaria, morale e religiosa, è intesa come una legge data direttamente da
Dio. L’etica musulmana è dunque fondamentalmente una morale dell’obbedienza.
Fare il bene significa obbedire ai comandamenti; fare il male significa
disobbedire ad essi. La ragione umana interviene per riconoscere il carattere
rivelato della Legge e ricavarne le implicazioni giuridiche concrete. Certo, nel
IX secolo, la scuola mou’tazilita ha proclamato l’idea secondo la quale «il bene
e il male sono nelle cose», cioè alcuni comportamenti sono buoni o cattivi in se
stessi, anteriormente alla legge divina che li comanda o li proibisce. I mou’taziliti
ritenevano che l’essere umano potesse conoscere con la ragione ciò che è buono o
cattivo. Secondo loro, l’uomo sa spontaneamente che l’ingiustizia o la menzogna
sono cattive, e che è obbligatorio restituire un prestito, allontanare da sé un
danno, o mostrarsi riconoscenti verso i propri benefattori, il primo dei quali è
Dio. Ma gli ach’ariti, che dominano nell’ortodossia sunnita, hanno sostenuto una
teoria contraria. Fautori di un occasionalismo che non riconosce alcuna
consistenza alla natura, ritengono che soltanto la rivelazione positiva di Dio
definisca il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. Tra le prescrizioni di
questa legge divina positiva, molte riprendono i grandi elementi del patrimonio
morale dell’umanità e si possono mettere in relazione con il Decalogo (13).
1.2. Le fonti greco-romane della legge naturale
18. L’idea che esista un diritto naturale anteriore alle determinazioni
giuridiche positive si trova già nella cultura greca classica con la figura
esemplare di Antigone, la figlia di Edipo. I suoi due fratelli, Eteocle e
Polinice, si sono affrontati per il potere e si sono reciprocamente uccisi.
Polinice, il ribelle, è condannato a rimanere insepolto e ad essere bruciato sul
rogo. Ma Antigone, per adempiere al dovere della pietà verso il fratello morto,
si appella contro il divieto di sepoltura pronunciato dal re Creonte, «alle
leggi non scritte e immutabili». Creonte: E così, tu hai osato violare le mie leggi? Antigone: Sì, perché non le ha proclamate Zeus Né la Giustizia che abita con gli dèi di quaggiù; Né l’uno né l’altra le hanno stabilite tra gli uomini. Io non ritengo che i tuoi decreti siano tanto forti Che tu, mortale, possa passare oltre Alle leggi non scritte e immutabili degli dèi. Esse esistono non da oggi né da ieri, ma da sempre:
Nessuno sa quando sono apparse. Per il timore delle volontà di un uomo Non dovevo rischiare che gli dèi mi punissero (14).
19. Platone e Aristotele riprendono la distinzione operata dai sofisti tra le
leggi che hanno origine in una convenzione, cioè una pura decisione positiva (thesis),
e quelle che sono valide «per natura». Le prime non sono né eterne né valide in
modo generale e non obbligano tutti. Le seconde obbligano tutti, sempre e
dovunque (15). Alcuni sofisti, come Càllicle del Gorgia di Platone, ricorrevano
a questa distinzione per contestare la legittimità delle leggi istituite dalle
città umane. A tali leggi opponevano la loro idea, stretta ed erronea, della
natura, ridotta alla sola componente fisica. Così, contro l’uguaglianza politica
e giuridica dei cittadini nella Città, sostenevano ciò che sembrava loro la più
evidente delle «leggi naturali»: il più forte deve spuntarla sul più debole
(16).
20. Niente di questo in Platone e Aristotele. Essi non oppongono diritto
naturale e leggi positive della Città. Sono convinti che le leggi della Città
sono generalmente buone e costituiscono l’attuazione, più o meno riuscita, di un
diritto naturale conforme alla natura delle cose. Per Platone il diritto
naturale è un diritto ideale, una norma per i legislatori e per i cittadini, una
regola che consente di fondare e di valutare le leggi positive (17). Per
Aristotele questa norma suprema della moralità corrisponde alla realizzazione
della forma essenziale della natura. È morale ciò che è naturale. Il diritto
naturale è immutabile; il diritto positivo cambia secondo i popoli e le diverse
epoche. Ma il diritto naturale non si colloca al di là del diritto positivo.
Esso si incarna nel diritto positivo, che è l’applicazione dell’idea generale
della giustizia alla vita sociale nella sua varietà.
21. Nello stoicismo la legge naturale diviene il concetto chiave di un’etica
universalista. È buono e dev’essere compiuto ciò che corrisponde alla natura,
compresa in un senso psico-biologico e insieme razionale. Ogni uomo, qualunque
sia la nazione alla quale appartiene, deve integrarsi come una parte nel Tutto
dell’universo. Deve vivere secondo la natura (18). Questo imperativo presuppone
che esista una legge eterna, un Logos divino, il quale è presente sia nel cosmo,
che essa impregna di razionalità, sia nella ragione umana. Così, per Cicerone la
legge è «la ragione suprema inserita nella natura che ci comanda ciò che bisogna
fare e ci proibisce il contrario» (19). Natura e ragione costituiscono le due
fonti della nostra conoscenza della legge etica fondamentale, che è di origine
divina.
1.3. L’insegnamento della Sacra Scrittura
22. Il dono della Legge sul Sinai, di cui le «Dieci Parole» costituiscono il
centro, è un elemento essenziale dell’esperienza religiosa di Israele. Questa
Legge di alleanza comporta precetti etici fondamentali. Essi definiscono il modo
in cui il popolo eletto deve rispondere con la santità della vita alla scelta di
Dio: «Parla a tutta la comunità degli israeliti dicendo loro: “Siate santi,
perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo”» (Lv 19,2). Ma questi
comportamenti etici valgono anche per gli altri popoli, tanto che Dio chiede
conto alle nazioni straniere che violano la giustizia e il diritto (20). Infatti
Dio aveva già stabilito nella persona di Noè un’alleanza con la totalità del
genere umano, che implicava in particolare il rispetto della vita (Gn 9) (21).
Più fondamentalmente, la creazione stessa appare come l’atto con cui Dio
struttura l’insieme dell’universo dandogli una legge. «Lodino [gli astri] il
nome del Signore, perché al suo comando sono stati creati. Li ha resi stabili
per sempre; ha fissato un decreto che non passerà» (Sal 148,5-6). Tale
obbedienza delle creature alla legge di Dio è un modello per gli esseri umani.
23. Insieme ai testi che si riferiscono alla storia della salvezza, con i
maggiori temi teologici dell’elezione, della promessa, della Legge e
dell’alleanza, la Bibbia contiene anche una letteratura di sapienza che non
tratta direttamente della storia nazionale di Israele, ma che si interessa del
posto dell’uomo nel mondo. Essa sviluppa la convinzione che c’è un modo
corretto, «sapiente», di fare le cose e di condurre la vita. L’essere umano deve
impegnarsi a cercarlo e poi sforzarsi di metterlo in pratica. Questa sapienza
non si trova sia nella storia sia nella natura e nella vita di tutti i giorni
(22). In tale letteratura, la Sapienza è spesso presentata come una perfezione
divina, talvolta ipostatizzata. Essa si manifesta in modo sorprendente nella
creazione, di cui essa è «l’artefice» (Sap 7,21). L’armonia che regna tra le
creature le rende testimonianza. Di tale sapienza che viene da Dio l’uomo è reso
partecipe in diversi modi. Questa partecipazione è un dono di Dio, che bisogna
chiedere nella preghiera: «Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne
a me lo spirito di sapienza» (Sap 7,7). Essa è ancora frutto dell’obbedienza
alla Legge rivelata. Infatti la Torah è come l’incarnazione della sapienza. «Se
desideri la sapienza, osserva i comandamenti e il Signore te la concederà. Il
timore del Signore è sapienza e istruzione» (Sir 1,26-27). Ma la sapienza è
anche il risultato di una sagace osservazione della natura e dei costumi umani
al fine di scoprire la loro intelligibilità immanente e il loro valore esemplare
(23).
24. Nella pienezza dei tempi, Gesù Cristo ha predicato l’avvento del Regno come
manifestazione dell’amore misericordioso di Dio, che si rende presente tra gli
uomini attraverso la propria persona e chiede da parte loro una conversione e
una libera risposta d’amore. Questa predicazione non è senza conseguenze
sull’etica, sul modo di costruire il mondo e le relazioni umane. Nel suo
insegnamento morale, del quale il discorso della montagna è un’ammirevole
sintesi, Gesù riprende da parte sua la regola d’oro: «Tutto quanto volete che
gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e
i Profeti» (Mt 7,12) (24). Questo precetto positivo completa la formulazione
negativa della stessa regola nell’Antico Testamento: «Non fare a nessuno ciò che
non vuoi che sia fatto a te» (Tb 4,15) (25).
25. All’inizio della Lettera ai Romani, l’apostolo Paolo, con l’intento di
manifestare la necessità universale della salvezza portata da Cristo, descrive
la situazione religiosa e morale comune a tutti gli uomini. Egli afferma la
possibilità di una conoscenza naturale di Dio: «Ciò che di Dio si può conoscere
è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni
invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e
comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute» (Rm
1,19-20) (26). Ma tale conoscenza si è pervertita in idolatria. Ponendo sullo
stesso piano giudei e pagani, san Paolo afferma l’esistenza di una legge morale
non scritta, che è inscritta nei loro cuori (27). Essa consente di discernere da
se stessi il bene e il male. «Quando i pagani, che non hanno la Legge, per
natura agiscono secondo la Legge, essi, pur non avendo Legge, sono legge a se
stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come
risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti,
che ora li accusano, ora li difendono» (Rm 2,14-15). La conoscenza della legge
però non basta da sé per condurre una vita giusta (28). Questi testi di san
Paolo hanno avuto un’influenza determinante sulla riflessione cristiana relativa
alla legge naturale.
1.4. Gli sviluppi della tradizione cristiana
26. Per i Padri della Chiesa il sequi naturam e la sequela Christi non si
oppongono. Al contrario, essi adottano generalmente l’idea stoica secondo la
quale la natura e la ragione ci indicano quali sono i nostri doveri morali.
Seguirle è seguire il Logos personale, il Verbo di Dio. Infatti la dottrina
della legge naturale fornisce una base per completare la morale biblica. Essa
inoltre consente di spiegare perché i pagani, indipendentemente dalla
rivelazione biblica, possiedono una concezione morale positiva. Questa è
indicata loro dalla natura e corrisponde all’insegnamento della Rivelazione: «Da
Dio sono la legge della natura e la legge della rivelazione, che fanno un tutt’uno»
(29). Tuttavia i Padri della Chiesa non adottano puramente e semplicemente la
dottrina stoica, ma la modificano e la sviluppano. Da una parte, l’antropologia
di ispirazione biblica che vede l’uomo come l’imago Dei, la cui piena verità è
manifestata in Cristo, vieta di ridurre la persona umana a un semplice elemento
del cosmo: chiamata alla comunione con il Dio vivente, essa trascende il cosmo
pur integrandosi in esso. D’altra parte, l’armonia della natura e della ragione
non si fonda più sulla visione immanentista di un cosmo panteista, ma sul comune
riferimento alla sapienza trascendente del Creatore. Comportarsi in modo
conforme alla ragione significa seguire gli orientamenti che Cristo, come Logos
divino, ha deposto grazie ai logoi spermatikoi nella ragione umana. Agire contro
la ragione è una colpa contro questi orientamenti. È molto significativa la
definizione di sant’Agostino: «La legge eterna è la ragione divina o la volontà
di Dio, che ordina di conservare l’ordine naturale e proibisce di turbarlo»
(30). Più precisamente, per sant’Agostino le norme della vita retta e della
giustizia sono espresse nel Verbo di Dio, che le imprime poi nel cuore dell’uomo
«alla maniera di un sigillo che da un anello passa alla cera, ma senza lasciare
l’anello» (31). Inoltre, nei Padri la legge naturale è ormai compresa
nell’ambito di una storia della salvezza che conduce a distinguere diversi stati
della natura (natura originale, natura decaduta, natura restaurata), nei quali
la legge naturale si realizza in modi diversi. La dottrina patristica della
legge naturale è stata trasmessa al Medioevo, insieme alla concezione, molto
vicina, del «diritto delle genti (ius gentium)», secondo la quale esistono,
fuori del diritto romano (ius civile), princìpi universali di diritto che
regolano le relazioni tra i popoli e sono obbligatori per tutti ( 32).
27. Nel Medioevo la dottrina della legge naturale raggiunge una certa maturità e
assume una forma «classica», che costituisce il sottofondo di tutte le
discussioni ulteriori. Essa si caratterizza per quattro elementi. In primo
luogo, in conformità con la natura del pensiero scolastico che cerca di
raccogliere la verità dovunque si trovi, assume le riflessioni anteriori sulla
legge naturale, pagane o cristiane, e tenta di proporne una sintesi. In secondo
luogo, in conformità con la natura sistematica del pensiero scolastico, colloca
la legge naturale in un quadro metafisico e teologico generale. La legge
naturale è intesa come partecipazione della creatura razionale alla legge divina
eterna, grazie alla quale entra in modo consapevole e libero nei disegni della
Provvidenza. Non è un insieme chiuso e completo di norme morali, ma una fonte di
ispirazione costante, presente e operante nelle diverse tappe dell’economia
della salvezza. In terzo luogo, con la presa di coscienza della densità propria
della natura, che è in parte legata alla riscoperta del pensiero di Aristotele,
la dottrina scolastica della legge naturale considera l’ordine etico e politico
come un ordine razionale, opera dell’intelligenza umana. Definisce per essa uno
spazio di autonomia, una distinzione senza separazione, in rapporto all’ordine
della rivelazione religiosa (33). Infine, agli occhi dei teologi e dei giuristi
scolastici, la legge naturale costituisce un punto di riferimento e un criterio
alla luce del quale essi valutano la legittimità delle leggi positive e dei
costumi particolari.
1.5. Evoluzioni ulteriori
28. La storia moderna dell’idea della legge naturale si presenta per certi
aspetti come un legittimo sviluppo dell’insegnamento della scolastica medievale
in un contesto culturale più complesso, segnato in particolare da un senso più
vivo della soggettività morale. Tra questi sviluppi, segnaliamo l’opera dei
teologi spagnoli del XVI secolo che, alla maniera del domenicano Francesco de
Vitoria, sono ricorsi alla legge naturale per contestare l’ideologia
imperialista di alcuni Stati cristiani d’Europa e per difendere i diritti dei
popoli non cristiani d’America. Infatti tali diritti sono inerenti alla natura
umana e non dipendono dalla situazione concreta nei confronti della fede
cristiana. L’idea di legge naturale ha inoltre consentito ai teologi spagnoli di
porre le basi di un diritto internazionale, cioè di una norma universale che
regoli le relazioni dei popoli e degli Stati tra loro.
29. Ma, per altri aspetti, nell’epoca moderna l’idea della legge naturale ha
assunto orientamenti e forme che contribuiscono a renderla difficilmente
accettabile oggi. Negli ultimi secoli del Medioevo, si è sviluppata nella
scolastica una corrente volontarista, la cui egemonia culturale ha modificato
profondamente l’idea di legge naturale. Il volontarismo si propone di
valorizzare la trascendenza del soggetto libero in rapporto a tutti i
condizionamenti. Contro il naturalismo, che tendeva ad assoggettare Dio alle
leggi della natura, sottolinea unilateralmente l’assoluta libertà di Dio, con il
rischio di comprometterne la sapienza e di renderne arbitrarie le decisioni.
Inoltre, contro l’intellettualismo, sospettato di assoggettare la persona umana
all’ordine del mondo, esalta una libertà di indifferenza intesa come puro potere
di scegliere i contrari, con il rischio di staccare la persona dalle sue
inclinazioni naturali e dal bene oggettivo (34).
30. Le conseguenze del volontarismo sulla dottrina della legge naturale sono
numerose. Anzitutto, mentre in Tommaso d’Aquino la legge è intesa come opera di
ragione ed espressione di una sapienza, il volontarismo conduce a legare la
legge alla sola volontà, e ad una volontà staccata dal suo ordinamento
intrinseco al bene. Allora tutta la forza della legge risiede nella sola volontà
del legislatore. La legge è così espropriata della sua intelligibilità
intrinseca. In tali condizioni, la morale si riduce all’obbedienza ai
comandamenti, che manifestano la volontà del legislatore. Thomas Hobbes
dichiarerà quindi: «È l’autorità e non la verità che fa la legge (auctoritas,
non veritas, facit legem)» (35). L’uomo moderno, amante dell’autonomia, non
poteva non insorgere contro una tale visione della legge. Poi, con il pretesto
di preservare l’assoluta sovranità di Dio sulla natura, il volontarismo priva
questa di ogni intelligibilità interna. La tesi della potentia Dei absoluta,
secondo la quale Dio potrebbe agire indipendentemente dalla sua sapienza e dalla
sua bontà, relativizza tutte le strutture intelligibili esistenti e indebolisce
la conoscenza naturale che l’uomo ne può avere. La natura cessa di essere un
criterio per conoscere la sapiente volontà di Dio: l’uomo può ricevere tale
conoscenza soltanto da una rivelazione.
31. D’altra parte, parecchi fattori hanno condotto alla secolarizzazione della
nozione di legge naturale. Tra questi, si può ricordare il crescente divorzio
tra la fede e la ragione che caratterizza la fine del Medioevo, o ancora alcuni
aspetti della Riforma (36), ma soprattutto la volontà di superare i violenti
conflitti religiosi che hanno insanguinato l’Europa all’alba dei tempi moderni.
Si è giunti a voler fondare l’unità politica delle comunità umane mettendo tra
parentesi la confessione religiosa. Ormai la dottrina della legge naturale
prescinde da ogni rivelazione religiosa particolare, e dunque da ogni teologia
confessante. Essa pretende di fondarsi unicamente sui lumi della ragione comune
a tutti gli uomini e si presenta come la norma ultima nel campo secolare.
32. Inoltre, il razionalismo moderno pone l’esistenza di un ordine assoluto e
normativo delle essenze intelligibili accessibile alla ragione e insieme
relativizza il riferimento a Dio come fondamento ultimo della legge naturale.
L’ordine necessario, eterno e immutabile delle essenze dev’essere certamente
attualizzato dal Creatore, ma, si crede, possiede già in se stesso la sua
coerenza e la sua razionalità. Il riferimento a Dio dev’essere dunque opzionale.
La legge naturale si imporrebbe a tutti «anche se Dio non esistesse (etsi Deus
non daretur)» (37).
33. Il modello razionalista moderno della legge naturale è caratterizzato:
- dalla credenza essenzialista in una natura umana immutabile e a-storica,
di cui la ragione può cogliere perfettamente la definizione e le proprietà
essenziali;
- dal mettere tra parentesi la situazione concreta delle persone umane nella
storia della salvezza, segnata dal peccato e dalla grazia, la cui influenza
sulla conoscenza e sulla pratica della legge naturale è però decisiva;
- dall’idea che è possibile per la ragione dedurre a priori i precetti della
legge naturale a partire dalla definizione dell’essenza dell’essere umano;
- dalla massima estensione data ai princìpi così dedotti, tanto che la legge
naturale appare come un codice di leggi già fatte che regola la quasi-totalità
dei comportamenti.
Questa tendenza a estendere il campo delle determinazioni della legge
naturale è stata all’origine di una grave crisi quando, in particolare con il
progresso delle scienze umane, il pensiero occidentale ha preso maggiormente
coscienza della storicità delle istituzioni umane e della relatività culturale
di numerosi comportamenti che a volte si giustificavano richiamandosi
all’evidenza della legge naturale. Questo scarto tra una teoria massimalista e
la complessità dei dati empirici spiega in parte la disaffezione per l’idea
stessa di legge naturale. Perché la nozione di legge naturale possa servire
all’elaborazione di un’etica universale in una società secolarizzata e
pluralista come la nostra, bisogna dunque evitare di presentarla nella forma
rigida che ha assunto, in particolare nel razionalismo moderno.
1.6. Il magistero della Chiesa e la legge naturale
34. Prima del XIII secolo, poiché la distinzione tra l’ordine naturale e quello
soprannaturale non era chiaramente elaborata, la legge naturale era generalmente
assimilata alla morale cristiana. Così il decreto di Graziano, che fornisce la
norma canonica di base nel XII secolo, inizia affermando: «La legge naturale è
ciò che è contenuto nella Legge e nel Vangelo». Identifica poi il contenuto
della legge naturale con la regola d’oro e precisa che le leggi divine
corrispondono alla natura (38). I Padri della Chiesa sono dunque ricorsi alla
legge naturale e alla Sacra Scrittura per fondare il comportamento morale dei
cristiani, ma il magistero della Chiesa, nei primi tempi, ebbe poco da
intervenire per troncare le dispute sul contenuto della legge morale.
Quando il magistero della Chiesa fu condotto non solo a risolvere discussioni
morali particolari, ma anche a giustificare la propria posizione di fronte a un
mondo secolarizzato, si richiamò più esplicitamente alla nozione di legge
naturale. Nel XIX secolo, specialmente sotto il pontificato di Leone XIII, il
ricorso alla legge naturale si impone negli atti del magistero. La presentazione
più esplicita si trova nell’enciclica Libertas praestantissimum (1888). Leone
XIII si riferisce alla legge naturale per identificare la fonte dell’autorità
civile e fissarne i limiti. Ricorda con forza che bisogna obbedire a Dio
piuttosto che agli uomini quando le autorità civili comandano e riconoscono
qualche cosa che è contrario alla legge divina o alla legge naturale. Ma ricorre
pure alla legge naturale per proteggere la proprietà privata contro il
socialismo o ancora per difendere il diritto dei lavoratori a procurarsi con il
lavoro ciò che è necessario per il sostentamento della loro vita. In questa
stessa linea, Giovanni XXIII si riferisce alla legge naturale per fondare i
diritti e i doveri dell’uomo (enciclica Pacem in terris [1963]). Con Pio
XI (enciclica Casti connubii [1930]) e Paolo VI (enciclica Humanae
vitae [1968]), la legge naturale si rivela un criterio decisivo nelle
questioni relative alla morale coniugale. Certamente, la legge naturale è di
diritto accessibile alla ragione umana, comune ai credenti e ai non credenti, e
la Chiesa non ne ha l’esclusiva, ma, poiché la Rivelazione assume le esigenze
della legge naturale, il magistero della Chiesa ne è costituito il garante e
l’interprete (39). Il Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) e l’enciclica
Veritatis splendor (1993) assegnano un posto determinante alla legge
naturale nell’esposizione della morale cristiana (40).
35. Oggi la Chiesa cattolica invoca la legge naturale in quattro contesti
principali. In primo luogo, dinanzi al dilagare di una cultura che limita la
razionalità alle scienze positive e abbandona al relativismo la vita morale,
insiste sulla capacità naturale che hanno gli uomini di cogliere con la ragione
«il messaggio etico contenuto nell’essere» (41) e di conoscere nelle loro grandi
linee le norme fondamentali di un agire giusto conforme alla loro natura e alla
loro dignità. La legge naturale risponde così all’esigenza di fondare sulla
ragione i diritti dell’uomo (42) e rende possibile un dialogo interculturale e
interreligioso in grado di favorire la pace universale e di evitare lo «scontro
delle civiltà». In secondo luogo, dinanzi all’individualismo relativista, il
quale ritiene che ogni individuo sia la fonte dei propri valori e che la società
risulti da un puro contratto stipulato tra individui che scelgono di fissarne
essi stessi tutte le norme, ricorda il carattere non convenzionale ma naturale e
oggettivo delle norme fondamentali che regolano la vita sociale e politica. In
particolare, la forma democratica di governo è intrinsecamente legata a valori
etici stabili, che hanno la fonte nelle esigenze della legge naturale e quindi
non dipendono dalle fluttuazioni del consenso di una maggioranza aritmetica. In
terzo luogo, dinanzi a un laicismo aggressivo che vuole escludere i credenti dal
pubblico dibattito, la Chiesa fa notare che gli interventi dei cristiani nella
vita pubblica, su argomenti che riguardano la legge naturale (difesa dei diritti
degli oppressi, giustizia nelle relazioni internazionali, difesa della vita e
della famiglia, libertà religiosa e libertà di educazione...), non sono di per
sé di natura confessionale, ma derivano dalla cura che ogni cittadino deve avere
per il bene comune della società. In quarto luogo, dinanzi alle minacce di abuso
del potere, e anche di totalitarismo, che il positivismo giuridico nasconde e
che certe ideologie trasmettono, la Chiesa ricorda che le leggi civili non
obbligano in coscienza quando sono in contraddizione con la legge naturale, e
chiede il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, come pure il dovere della
disobbedienza in nome dell’obbedienza a una legge più alta (43). Il riferimento
alla legge naturale non solo non produce il conformismo, ma garantisce la
libertà personale e difende gli emarginati e gli oppressi da strutture sociali
dimentiche del bene comune.
Capitolo secondo:
la percezione dei valori morali
torna su
36. L’esame delle grandi tradizioni di sapienza morale condotto nel capitolo
primo mostra che alcuni tipi di comportamenti umani sono riconosciuti, nella
maggior parte delle culture, come espressione di una certa eccellenza nel modo
in cui l’essere umano vive e realizza la propria umanità: atti di coraggio,
pazienza nelle prove e nelle difficoltà della vita, compassione per i deboli,
moderazione nell’uso dei beni materiali, atteggiamento responsabile nei
confronti dell’ambiente, dedizione al bene comune... Tali comportamenti etici
definiscono le grandi linee di un ideale propriamente morale di una vita
«secondo natura», cioè conforme all’essere profondo del soggetto umano. D’altra
parte, alcuni comportamenti sono universalmente riconosciuti come oggetto di
riprovazione: uccisione, furto, menzogna, collera, cupidigia, avarizia… Questi
appaiono come attentati alla dignità della persona umana e alle giuste esigenze
della vita in società. Si è giustificati dunque nel vedere, attraverso tali
consensi, una manifestazione di ciò che, al di là delle diverse culture, è
l’umano nell’essere umano, cioè la «natura umana». Ma, al tempo stesso, si deve
constatare che tale accordo sulla qualità morale di alcuni comportamenti
coesiste con una grande varietà di teorie esplicative. Si tratti delle dottrine
fondamentali degli Upanishads per l’induismo, o delle quattro «nobili
verità» per il buddismo, o del Dào di Lao-Tse, o della «natura» degli stoici,
ogni sapienza o ogni sistema filosofico comprende l’agire morale all’interno di
un quadro esplicativo generale che intende legittimare la distinzione tra ciò
che è bene e ciò che è male. Abbiamo a che fare con una varietà di
giustificazioni che rende difficile il dialogo e la fondazione di norme morali.
37. Tuttavia, indipendentemente dalle giustificazioni teoriche del concetto di
legge naturale, è possibile scoprire i dati immediati della coscienza di cui
esso vuole rendere conto. L’oggetto di questo capitolo è precisamente mostrare
come si colgano i valori morali comuni che costituiscono la legge naturale.
Vedremo poi come il concetto di legge naturale si basi su un quadro esplicativo
che fonda e legittima i valori morali, in modo da poter essere condiviso da
molti. Per fare questo, appare particolarmente pertinente la presentazione della
legge naturale in san Tommaso d’Aquino, perché, fra l’altro, colloca la legge
naturale all’interno di una morale che sostiene la dignità della persona umana e
riconosce la sua capacità di discernimento (44).
2.1. Il ruolo della società e della cultura
38. La persona umana soltanto progressivamente accede all’esperienza morale e
diventa capace di dare a se stessa i precetti che devono guidare il suo agire.
Vi giunge nella misura in cui, fin dalla nascita, è stata inserita in una rete
di relazioni umane, a cominciare dalla famiglia, che le hanno consentito, a poco
a poco, di prendere coscienza di se stessa e del reale che la circonda. Ciò
avviene in particolare con l’apprendimento di una lingua — la lingua materna —
che insegna a nominare le cose e consente di diventare un soggetto consapevole
di sé. Orientata dalle persone che la circondano, impregnata dalla cultura in
cui è immersa, la persona riconosce certi modi di comportarsi e di pensare come
valori da perseguire, leggi da osservare, esempi da imitare, visioni del mondo
da accogliere. Il contesto sociale e culturale esercita dunque un ruolo decisivo
nell’educazioni ai valori morali. Tuttavia non si possono opporre tali
condizionamenti alla libertà umana. Questi piuttosto la rendono possibile,
perché attraverso di essi la persona può accedere all’esperienza morale, che
eventualmente le consentirà di rivedere alcune delle «evidenze» che aveva
interiorizzato nel corso del suo apprendistato morale. D’altra parte, nel
contesto della globalizzazione attuale, le società e le culture stesse devono
inevitabilmente praticare un dialogo e uno scambio sinceri, fondati sulla
corresponsabilità di tutti nei confronti del bene comune del pianeta: devono
lasciare da parte gli interessi particolari per accedere ai valori morali che
tutti sono chiamati a condividere.
2.2. L’esperienza morale: «Bisogna fare il bene»
39. Ogni essere umano che accede alla coscienza e alla responsabilità fa
l’esperienza di una chiamata interiore a compiere il bene. Scopre di essere
fondamentalmente un essere morale, capace di percepire e di esprimere il
richiamo che, come si è visto, si trova all’interno di tutte le culture:
«Bisogna fare il bene ed evitare il male». Su tale precetto si fondano tutti gli
altri precetti della legge naturale (45). Questo primo precetto è conosciuto
naturalmente, immediatamente, con la ragione pratica, così come il principio di
non contraddizione (l’intelligenza non può, simultaneamente e sotto il medesimo
aspetto, affermare e negare una cosa di un soggetto), che è alla base di ogni
ragionamento speculativo, è colto intuitivamente, naturalmente, con la ragione
teorica, quando il soggetto comprende il senso dei termini usati.
Tradizionalmente, tale conoscenza del principio primo della vita morale è
attribuita a una disposizione intellettuale innata che si chiama la sinderesi
(46).
40. Con questo principio, ci collochiamo immediatamente nell’ambito della
moralità. Il bene che così si impone alla persona è infatti il bene morale, cioè
un comportamento che, superando le categorie dell’utile, va nel senso della
realizzazione autentica di quell’essere, insieme uno e diversificato, che è la
persona umana. L’attività umana è irriducibile a una semplice questione di
adattamento all’«ecosistema»: essere umano significa esistere e collocarsi
all’interno di un quadro più ampio che definisce un senso, valori e
responsabilità. Ricercando il bene morale, la persona contribuisce alla
realizzazione della sua natura, al di là degli impulsi dell’istinto o della
ricerca di un piacere particolare. Questo bene rende testimonianza a se stesso
ed è compreso a partire da se stesso (47).
41. Il bene morale corrisponde al desiderio profondo della persona umana che —
come ogni essere — tende spontaneamente, naturalmente, verso ciò che la realizza
pienamente, verso ciò che le consente di raggiungere la perfezione che le è
propria, la felicità. Purtroppo il soggetto può sempre lasciarsi trascinare da
desideri particolari e scegliere beni o porre gesti che vanno contro il bene
morale che riconosce. Può rifiutare di superarsi. È il prezzo di una libertà
limitata in se stessa e indebolita dal peccato, una libertà che incontra
soltanto beni particolari, nessuno dei quali può soddisfare pienamente il cuore
dell’essere umano. Spetta alla ragione del soggetto esaminare se questi beni
particolari possono integrarsi nella realizzazione autentica della persona: in
tal caso saranno giudicati moralmente buoni e, in caso contrario, moralmente
cattivi.
42. Quest’ultima affermazione è capitale. Fonda la possibilità di un dialogo con
le persone appartenenti ad altri orizzonti culturali o religiosi. Valorizza
l’eminente dignità di ogni persona umana sottolineandone la naturale
disposizione a conoscere il bene morale che deve compiere. Come ogni creatura,
la persona umana si definisce con un fascio di dinamismi e di finalità che è
anteriore alle libere scelte della volontà. Ma, a differenza degli esseri che
non sono dotati di ragione, essa è capace di conoscere e di interiorizzare tali
finalità e, quindi, di valutare, in funzione di esse, ciò che per lei è buono o
cattivo. Così riconosce la legge eterna, cioè il piano di Dio sul creato, e
partecipa alla provvidenza di Dio in modo particolarmente eccellente, guidando
se stesso e guidando gli altri (48). Questa insistenza sulla dignità del
soggetto morale e sulla sua relativa autonomia si fonda sul riconoscimento
dell’autonomia delle realtà create e raggiunge un dato fondamentale della
cultura contemporanea (49).
43. L’obbligo morale che il soggetto riconosce non proviene dunque da una legge
che gli sarebbe esteriore (pura eteronomia), ma si afferma a partire da lui
stesso. Infatti, come indica la massima che abbiamo citato — «Bisogna fare il
bene ed evitare il male» —, il bene morale determinato dalla ragione «si impone»
al soggetto. Esso «deve» essere compiuto. Riveste un carattere di obbligazione e
di legge. Ma il termine «legge» qui non rinvia né alle leggi scientifiche, che
si limitano a descrivere le costanti di fatto del mondo fisico o sociale, né a
un imperativo imposto arbitrariamente dall’esterno al soggetto morale. La legge
designa qui un orientamento della ragione pratica che indica al soggetto morale
quale tipo di agire sia conforme al dinamismo innato e necessario del suo essere
che tende alla sua piena realizzazione. Questa legge è normativa in virtù di
un’esigenza interna allo spirito. Essa nasce dal cuore stesso del nostro essere
come un invito alla realizzazione e al superamento di sé. Non si tratta dunque
di sottomettersi alla legge di un altro, ma di accogliere la legge del proprio
essere.
2.3. La scoperta dei precetti della legge naturale: universalità della legge
naturale
44. Una volta posta l’affermazione di base che introduce nell’ordine morale —
«Bisogna fare il bene ed evitare il male» — vediamo come avviene nel soggetto il
riconoscimento delle leggi fondamentali che devono regolare l’agire umano. Tale
riconoscimento non consiste in una considerazione astratta della natura umana, e
neppure nello sforzo di concettualizzazione, che poi sarà proprio della
teorizzazione filosofica e teologica. La percezione dei beni morali fondamentali
è immediata, vitale, fondata sulla connaturalità dello spirito con i valori e
impegna sia l’affettività sia l’intelligenza, sia il cuore sia lo spirito. È
un’acquisizione spesso imperfetta, ancora oscura e crepuscolare, ma che ha la
profondità dell’immediatezza. Si tratta qui di dati dell’esperienza più semplice
e più comune, che sono impliciti nell’agire concreto delle persone.
45. Nella sua ricerca del bene morale, la persona umana si mette in ascolto di
ciò che essa è e prende coscienza delle inclinazioni fondamentali della sua
natura, le quali sono altra cosa che semplici spinte cieche del desiderio.
Avvertendo che i beni verso i quali tende per natura sono necessari alla sua
realizzazione morale, formula a se stessa, sotto la forma di comandi pratici, il
dovere morale di attuarli nella propria vita. Esprime a se stessa un certo
numero di precetti molto generali che condivide con tutti gli esseri umani e che
costituiscono il contenuto di quella che si chiama legge naturale.
46. Si distinguono tradizionalmente tre grandi insiemi di dinamismi naturali che
agiscono nella persona umana (50). Il primo, che le è comune con ogni essere
sostanziale, comprende essenzialmente l’inclinazione a conservare e a sviluppare
la propria esistenza. Il secondo, che le è comune con tutti i viventi, comprende
l’inclinazione a riprodursi per perpetuare la specie. Il terzo, che le è proprio
come essere razionale, comporta l’inclinazione a conoscere la verità su Dio e a
vivere in società. A partire da queste inclinazioni si possono formulare i
precetti primi della legge naturale, conosciuti naturalmente. Tali precetti sono
molto generali, ma formano come un primo substrato che è alla base di tutta la
riflessione ulteriore sul bene da praticare e sul male da evitare.
47. Per uscire da questa generalità e chiarire le scelte concrete da fare,
bisogna ricorrere alla ragione discorsiva, che determina quali sono i beni
morali concreti in grado di realizzare la persona — e l’umanità — e formula
precetti più concreti capaci di guidare il suo agire. In questa nuova tappa la
conoscenza del bene morale procede per ragionamento. Esso all’origine è molto
semplice: gli è sufficiente una limitata esperienza di vita e si mantiene
all’interno delle possibilità intellettuali di ciascuno. Si parla qui dei
«precetti secondi» della legge naturale, scoperti grazie a una più o meno lunga
considerazione della ragione pratica, per contrasto con i precetti generali
fondamentali che la ragione coglie spontaneamente e che sono chiamati «precetti
primi» (51).
2.4. I precetti della legge naturale
48. Abbiamo identificato nella persona umana una prima inclinazione, che essa
condivide con tutti gli esseri: l’inclinazione a conservare e a sviluppare la
propria esistenza. Nei viventi c’è abitualmente una reazione spontanea dinanzi a
una minaccia imminente di morte: si sfugge ad essa, si difende l’integrità della
propria esistenza, si lotta per sopravvivere. La vita fisica appare naturalmente
come un bene fondamentale, essenziale, primordiale: da qui il precetto di
proteggere la propria vita. Sotto l’enunciazione della conservazione della vita
si profilano inclinazioni verso tutto ciò che contribuisce, in modo proprio
all’uomo, al mantenimento e alla qualità della vita biologica: integrità del
corpo; uso dei beni esterni che assicurano la sussistenza e l’integrità della
vita, come il nutrimento, il vestito, l’alloggio, il lavoro; la qualità
dell’ambiente biologico... A partire da queste inclinazioni, l’essere umano si
propone fini da realizzare, che contribuiscono allo sviluppo armonioso e
responsabile del proprio essere e, quindi, gli appaiono come beni morali, valori
da perseguire, obblighi da compiere e anche diritti da far valere. Infatti il
dovere di preservare la propria vita ha come correlativo il diritto di esigere
ciò che è necessario alla sua conservazione in un ambiente favorevole (52).
49. La seconda inclinazione, che è comune a tutti i viventi, riguarda la
sopravvivenza della specie che si realizza con la procreazione. La generazione
si inscrive nel prolungamento della tendenza a perseverare nell’essere. Se la
perpetuità dell’esistenza biologica è impossibile all’individuo, è possibile per
la specie e così, in una certa misura, si supera il limite inerente a ogni
essere fisico. Il bene della specie appare così come una delle aspirazioni
fondamentali presenti nella persona. Ne prendiamo coscienza in particolare nel
nostro tempo, quando certe prospettive come il riscaldamento climatico ravvivano
il nostro senso di responsabilità dinanzi al pianeta come tale e alla specie
umana in particolare. Questa apertura a un certo bene comune della specie
annuncia già alcune aspirazioni proprie dell’uomo. Il dinamismo verso la
procreazione è intrinsecamente legato all’inclinazione naturale che conduce
l’uomo verso la donna e la donna verso l’uomo, dato universale riconosciuto in
tutte le società. Lo stesso avviene per l’inclinazione a prendersi cura dei
figli e a educarli. Tali inclinazioni implicano che la permanenza della coppia
dell’uomo e della donna e anche la loro fedeltà reciproca sono già valori da
perseguire, anche se potranno manifestarsi pienamente soltanto nell’ordine
spirituale della comunione interpersonale (53).
50. Il terzo insieme di inclinazioni è specifico dell’essere umano come essere
spirituale, dotato di ragione, capace di conoscere la verità, di entrare in
dialogo con gli altri e di stringere relazioni di amicizia. Perciò bisogna
riconoscergli una particolare importanza. L’inclinazione a vivere in società
deriva anzitutto dal fatto che l’essere umano ha bisogno degli altri per
superare i propri limiti individuali intrinseci e raggiungere la maturità nei
diversi ambiti della sua esistenza. Ma per manifestare pienamente la sua natura
spirituale, ha bisogno di stringere con i suoi simili relazioni di amicizia
generosa e di sviluppare un’intensa cooperazione per la ricerca della verità. Il
suo bene integrale è così intimamente legato alla vita in comunità, che si
organizza in società politica in forza di un’inclinazione naturale e non di una
semplice convenzione (54). Il carattere relazionale della persona si esprime
anche con la tendenza a vivere in comunione con Dio o l’Assoluto. Essa si
manifesta nel sentimento religioso e nel desiderio di conoscere Dio. Certamente,
può essere negata da coloro che rifiutano di ammettere l’esistenza di un Dio
personale, ma rimane implicitamente presente nella ricerca della verità e del
senso presente in ogni essere umano.
51. A queste tendenze specifiche dell’uomo corrisponde l’esigenza avvertita
dalla ragione di realizzare concretamente questa vita di relazione e di
costruire la vita in società su basi giuste che corrispondano al diritto
naturale. Ciò implica il riconoscimento della pari dignità di ogni individuo
della specie umana, al di là delle differenze di razza e di cultura, e un grande
rispetto per l’umanità dove essa si trova, anche nel più piccolo e nel più
disprezzato dei suoi membri. «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse
fatto a te». Ritroviamo qui la regola d’oro, che oggi è posta come principio
stesso di una morale della reciprocità. Il primo capitolo ci ha consentito di
trovare la presenza di questa regola nella maggior parte delle sapienze come
anche nel Vangelo stesso. San Girolamo manifestava l’universalità di parecchi
precetti morali riferendosi a una formulazione negativa della regola d’oro. «È
giusto il giudizio che Dio scrive nel cuore del genere umano: “Ciò che non vuoi
sia fatto a te, non farlo ad altri”. Chi non sa che l’omicidio, l’adulterio, i
furti e ogni tipo di cupidigia sono il male, poiché non vorremmo che ciò fosse
fatto a noi? Se non sapessimo che queste cose sono cattive, non ci lamenteremmo
mai quando ci sono inflitte» (55). Alla regola d’oro si collegano diversi
comandamenti del Decalogo, come pure molti precetti buddisti, e anche molte
delle regole confuciane, o ancora la maggior parte degli orientamenti delle
grandi Carte che indicano i diritti della persona.
52. Al termine di questa rapida esposizione dei princìpi morali che derivano
dalla presa in considerazione, da parte della ragione, delle inclinazioni
fondamentali della persona umana, siamo in presenza di un insieme di precetti e
di valori che, almeno nella loro formulazione generale, si possono considerare
come universali, poiché si applicano a tutta l’umanità. Essi inoltre rivestono
un carattere di immutabilità nella misura in cui derivano da una natura umana le
cui componenti essenziali rimangono identiche nel corso della storia. Tuttavia
può accadere che siano oscurate o anche cancellate dal cuore umano a motivo del
peccato e dei condizionamenti culturali e storici che possono influenzare
negativamente la vita morale personale: ideologie e propagande insidiose,
relativismo generalizzato, strutture di peccato (56)... Bisogna dunque essere
modesti e prudenti quando si invoca l’«evidenza» dei precetti della legge
naturale. Ma si deve ugualmente riconoscere in questi precetti il fondo comune
su cui si può basare un dialogo in vista di un’etica universale. I protagonisti
di questo dialogo però devono imparare a non considerare i propri interessi
particolari per aprirsi ai bisogni degli altri e lasciarsi interpellare dai
valori morali comuni. In una società pluralista, in cui è difficile intendersi
sui fondamenti filosofici, questo dialogo è assolutamente necessario. La
dottrina della legge naturale può portare il suo contributo a tale dialogo.
2.5. L’applicazione dei precetti comuni: storicità della legge naturale
53. È impossibile rimanere al livello generale che è quello dei princìpi primi
della legge naturale. Infatti la riflessione morale ha bisogno di calarsi nel
concreto dell’azione per gettarvi la sua luce. Ma quanto più affronta situazioni
concrete, tanto più le sue conclusioni sono caratterizzate da una nota di
variabilità e di incertezza. Non è strano quindi che l’applicazione concreta dei
precetti della legge naturale possa assumere forme differenti nelle diverse
culture, o anche in epoche diverse all’interno di una stessa cultura. È
sufficiente ricordare l’evoluzione della riflessione morale su questioni come la
schiavitù, il prestito a interesse, il duello o la pena di morte. A volte, tale
evoluzione conduce a una migliore comprensione della richiesta morale. A volta
anche, l’evoluzione della situazione politica o economica conduce a una nuova
valutazione di norme particolari che erano state stabilite precedentemente.
Infatti la morale si occupa di realtà contingenti che si evolvono nel tempo.
Benché sia vissuto in un’epoca di cristianità, un teologo come san Tommaso d’Aquino
ne aveva una percezione molto netta. «La ragione pratica — scriveva nella
Summa Theologiae — si occupa di realtà contingenti, nelle quali si attuano
le azioni umane. Perciò, benché nei princìpi generali ci sia qualche necessità,
quanto più si affrontano le cose particolari, tanto più c’è indeterminazione
[...]. Nell’ambito dell’azione la verità o la rettitudine pratica non sono le
stesse in tutti nelle applicazioni particolari, ma soltanto nei princìpi
generali; e in coloro per i quali la rettitudine è identica nelle proprie
azioni, essa non è conosciuta ugualmente da tutti. [...] E qui, quanto più si
scende nei particolari, tanto più aumenta l’indeterminazione» (57).
54. Tale prospettiva rende conto della storicità della legge naturale, le cui
applicazioni concrete possono variare nel tempo. Nello stesso tempo, apre una
porta alla riflessione dei moralisti, invitando al dialogo e alla discussione.
Questo è tanto più necessario, perché in morale la pura deduzione per sillogismo
non è adeguata. Quanto più il moralista affronta situazioni concrete, tanto più
deve ricorrere alla sapienza dell’esperienza, un’esperienza che integra i
contributi delle altre scienze e cresce al contatto con le donne e gli uomini
impegnati nell’azione. Soltanto questa saggezza dell’esperienza consente di
considerare la molteplicità delle circostanze e di giungere a un orientamento
sul modo di compiere ciò che è bene hic et nunc. Il moralista (questa è
la difficoltà del suo lavoro) deve ricorrere alle risorse combinate della
teologia, della filosofia, come pure delle scienze umane, economiche e
biologiche per riconoscere bene i dati della situazione e identificare
correttamente le esigenze concrete della dignità umana. Al tempo stesso, egli
dev’essere particolarmente attento a salvaguardare i dati di base espressi con i
precetti della legge naturale che rimangono al di là delle variazioni culturali.
2.6. Le disposizioni morali della persona e il suo agire concreto
55. Per giungere a una giusta valutazione delle cose da fare, il soggetto morale
dev’essere dotato di un certo numero di disposizioni interiori che gli
consentano di essere aperto alle richieste della legge naturale e insieme ben
informato sui dati della situazione concreta. Nel contesto del pluralismo, che è
il nostro, siamo sempre più consapevoli del fatto che non si può elaborare una
morale fondata sulla legge naturale senza unirvi una riflessione sulle
disposizioni interiori o virtù che rendono il moralista adatto a elaborare
un’adeguata norma di azione. Ciò è ancora più vero per il soggetto impegnato
personalmente nell’azione e che deve formulare un giudizio di coscienza. Perciò
non è strano che oggi si assista alla rinascita di una «morale delle virtù»
ispirata alla tradizione aristotelica. Insistendo così sulle qualità morali
richieste per una riflessione morale adeguata, si comprende il ruolo importante
che le diverse culture attribuiscono alla figura del saggio. Egli gode di una
particolare capacità di discernimento nella misura in cui possiede le
disposizioni morali interiori che gli consentono di formulare un giudizio etico
adeguato. Un discernimento di questo tipo deve caratterizzare il moralista
quando si sforza di concretizzare i precetti della legge naturale, come pure
ogni soggetto autonomo incaricato di fornire un giudizio di coscienza e di
formulare la norma immediata e concreta della sua azione.
56. La morale non può dunque limitarsi a produrre norme. Deve anche favorire la
formazione del soggetto, affinché questo, impegnato nell’azione, sia in grado di
adattare i precetti universali della legge naturale alle condizioni concrete
dell’esistenza nei diversi contesti culturali. Tale capacità è assicurata dalle
virtù morali, in particolare dalla prudenza che integra la singolarità per
guidare l’azione concreta. L’uomo prudente deve possedere non soltanto la
conoscenza dell’universale ma anche quella del particolare. Per indicare bene il
carattere proprio di questa virtù, san Tommaso d’Aquino non esita a dire: «Se
non ha che una sola delle due conoscenze, è preferibile che questa sia la
conoscenza delle realtà particolari che riguardano più da vicino l’operare» (
58). Con la prudenza si tratta di penetrare una contingenza che è sempre
misteriosa per la ragione, di modellarsi sulla realtà nel modo più esatto
possibile, di assimilare la molteplicità delle circostanze, di registrare il più
fedelmente possibile una situazione originale e indescrivibile. Un tale
obiettivo richiede diverse operazioni e abilità che la prudenza deve attuare.
57. Tuttavia l’individuo non deve perdersi nel concreto e nell’individuale, come
è stato rimproverato all’«etica della situazione». Deve scoprire la «retta
regola dell’agire» e stabilire un’adeguata norma di azione. Questa retta regola
deriva da princìpi preliminari. Si pensa qui ai princìpi primi della ragione
pratica, ma spetta anche alle virtù morali aprire e rendere connaturali la
volontà e l’affettività sensibile ai diversi beni umani, e così indicare
all’uomo prudente quali fini deve perseguire nel flusso del quotidiano. A questo
punto l’individuo sarà in grado di formulare la norma concreta che si impone e
di conferire all’azione data un raggio di giustizia, di forza o di temperanza.
Si può parlare qui dell’esercizio di una «intelligenza emozionale»: le potenze
razionali, senza perdere la loro specificità, si esercitano all’interno del
campo affettivo, così che la totalità della persona è impegnata nell’azione
morale.
58. La prudenza è indispensabile al soggetto morale a motivo della flessibilità
richiesta dall’adattamento dei princìpi morali universali alle diverse
situazioni. Ma tale flessibilità non autorizza a vedere nella prudenza una sorta
di facile compromesso nei confronti dei valori morali. Al contrario, proprio
attraverso le decisioni della prudenza si esprimono per un soggetto le esigenze
concrete della verità morale. La prudenza è un passaggio necessario per
l’obbligo morale autentico.
59. C’è qui una prospettiva che, all’interno di una società pluralista come la
nostra, riveste un’importanza che non si può sottostimare senza subirne notevoli
danni. Infatti essa nasce dal fatto che la scienza morale non può fornire al
soggetto agente una norma che si applichi adeguatamente e quasi automaticamente
alla situazione concreta; soltanto la coscienza del soggetto, il giudizio della
sua ragione pratica, può formulare la norma immediata dell’azione. Ma al tempo
stesso essa non abbandona mai la coscienza alla sola soggettività: si apre alla
verità morale in modo tale che il suo giudizio sia adeguato. La legge naturale
non può dunque essere presentata come un insieme già costituito di regole che si
impongono a priori al soggetto morale, ma è una fonte di ispirazione oggettiva
per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione.
Capitolo terzo:
i fondamenti teorici della legge naturale
torna su
3.1. Dall’esperienza alla teoria
60. L’acquisizione spontanea dei valori etici fondamentali, che si esprimono nei
precetti della legge naturale, costituisce il punto di partenza del processo che
conduce poi il soggetto morale fino al giudizio di coscienza, nel quale enuncia
quali sono le esigenze morali che gli si impongono nella sua situazione
concreta. È compito del teologo e del filosofo riprendere questa esperienza
dell’acquisizione dei princìpi primi dell’etica, per provarne il valore e
fondarla sulla ragione. Il riconoscimento di questi fondamenti filosofici o
teologici non condiziona però l’adesione spontanea ai valori comuni. Infatti il
soggetto morale può attuare praticamente gli orientamenti della legge naturale
senza essere capace, a motivo di particolari condizionamenti intellettuali, di
comprenderne esplicitamente i fondamenti teorici ultimi.
61. La giustificazione filosofica della legge naturale presenta due livelli di
coerenza e di profondità. L’idea di una legge naturale si giustifica anzitutto
sul piano dell’osservazione riflessa delle costanti antropologiche che
caratterizzano una umanizzazione riuscita della persona e una vita sociale
armoniosa. L’esperienza riflessa, veicolata dalle sapienze tradizionali, dalle
filosofie o dalle scienze umane, consente di determinare alcune delle condizioni
richieste perché ciascuno dimostri al meglio le proprie capacità umane nella sua
vita personale e comunitaria (59). Così si riconosce che certi comportamenti
esprimono un’esemplare eccellenza nel modo di vivere e di realizzare la propria
umanità. Essi definiscono le grandi linee di un ideale propriamente morale di
una vita virtuosa «secondo la natura», cioè in modo conforme alla natura
profonda del soggetto umano (60).
62. Tuttavia, soltanto l’assunzione della dimensione metafisica del reale può
dare alla legge naturale la sua piena e completa giustificazione filosofica.
Infatti la metafisica consente di comprendere che l’universo non ha in se stesso
la propria ragione ultima di essere e manifesta la struttura fondamentale del
reale: la distinzione tra Dio, l’Essere stesso sussistente, e gli altri esseri
posti da lui nell’esistenza. Dio è il Creatore, la fonte libera e trascendente
di tutti gli altri esseri. Questi ricevono da lui, «con misura, calcolo e peso»
(Sap 11,20), l’esistenza secondo una natura che li definisce. Le creature sono
dunque l’epifania di una sapienza creatrice personale, di un Logos fondatore che
si esprime e si manifesta in esse. «Ogni creatura è verbo divino, perché è
parola di Dio», scrive san Bonaventura (61).
63. Il Creatore non è soltanto il principio delle creature ma anche il fine
trascendente verso il quale esse tendono per natura. Così le creature sono
animate da un dinamismo che le porta a realizzarsi, ciascuna a modo suo,
nell’unione con Dio. Tale dinamismo è trascendente, nella misura in cui procede
dalla legge eterna, cioè dal piano di provvidenza divino che esiste nello
spirito del Creatore (62). Ma è anche immanente, perché non è imposto
dall’esterno alle creature, ma è inscritto nella loro stessa natura. Le creature
puramente materiali realizzano spontaneamente la legge del loro essere, mentre
le creature spirituali la realizzano in modo personale. Infatti interiorizzano i
dinamismi che le definiscono e li orientano liberamente verso la propria
completa realizzazione. Li formulano a se stesse come norme fondamentali del
loro agire morale — è la legge morale propriamente detta — e si sforzano di
realizzarli liberamente. La legge naturale si definisce perciò come una
partecipazione alla legge eterna (63). Essa è mediata, da una parte, dalle
inclinazioni della natura, espressioni della sapienza creatrice, e, d’altra
parte, dalla luce della ragione umana che le interpreta e che è essa stessa una
partecipazione creata alla luce dell’intelligenza divina. L’etica si presenta
così come una «teonomia partecipata» (64).
3.2. Natura, persona e libertà
64. La nozione di natura è particolarmente complessa e non è affatto univoca. In
filosofia, il pensiero greco della physis gioca un ruolo accertato. In
esso la natura designa il principio dell’identità ontologica specifica di un
soggetto, cioè la sua essenza che si definisce con un insieme di caratteristiche
intelligibili stabili. Tale essenza prende il nome di natura soprattutto quando
è intesa come il principio interno del movimento che orienta il soggetto verso
la sua realizzazione. La nozione di natura non rinvia a un dato statico, ma
significa il principio dinamico reale dello sviluppo del soggetto e delle sue
attività specifiche. La nozione di natura è stata formata anzitutto per pensare
le realtà materiali e sensibili, ma non si limita a tale ambito «fisico» e si
applica analogicamente alle realtà spirituali.
65. L’idea secondo la quale gli esseri possiedono una natura si impone allo
spirito quando esso vuole rendere ragione della finalità immanente agli esseri e
della regolarità che percepisce nei loro modi di agire e di reagire (65).
Considerare gli esseri come nature significa riconoscere loro una consistenza
propria e affermare che sono centri relativamente autonomi nell’ordine
dell’essere e dell’agire, e non semplici illusioni o costruzioni temporanee
della coscienza. Queste «nature» non sono però unità ontologiche chiuse in se
stesse e semplicemente giustapposte le une alle altre. Esse agiscono le une
sulle altre, intrattenendo fra loro complessi rapporti di causalità. Nell’ordine
spirituale, le persone intrecciano relazioni intersoggettive. Le nature formano
dunque una rete e, in ultima analisi, un ordine, cioè una serie unificata dal
riferimento a un principio (66).
66. Con il cristianesimo, la physis degli antichi è ripensata e integrata in una
visione più ampia e più profonda della realtà. Da una parte, il Dio della
rivelazione cristiana non è una semplice componente dell’universo, un elemento
del grande Tutto della natura. Al contrario, è il Creatore, trascendente e
libero, dell’universo. Infatti l’universo finito non può fondare se stesso, ma
punta verso il mistero di un Dio infinito, che per amore lo ha creato ex nihilo
e dimora libero di intervenire nel corso della natura ogni volta che vuole.
D’altra parte, il mistero trascendente di Dio si riflette nel mistero della
persona umana come immagine di Dio. La persona umana è capace di conoscenza e di
amore; è dotata di libertà, è capace di entrare in comunione con altri ed è
chiamata da Dio a un destino che trascende le finalità della natura fisica. Essa
si compie in una libera e gratuita relazione di amore con Dio che si realizza in
una storia.
67. Con la sua insistenza sulla libertà come condizione della risposta dell’uomo
all’iniziativa dell’amore di Dio, il cristianesimo ha contribuito in modo
determinante a dare il posto dovuto alla nozione di persona nel discorso
filosofico, così da avere un’influenza decisiva sulle dottrine etiche. Inoltre,
l’esplorazione teologica del mistero cristiano ha condotto a un approfondimento
molto significativo del tema filosofico della persona. Da una parte, la nozione
di persona serve a designare nella loro distinzione il Padre, il Figlio e lo
Spirito Santo nel mistero infinito dell’unica natura divina. D’altra parte, la
persona è il punto in cui, nel rispetto della distinzione e della distanza tra
le due nature, divina e umana, si stabilisce l’unità ontologica dell’Uomo-Dio,
Gesù Cristo. Nella tradizione teologica cristiana, la persona presenta due
aspetti complementari. Da una parte, secondo la definizione di Boezio, ripresa
dalla teologia scolastica, la persona è una «sostanza (sussistente) individuale
di natura razionale» (67). Essa rinvia all’unicità di un soggetto ontologico
che, essendo di natura spirituale, gode di una dignità e di un’autonomia che si
manifesta nella coscienza di sé e nella libera padronanza del proprio agire.
D’altra parte, la persona si manifesta nella sua capacità di entrare in
relazione: essa esercita la sua azione nell’ordine dell’intersoggettività e
della comunione nell’amore.
68. La persona non si oppone alla natura. Al contrario, natura e persona sono
due nozioni che si completano. Da una parte, ogni persona umana è una
realizzazione unica della natura umana intesa in senso metafisico. D’altra
parte, la persona umana, nelle libere scelte con cui risponde nel concreto del
suo «qui e ora» alla propria vocazione unica e trascendente, assume gli
orientamenti dati dalla sua natura. Infatti la natura pone le condizioni di
esercizio della libertà e indica un orientamento per le scelte che la persona
deve compiere. Scrutando l’intelligibilità della sua natura, la persona scopre
così le vie della propria realizzazione.
3.3. La natura, l’uomo e Dio: dall’armonia al conflitto
69. Il concetto di legge naturale suppone l’idea che la natura sia per l’uomo
portatrice di un messaggio etico e costituisca una norma morale implicita che la
ragione umana attualizza. La visione del mondo, all’interno della quale la
dottrina della legge naturale si è sviluppata e trova ancora oggi il suo senso,
implica perciò la convinzione ragionata che esiste un’armonia fra le tre
sostanze che sono Dio, l’uomo e la natura. In tale prospettiva, il mondo è
percepito come un tutto intelligibile, unificato dal comune riferimento degli
esseri che lo compongono a un principio divino fondatore, a un Logos. Al di là
del Logos impersonale e immanente scoperto dallo stoicismo e presupposto dalle
scienze moderne della natura, il cristianesimo afferma che c’è il Logos
personale, trascendente e creatore. «Non sono gli elementi del cosmo, le leggi
della materia che, in definitiva, governano il mondo e l’uomo, ma un Dio
personale governa le stelle, cioè l’universo; non le leggi della materia e
dell’evoluzione sono l’ultima istanza, ma la ragione, la volontà, l’amore – una
Persona» (68). Il Logos divino personale — Sapienza e Parola di Dio — è non
soltanto l’Origine e il Modello intelligibile trascendente dell’universo, ma
anche colui che lo mantiene in una unità armoniosa e lo conduce verso il suo
fine (69). Con il dinamismo che il Verbo creatore ha inscritto nell’intimo degli
esseri, egli li orienta verso la loro piena realizzazione. Questo orientamento
dinamico non è altro che il governo divino, che attua nel tempo il piano della
provvidenza, cioè della legge eterna.
70. Ogni creatura partecipa a modo suo al Logos. L’uomo, poiché si definisce con
la ragione o logos, vi partecipa in modo eminente. Infatti, con la ragione, è in
grado di interiorizzare liberamente le intenzioni divine manifestate nella
natura delle cose. Egli le formula per sé sotto la forma di una legge morale che
ispira e orienta la propria azione. In tale prospettiva, l’uomo non è «l’altro»
della natura. Al contrario, stabilisce con il cosmo un vincolo di familiarità
fondato su una comune partecipazione al Logos divino.
71. Per diversi motivi storici e culturali, che si ricollegano in particolare
all’evoluzione delle idee durante il tardo Medioevo, tale visione del mondo ha
perduto la sua preminenza culturale. La natura delle cose non è più legge per
l’uomo moderno e non è più un riferimento per l’etica. Sul piano metafisico, la
sostituzione dei pensieri dell’univocità dell’essere ai pensieri dell’analogia
dell’essere e poi il nominalismo hanno minato i fondamenti della dottrina della
creazione come partecipazione al Logos che rendeva ragione di una certa unità
fra l’uomo e la natura. L’universo nominalista di Guglielmo d’Ockham si riduce
così a una giustapposizione di realtà individuali senza profondità, poiché ogni
universo reale, cioè ogni principio di comunione tra gli esseri, è denunciato
come un’illusione linguistica. Sul piano antropologico, gli sviluppi del
volontarismo e la correlativa esaltazione della soggettività, definita come la
libertà di indifferenza di fronte a ogni inclinazione naturale, hanno scavato un
fossato tra il soggetto umano e la natura. Ormai, alcuni ritengono che la
libertà umana sia essenzialmente il ritenere che non conta nulla ciò che l’uomo
è per natura. Il soggetto dovrebbe perciò rifiutare qualunque significato a ciò
che non ha scelto personalmente e decidere da sé che cos’è essere uomo. L’uomo
dunque ha sempre più compreso se stesso come un «animale denaturato», un essere
antinaturale che tanto più si afferma quanto più si oppone alla natura. La
cultura, propria dell’uomo, è allora definita non come una umanizzazione o una
trasfigurazione della natura con lo spirito, ma come una negazione pura e
semplice della natura. Il principale risultato di tali evoluzioni è stata la
scissione del reale in tre sfere separate, anzi opposte: la natura, la
soggettività umana e Dio.
72. Con l’eclissi della metafisica dell’essere, la sola capace di fondare sulla
ragione l’unità differenziata dello spirito e della realtà materiale, e con la
crescita del volontarismo, il regno dello spirito è stato radicalmente opposto
al regno della natura. La natura non è più considerata come un’epifania del
Logos, ma come «l’altra» dello spirito. È ridotta all’ambito della corporeità e
della stretta necessità, e di una corporeità senza profondità, perché il mondo
dei corpi è identificato con l’estensione, certamente regolata da leggi
matematiche intelligibili, ma priva di qualunque teleologia o finalità
immanente. La fisica cartesiana e poi la fisica newtoniana hanno diffuso
l’immagine di una materia inerte, che obbedisce passivamente alle leggi del
determinismo universale che lo Spirito divino le impone e che la ragione umana
può conoscere e padroneggiare perfettamente (70). Soltanto l’uomo può infondere
un senso e un progetto in questa massa amorfa e insignificante che egli manipola
con la tecnica per i propri fini. La natura cessa di essere padrona della vita e
della sapienza, per diventare il luogo in cui si afferma la potenza prometeica
dell’uomo. Questa visione sembra dare valore alla libertà umana, ma di fatto,
opponendo libertà e natura, priva la libertà umana di qualunque norma oggettiva
per la sua condotta. Essa conduce all’idea di una creazione umana del tutto
arbitraria, anzi al puro e semplice nichilismo.
73. In tale contesto, in cui la natura non nasconde più alcuna razionalità
teleologica immanente e sembra aver perduto ogni affinità o parentela con il
mondo dello spirito, il passaggio dalla conoscenza delle strutture dell’essere
al dovere morale che ne sembra derivare diventa effettivamente impossibile e
cade sotto la critica del «sofismo o paralogismo naturalista (naturalistic
fallacy)», denunciato da David Hume e poi da George Edward Moore nei suoi
Principia Ethica (1903). Infatti il bene è diviso dall’essere e dal vero.
L’etica è separata dalla metafisica.
74. L’evoluzione della comprensione del rapporto dell’uomo con la natura si
traduce pure nella rinascita di un dualismo antropologico radicale che oppone lo
spirito e il corpo, poiché il corpo è in qualche modo la «natura» in ciascuno di
noi (71). Tale dualismo si manifesta nel rifiuto di riconoscere qualunque
significato umano ed etico alle inclinazioni naturali che precedono le scelte
della ragione individuale. Il corpo, realtà giudicata estranea alla
soggettività, diventa un puro «avere», un oggetto manipolato dalla tecnica in
funzione degli interessi della soggettività individuale (72).
75. Inoltre, per l’emergere di una concezione metafisica in cui l’azione umana e
l’azione divina entrano in concorrenza, perché sono intese in modo univoco e
poste, a torto, sullo stesso piano, l’affermazione, legittima, dell’autonomia
del soggetto umano implica che Dio sia escluso dalla sfera della soggettività
umana. Ogni riferimento a una normativa proveniente da Dio o dalla natura come
espressione della sapienza di Dio, cioè ogni «eteronomia», è percepita come una
minaccia per l’autonomia del soggetto. La nozione di legge naturale appare
allora incompatibile con l’autentica dignità del soggetto.
3.4. Vie verso una riconciliazione
76. Per rendere tutto il suo senso e tutta la sua forza alla nozione di legge
naturale come fondamento di un’etica universale, bisogna rivolgere uno sguardo
di sapienza, di ordine propriamente metafisico, capace di abbracciare
simultaneamente Dio, il cosmo e la persona umana per riconciliarli nell’unità
analogica dell’essere, grazie all’idea di creazione come partecipazione.
77. È anzitutto essenziale sviluppare un’idea non concorrenziale
dell’articolazione tra la causalità divina e la libera attività del soggetto
umano. Il soggetto umano realizza se stesso inserendosi liberamente nell’azione
provvidenziale di Dio, e non opponendosi ad essa. Deve scoprire con la ragione e
poi assumere e condurre liberamente a realizzazione i dinamismi profondi che ne
definiscono la natura. Infatti la natura umana si definisce con tutto un insieme
di dinamismi, di tendenze, di orientamenti all’interno dei quali nasce la
libertà. Infatti la libertà suppone che la volontà umana sia «messa sotto
tensione» dal desiderio naturale del bene e del fine ultimo. Il libero arbitrio
si esercita allora nella scelta degli oggetti finiti che consentono di
raggiungere tale fine. Nel rapporto con questi beni, i quali esercitano
un’attrattiva che non è determinante, la persona conserva la padronanza della
propria scelta a motivo della sua apertura innata al Bene assoluto. La libertà
non è dunque un assoluto auto-creatore di se stesso, ma una proprietà eminente
di ogni soggetto umano.
78. Una filosofia della natura che prenda atto della profondità intelligibile
del mondo sensibile e, soprattutto, una metafisica della creazione consentono
poi di superare la tentazione dualista e gnostica di abbandonare la natura
all’insignificanza morale. Da tale punto di vista, bisogna superare lo sguardo
riduttivo che la cultura tecnica dominante conduce a rivolgere sulla natura, per
riscoprire il messaggio morale di cui essa è portatrice come opera del Logos.
79. Tuttavia la riabilitazione della natura e della corporeità in etica non può
equivalere a un qualunque «fisicismo». Infatti alcune presentazioni moderne
della legge naturale hanno gravemente negato la necessaria integrazione delle
inclinazioni naturali nell’unità della persona. Trascurando di considerare
l’unità della persona umana, esse assolutizzano le inclinazioni naturali delle
diverse «parti» della natura umana, accostandole senza gerarchizzarle e
tralasciando di integrarle nell’unità del progetto globale del soggetto. Ora,
spiega Giovanni Paolo II, «le inclinazioni naturali non acquistano una qualità
morale, se non in quanto si rapportano alla persona umana e alla sua
realizzazione autentica» (73). Oggi dunque bisogna tenere presenti insieme due
verità. Da una parte, il soggetto umano non è una unione o una giustapposizione
di inclinazioni naturali diverse e autonome, ma un tutto sostanziale e personale
chiamato a rispondere all’amore di Dio e ad unificarsi mediante un orientamento
riconosciuto verso un fine ultimo, che gerarchizza i beni parziali manifestati
dalle diverse tendenze naturali. Tale unificazione delle tendenze naturali in
funzione dei fini superiori dello spirito, cioè tale umanizzazione dei dinamismi
inscritti nella natura umana, non costituisce affatto una violenza che sarebbe
loro fatta. Al contrario, è la realizzazione di una promessa già inscritta in
essi (74). Ad esempio, l’alto valore spirituale che si manifesta nel dono di sé
nel reciproco amore degli sposi è già inscritto nella natura stessa del corpo
sessuato, che trova in questa realizzazione spirituale la sua ultima ragione di
essere. D’altra parte, in questo tutto organico, ogni parte conserva un
significato proprio e irriducibile, di cui la ragione deve tener conto
nell’elaborazione del progetto globale della persona. La dottrina della legge
morale naturale deve dunque affermare il ruolo centrale della ragione
nell’attuazione di un progetto di vita propriamente umano, e insieme la
consistenza e il significato proprio dei dinamismi naturali pre-razionali (75).
80. Il significato morale dei dinamismi naturali pre-razionali appare in piena
luce nell’insegnamento sui peccati contro natura. Certamente, ogni peccato è
contro natura in quanto si oppone alla retta ragione e ostacola lo sviluppo
autentico della persona umana. Tuttavia alcuni comportamenti sono giudicati in
modo speciale peccati contro natura nella misura in cui contraddicono più
direttamente il senso oggettivo dei dinamismi naturali che la persona deve
assumere nell’unità della sua vita morale (76). Così il suicidio deliberato e
voluto va contro l’inclinazione naturale a conservare e a far fruttificare la
propria esistenza. Così alcune pratiche sessuali si oppongono direttamente alle
finalità inscritte nel corpo sessuato dell’uomo. Perciò contraddicono anche i
valori interpersonali che devono promuovere una vita sessuale responsabile e
pienamente umana.
81. Il rischio di assolutizzare la natura, ridotta a pura componente fisica o
biologica, e di trascurare la propria vocazione intrinseca ad essere integrato
in un progetto spirituale minaccia oggi alcune tendenze radicali del movimento
ecologico. Lo sfruttamento irresponsabile della natura da parte degli agenti
umani che cercano soltanto il profitto economico e i pericoli che essa fa pesare
sulla biosfera interpellano giustamente le coscienze. Tuttavia, l’«ecologia
profonda (deep ecology)» costituisce una reazione eccessiva. Essa
sostiene una supposta uguaglianza delle specie viventi, senza più riconoscere
alcun ruolo particolare all’essere umano, e ciò, paradossalmente, indebolisce la
responsabilità dell’uomo nei confronti della biosfera di cui fa parte. In modo
ancor più radicale, alcuni sono giunti a considerare l’essere umano come un
virus distruttore che insidierebbe l’integrità della natura, e gli rifiutano
ogni significato e ogni valore nella biosfera. Si giunge allora a una sorta di
totalitarismo che esclude l’esistenza umana nella sua specificità e condanna il
legittimo progresso umano.
82. Non ci può essere una risposta adeguata agli interrogativi complessi
dell’ecologia, se non nel quadro di una comprensione più profonda della legge
naturale, che dia valore al legame tra la persona umana, la società, la cultura
e l’equilibrio della sfera bio-fisica nella quale si incarna la persona umana.
Un’ecologia integrale deve promuovere ciò che è specificamente umano,
valorizzando insieme il mondo della natura nella sua integrità fisica e
biologica. Infatti, anche se l’uomo, come essere morale che cerca la verità e i
beni ultimi, trascende il proprio ambiente immediato, lo fa accettando la
missione speciale di vegliare sul mondo naturale e di vivere in armonia con
esso, di difendere i valori vitali senza i quali non possono mantenersi né la
vita umana né la biosfera di questo pianeta (77). Tale ecologia integrale
interpella ogni essere umano e ogni comunità in vista di una nuova
responsabilità. Essa è inseparabile da un orientamento globale rispettoso delle
esigenze della legge naturale.
Capitolo quarto:
la legge naturale e la città
torna su
4.1. La persona e il bene comune
83. Affrontando l’ordine politico della società, entriamo nello spazio regolato
dal diritto. Infatti il diritto appare quando più persone entrano in relazione.
Il passaggio dalla persona alla società illumina la distinzione essenziale tra
legge naturale e diritto naturale.
84. La persona è al centro dell’ordine politico e sociale perché è un fine e non
un mezzo. La persona è un essere sociale per natura, non per scelta o in virtù
di una pura convenzione contrattuale. Per realizzarsi in quanto persona ha
bisogno dell’intreccio di relazioni che stabilisce con altre persone. Si trova
così al centro di una rete formata da cerchi concentrici: la famiglia,
l’ambiente in cui vive e il lavoro, la comunità di vicinato, la nazione e infine
l’umanità (78). La persona attinge da ciascuno di questi cerchi gli elementi
necessari alla propria crescita, e al tempo stesso contribuisce al loro
perfezionamento.
85. Poiché gli esseri umani hanno la vocazione a vivere in società con altri,
hanno in comune un insieme di beni da perseguire e di valori da difendere. È ciò
che si chiama il «bene comune». Se la persona è un fine in se stessa, la società
ha il fine di promuovere, consolidare e sviluppare il suo bene comune. La
ricerca del bene comune consente alla città di mobilitare le energie di tutti i
suoi membri. A un primo livello, il bene comune si può intendere come l’insieme
delle condizioni che consentono alla persona di essere sempre più persona umana
(79). Pur articolandosi nei suoi aspetti esteriori — economia, sicurezza,
giustizia sociale, educazione, accesso al lavoro, ricerca spirituale e altri —,
il bene comune è sempre un bene umano (80). A un secondo livello, il bene comune
è ciò che finalizza l’ordine politico e la stessa città. Bene di tutti e di
ciascuno in particolare, esso esprime la dimensione comunitaria del bene umano.
Le società possono definirsi per il tipo di bene comune che intendono
promuovere. Infatti se si tratta di esigenze essenziali al bene comune di ogni
società, la visione del bene comune si evolve con le stesse società, in funzione
delle concezioni della persona, della giustizia e del ruolo del potere pubblico.
4.2. La legge naturale, misura dell’ordine politico
86. La società organizzata in vista del bene comune dei suoi membri risponde a
un’esigenza della natura sociale della persona. La legge naturale appare allora
come l’orizzonte normativo nel quale l’ordine politico è chiamato a muoversi.
Essa definisce l’insieme dei valori che appaiono come umanizzanti per una
società. Quando ci si colloca nell’ambito sociale e politico, i valori non
possono essere più di natura privata, ideologica o confessionale, ma riguardano
tutti i cittadini. Essi esprimono non un vago consenso tra loro, ma si fondano
sulle esigenze della loro comune umanità. Affinché la società adempia
correttamente la propria missione di servizio della persona, deve promuovere la
realizzazione delle sue inclinazioni naturali. La persona è dunque anteriore
alla società, e la società è umanizzante soltanto se risponde alle attese
inscritte nella persona in quanto essere sociale.
87. Tale ordine naturale della società al servizio della persona è connotato,
secondo la dottrina sociale della Chiesa, da quattro valori che derivano dalle
inclinazioni naturali dell’essere umano e che disegnano i contorni del bene
comune che la società deve perseguire, cioè: la libertà, la verità, la giustizia
e la solidarietà (81). Questi quattro valori corrispondono alle esigenze di un
ordine etico conforme alla legge naturale. Se una di queste viene a mancare, la
città tende verso l’anarchia o il regno del più forte. La libertà è la prima
condizione di un ordine politico umanamente accettabile. Senza la libertà di
seguire la propria coscienza, di esprimere le proprie opinioni e di perseguire i
propri progetti, non c’è una città umana, anche se la ricerca dei beni privati
deve sempre articolarsi alla promozione del bene comune della città. Senza la
ricerca e il rispetto della verità, non c’è società ma la dittatura del più
forte. La verità, che non è proprietà di nessuno, è in grado di far convergere
gli esseri umani verso obiettivi comuni. Se la verità non si impone da sé, il
più abile impone la «sua» verità. Senza giustizia non c’è società, ma il regno
della violenza. La giustizia è il bene più alto che la città possa procurare.
Essa suppone che si ricerchi sempre ciò che è giusto, e che il diritto sia
applicato con l’attenzione al caso particolare, poiché l’equità è il massimo
della giustizia. Infine, è necessario che la società sia regolata in modo
solidale, assicurando il reciproco aiuto e la responsabilità per la sorte degli
altri e facendo in modo che i beni di cui la società dispone possano rispondere
ai bisogni di tutti.
4.3. Dalla legge naturale al diritto naturale
88. La legge naturale (lex naturalis) si esprime come diritto naturale (ius
naturale) quando si considerano le relazioni di giustizia tra gli esseri
umani: relazioni tra le persone fisiche e morali, tra le persone e il potere
pubblico, relazioni di tutti con la legge positiva. Si passa dalla categoria
antropologica della legge naturale alla categoria giuridica e politica
dell’organizzazione della città. Il diritto naturale è la misura inerente
all’accordo tra i membri della società. È la regola e la misura immanente dei
rapporti umani interpersonali e sociali.
89. Il diritto non è arbitrario: l’esigenza di giustizia, che deriva dalla legge
naturale, è anteriore alla formulazione e alla emanazione del diritto. Non è il
diritto che decide che cosa sia giusto. Neppure la politica è arbitraria: le
norme della giustizia non risultano soltanto da un contratto stabilito tra gli
uomini, ma provengono anzitutto dalla natura stessa degli esseri umani. Il
diritto naturale è l’ancoraggio delle leggi umane alla legge naturale. È
l’orizzonte in funzione del quale il legislatore umano deve regolarsi quando
emana norme nella sua missione di servizio al bene comune. In tal senso, egli
onora la legge naturale, inerente all’umanità dell’uomo. Al contrario, quando il
diritto naturale è negato, la sola volontà del legislatore fa la legge. Allora
il legislatore non è più l’interprete di ciò che è giusto e buono, ma si
attribuisce la prerogativa di essere il criterio ultimo del giusto.
90. Il diritto naturale non è mai una misura fissata una volta per tutte. È il
risultato di una valutazione delle situazioni mutevoli in cui vivono gli uomini.
Enuncia il giudizio della ragione pratica che stima ciò che è giusto. Il diritto
naturale, espressione giuridica della legge naturale nell’ordine politico,
appare così come la misura delle giuste relazioni tra i membri della comunità.
4.4. Diritto naturale e diritto positivo
91. Il diritto positivo deve sforzarsi di attuare le esigenze del diritto
naturale. Lo fa sia in forma di conclusione (il diritto naturale vieta
l’omicidio, il diritto positivo proibisce l’aborto), sia in forma di
determinazione (il diritto naturale prescrive di punire i colpevoli, il diritto
penale positivo determina le pene da applicare per ogni categoria di delitti)
82. In quanto derivino veramente dal diritto naturale e quindi dalla legge
eterna, le leggi umane positive obbligano in coscienza. Nel caso contrario non
obbligano. «Se la legge non è giusta, non è neppure una legge» (83). Le leggi
positive possono, anzi devono, cambiare per rimanere fedeli alla propria
vocazione. Infatti, da una parte, esiste un progresso della ragione umana che, a
poco a poco, prende meglio coscienza di ciò che è più adatto al bene della
comunità e, d’altra parte, le condizioni storiche della vita delle società si
modificano (in bene o in male) e le leggi vi si devono adattare (84). Così il
legislatore deve determinare ciò che è giusto nel concreto delle situazioni
storiche (85).
92. I diritti naturali sono misure dei rapporti umani anteriori alla volontà del
legislatore. Essi sono dati poiché gli uomini vivono in società. Il diritto
naturale è ciò che è naturalmente giusto prima di ogni formulazione legale. Si
esprime in particolare nei diritti soggettivi della persona, come il diritto al
rispetto della propria vita, all’integrità della persona, alla libertà
religiosa, alla libertà di pensiero, il diritto di fondare una famiglia e di
educare i figli secondo le proprie convinzioni, il diritto di associarsi con
altri, di partecipare alla vita della collettività... Questi diritti, ai quali
il pensiero contemporaneo attribuisce grande importanza, hanno la loro fonte,
non nei desideri fluttuanti degli individui, ma nella struttura stessa degli
esseri umani e delle loro relazioni umanizzanti. I diritti della persona umana
emergono dunque dal giusto ordine che deve regnare nelle relazioni tra gli
uomini. Riconoscere questi diritti naturali dell’uomo significa riconoscere
l’ordine oggettivo delle relazioni umane fondate sulla legge naturale.
4.5. L’ordine politico non è l’ordine escatologico
93. Nella storia delle società umane, spesso l’ordine politico è stato inteso
come il riflesso di un ordine trascendente e divino. Così gli antichi cosmologi
fondavano e giustificavano teologie politiche nelle quali il sovrano assicurava
il legame tra il cosmo e l’universo umano. Si trattava di far entrare l’universo
degli uomini nell’armonia prestabilita del mondo. Con l’apparizione del
monoteismo biblico, l’universo è inteso come obbediente alle leggi che il
Creatore gli ha dato. L’ordine della città è raggiunto quando sono rispettate le
leggi di Dio, del resto inscritte nei cuori. A lungo, forme di teocrazia hanno
potuto prevalere in società che si organizzavano secondo princìpi e valori
tratti dai loro libri santi. Non c’era distinzione tra la sfera della
rivelazione religiosa e la sfera dell’organizzazione della città. Ma la Bibbia
ha desacralizzato il potere umano, anche se diversi secoli di osmosi teocratica,
pure in ambiente cristiano, hanno oscurato la distinzione essenziale tra ordine
politico e ordine religioso. In proposito, bisogna distinguere bene la
situazione della prima alleanza, in cui la legge divina data da Dio era anche la
legge del popolo d’Israele, e quella della nuova alleanza, che introduce la
distinzione e la relativa autonomia degli ordini religioso e politico.
94. La rivelazione biblica invita l’umanità a considerare che l’ordine della
creazione è un ordine universale a cui partecipa tutta l’umanità, e che tale
ordine è accessibile alla ragione. Quando parliamo di legge naturale, si tratta
di tale ordine voluto da Dio e compreso dalla natura umana. La Bibbia pone la
distinzione fra tale ordine della creazione e l’ordine della grazia, alla quale
dà accesso la fede in Cristo. Ora, l’ordine della città non è questo ordine
definitivo ed escatologico. L’ambito della politica non è quello della città
celeste, dono gratuito di Dio. Esso deriva dall’ordine imperfetto e transitorio
in cui vivono gli uomini, pur avanzando verso la loro realizzazione nell’aldilà
della storia. Secondo sant’Agostino, il proprio della città terrestre è di
essere mescolato: vi si affiancano i giusti e gli ingiusti, i credenti e i non
credenti (86). Devono temporaneamente vivere insieme secondo le esigenze della
loro natura e le capacità della loro ragione.
95. Lo Stato non può dunque erigersi a possessore del senso ultimo. Non può
imporre né una ideologia globale, né una religione (anche secolare), né un
pensiero unico. L’ambito del senso ultimo, nella società civile, è assunto dalle
organizzazioni religiose, dalle filosofie e dalle spiritualità; esse devono
contribuire al bene comune, rafforzare il vincolo sociale e promuovere i valori
universali che fondano lo stesso ordine politico. Questo non ha il compito di
trasportare sulla terra il regno di Dio che verrà. Lo può anticipare con i suoi
progressi nell’ambito della giustizia, della solidarietà e della pace. Non può
volerlo instaurare con la costrizione.
4.6. L’ordine politico è un ordine temporale e razionale
96. Se l’ordine politico non è l’ambito della verità ultima, deve però essere
aperto alla continua ricerca di Dio, della verità e della giustizia. La
«legittima e sana laicità dello Stato» (87) consiste nella distinzione tra
l’ordine soprannaturale della fede teologale e l’ordine politico. Quest’ultimo
non si può mai confondere con l’ordine della grazia a cui gli uomini sono
chiamati a aderire liberamente. È legato piuttosto all’etica umana universale
inscritta nella natura umana. La città deve così procurare alle persone che la
compongono ciò che è necessario alla piena realizzazione della loro vita umana,
e ciò include alcuni valori spirituali e religiosi, come la libertà per i
cittadini di decidere nei confronti dell’Assoluto e dei beni supremi. Ma la
città, il cui bene comune è di natura temporale, non può procurare i beni
soprannaturali, che sono di un altro ordine.
97. Se Dio e ogni trascendenza dovessero essere esclusi dall’orizzonte della
politica, non resterebbe che il potere dell’uomo sull’uomo. Infatti l’ordine
politico si è spesso presentato come l’ultimo orizzonte di senso per l’umanità.
Le ideologie e i regimi totalitari hanno dimostrato che tale ordine politico,
senza un orizzonte di trascendenza, non è umanamente accettabile. Questa
trascendenza è legata a quella che noi chiamiamo legge naturale.
98. Le osmosi politico-religiose del passato, come le esperienze totalitarie del
XX secolo, hanno condotto, grazie a una sana reazione, a rivalutare oggi il
ruolo della ragione in politica, conferendo così una nuova pertinenza ai
discorsi aristotelico-tomistici sulla legge naturale. La politica, cioè
l’organizzazione della città e l’elaborazione dei suoi progetti collettivi,
deriva dall’ordine naturale e deve attuare un dibattito razionale aperto alla
trascendenza.
99. La legge naturale che è la base dell’ordine sociale e politico esige
un’adesione non di fede ma di ragione. Certamente, la stessa ragione è spesso
oscurata dalle passioni, da interessi contraddittori, da pregiudizi. Ma il
costante riferimento alla legge naturale spinge a una continua purificazione
della ragione. Soltanto così l’ordine politico evita l’insidia dell’arbitrario,
degli interessi particolari, della menzogna organizzata, della manipolazione
degli spiriti. Il riferimento alla legge naturale trattiene lo Stato dal cedere
alla tentazione di assorbire la società civile e di sottomettere gli uomini a
una ideologia. Gli evita pure di diventare uno Stato provvidenza che privi le
persone e le comunità di ogni iniziativa e le deresponsabilizzi. La legge
naturale contiene l’idea dello Stato di diritto, che si struttura secondo il
principio di sussidiarietà, rispettando le persone e i corpi intermedi e
regolando le loro interazioni (88).
100. I grandi miti politici sono stati smascherati con l’introduzione della
regola della razionalità e il riconoscimento della trascendenza del Dio di amore
che vieta di adorare l’ordine politico instaurato sulla terra. Il Dio della
Bibbia ha voluto l’ordine della creazione affinché tutti gli uomini,
conformandosi alla legge che gli è inerente, possano cercarlo liberamente e,
dopo averlo trovato, proiettino sul mondo la luce della grazia che è il suo
compimento.
Capitolo quinto:
torna su
Gesù Cristo, compimento della legge naturale
101. La grazia non distrugge la natura ma la risana, la conforta e la conduce
alla sua piena realizzazione. Perciò, anche se la legge naturale è
un’espressione della ragione comune a tutti gli uomini e può essere presentata
in modo coerente e vero sul piano filosofico, non è estranea all’ordine della
grazia. Le sue esigenze sono presenti e operanti nei diversi stati teologici che
attraversa una umanità impegnata nella storia della salvezza.
102. Il disegno di salvezza di cui il Padre eterno ha l’iniziativa si realizza
con la missione del Figlio che dà agli uomini la nuova Legge, la legge del
Vangelo, che consiste principalmente nella grazia dello Spirito Santo operante
nel cuore dei credenti per santificarli. La Legge nuova tende anzitutto a
procurare agli uomini la partecipazione alla comunione trinitaria delle persone
divine, ma, nello stesso tempo, assume e realizza in modo eminente la legge
naturale. Da una parte, essa richiama chiaramente le esigenze che possono essere
oscurate dal peccato e dall’ignoranza. D’altra parte, liberandoli dalla legge
del peccato, a causa del quale «c’è in me il desiderio del bene, ma non la
capacità di attuarlo» (Rm 7,18), dà agli uomini l’effettiva capacità di superare
l’egoismo per attuare pienamente le esigenze umanizzanti della legge naturale.
5.1. Il «Logos» incarnato, Legge vivente
103. Grazie alla luce naturale della ragione, che è una partecipazione alla Luce
divina, gli uomini sono in grado di scrutare l’ordine intelligibile
dell’universo per scoprirvi l’espressione della sapienza, della bellezza e della
bontà del Creatore. A partire da questa conoscenza, possono inserirsi in tale
ordine con il loro agire morale. Ora, grazie a uno sguardo più profondo sul
disegno di Dio di cui l’atto creatore è il preludio, la Scrittura insegna ai
credenti che questo mondo è stato creato nel Logos, da lui e per lui, il Verbo
di Dio, il Figlio diletto del Padre, la Sapienza increata, e che il mondo ha in
lui la vita e la sussistenza. Infatti il Figlio è «immagine del Dio invisibile,
primogenito di tutta la creazione, poiché in lui (en auto) furono create tutte
le cose, nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili [...].
Tutte le cose sono state create per mezzo di lui (di’auton) e in vista di lui (eis
auton). Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui (en auto)» (Col
1,15-17) (89). Il Logos è dunque la chiave della creazione. L’uomo, creato a
immagine di Dio, porta in sé un’impronta speciale di questo Logos personale.
Perciò è chiamato ad essere conforme e assimilato al Figlio, «il primogenito tra
molti fratelli» (Rm 8,29).
104. Ma a causa del peccato l’uomo ha fatto un cattivo uso della sua libertà e
si è allontanato dalla fonte della sapienza, Facendo così, ha falsato la
conoscenza che poteva avere dell’ordine oggettivo delle cose, anche sul piano
naturale. Gli uomini, sapendo che le loro opere sono cattive, odiano la luce ed
elaborano false teorie per giustificare i loro peccati (90). Così l’immagine di
Dio nell’uomo è gravemente oscurata. Anche se la loro natura li rinvia ancora a
una realizzazione in Dio al di là di loro stessi (la creatura non può
pervertirsi al punto di non riconoscere più le testimonianze che il Creatore
offre di sé nella creazione), di fatto gli uomini sono così gravemente colpiti
dal peccato che non riconoscono il senso profondo del mondo e lo interpretano in
termini di piacere, di denaro o di potere.
105. Con la sua incarnazione salvifica, il Logos, assumendo una natura umana, ha
restaurato l’immagine di Dio e ha restituito l’uomo a se stesso. Così Gesù
Cristo, nuovo Adamo, porta a compimento il disegno originario del Padre
sull’uomo e quindi rivela l’uomo a lui stesso: «In realtà solamente nel mistero
del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il
primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è
il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela
anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione. [...]
“Egli è immagine del Dio invisibile” (Col 1,15). È l’uomo perfetto che ha
restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito
agli inizi a causa del peccato. Poiché in lui la natura umana è stata assunta,
senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche in noi
innalzata a una dignità sublime» (91). Gesù Cristo manifesta dunque nella sua
persona una vita umana esemplare, pienamente conforme alla legge naturale.
Perciò egli è il criterio ultimo per decifrare correttamente quali sono i
desideri naturali autentici dell’uomo, quando non sono celati dalle distorsioni
introdotte dal peccato e dalle passioni disordinate.
106. L’incarnazione del Figlio è stata preparata dall’economia della Legge
antica, segno dell’amore di Dio per il suo popolo Israele. Secondo alcuni Padri,
uno dei motivi per cui Dio ha dato a Mosè una legge scritta fu di ricordare agli
uomini le esigenze della legge naturalmente scritte nel loro cuore ma
parzialmente oscurate e cancellate dal peccato (92). Questa Legge, che il
giudaismo ha identificato con la Sapienza preesistente che presiede ai destini
dell’universo (93), metteva così alla portata degli uomini segnati dal peccato
la pratica concreta della vera sapienza, che consiste nell’amore di Dio e del
prossimo. Essa conteneva precetti liturgici e giuridici positivi ma anche
prescrizioni morali, riassunte nel Decalogo, che corrispondevano alle
implicazioni della legge naturale. Così la tradizione cristiana ha visto nel
Decalogo un’espressione privilegiata e sempre valida della legge naturale (94).
107. Gesù Cristo non è «venuto per abolire ma per dare pieno compimento» alla
Legge (Mt 5,17) (95). Come appare dai testi evangelici, Gesù «insegnava come uno
che ha autorità e non come gli scribi» (Mc 1,22) e non esitava a relativizzare,
o anche ad abolire, alcune disposizioni particolari e temporanee della Legge. Ma
ne ha pure confermato il contenuto essenziale e, nella sua persona, ha portato a
perfezione la pratica della Legge, assumendo per amore i diversi tipi di
precetti — morali, cultuali e giudiziari — della Legge mosaica, che
corrispondono alle tre funzioni di profeta, sacerdote e re. San Paolo afferma
che Cristo è il fine (telos) della Legge (Rm 10,4). Telos ha qui un doppio
senso. Cristo è il «fine» della Legge, nel senso che la Legge è un mezzo
pedagogico che doveva condurre gli uomini fino a Cristo, Ma inoltre, per tutti
quelli che per la fede vivono in lui dello Spirito di amore, Cristo «mette un
termine» agli obblighi positivi della Legge aggiunti alle esigenze della legge
naturale (96).
108. Infatti Gesù ha valorizzato in diversi modi il primato etico della carità,
che unisce inseparabilmente l’amore di Dio e l’amore del prossimo (97). La
carità è il «comandamento nuovo» (Gv 13,34) che ricapitola tutta la Legge e ne
dà la chiave di interpretazione: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la
Legge e i Profeti» (Mt 22,40). Essa rivela anche il senso profondo della regola
d’oro. «Non fare a nessuno ciò che non vuoi che sia fatto a te» (Tb 4,15)
diventa con Cristo il comandamento dell’amore senza limite. Il contesto in cui
Gesù cita la regola d’oro ne determina in profondità la comprensione. Si trova
al centro di una sezione che inizia con il comandamento: «Amate i vostri nemici,
fate del bene a quelli che vi odiano» e culmina nell’esortazione: «Siate
misericordiosi come è misericordioso il vostro Padre celeste» (98). Al di là di
una regola di giustizia commutativa, essa ha la forma di una sfida: invita a
prendere l’iniziativa di un amore che è dono di sé. La parabola del buon
samaritano è caratteristica di questa applicazione cristiana della regola d’oro:
il centro di interesse passa dalla cura di sé alla cura dell’altro (99). Le
beatitudini e il discorso della montagna spiegano il modo in cui si deve vivere
il comandamento dell’amore, nella gratuità e nel senso dell’altro, elementi
propri della nuova prospettiva assunta dall’amore cristiano. Così la pratica
dell’amore supera ogni chiusura e ogni limite. Acquista una dimensione
universale e una forza ineguagliabile, poiché rende la persona capace di fare
quello che sarebbe impossibile senza l’amore.
109. Ma soprattutto nel mistero della sua santa Passione Gesù porta a compimento
la legge dell’amore. Qui, come Amore incarnato, rivela in modo pienamente umano
che cos’è l’amore e che cosa esso implica: dare la vita per quelli che si amano
(100). «Dopo avere amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv
13,1). Per l’obbedienza di amore al Padre e per il desiderio della sua gloria
che consiste nella salvezza degli uomini, Gesù accetta la sofferenza e la morte
di croce in favore dei peccatori. La persona stessa di Cristo, Logos e Sapienza
incarnati, diventano così la legge vivente, la norma suprema per ogni etica
cristiana. La sequela Christi, l’imitatio Christi sono le vie concrete per
realizzare la Legge in tutte le sue dimensioni.
5.2. Lo Spirito Santo e la nuova Legge di libertà
110. Gesù Cristo non è soltanto un modello etico da imitare, ma con il suo
mistero e nel suo mistero pasquale, è il Salvatore che dà agli uomini la
possibilità reale di attuare la legge di amore. Infatti il mistero pasquale
culmina nel dono dello Spirito Santo, lo Spirito di amore comune al Padre e al
Figlio, che unisce i discepoli tra loro, a Cristo e infine al Padre. «Poiché
l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo»
(Rm 5,5), lo Spirito Santo diventa il principio interiore e la regola suprema
dell’azione dei credenti. Fa loro adempiere spontaneamente e in modo giusto
tutte le esigenze dell’amore. «Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati
a soddisfare il desiderio della carne» (Gal 5,16). Così si compie la promessa:
«Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da
voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro
di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in
pratica le mie norme» (Ez 36,26-27) (101).
111. La grazia dello Spirito Santo costituisce l’elemento principale della nuova
Legge o Legge del Vangelo (102). La predicazione della Chiesa, la celebrazione
dei sacramenti, le disposizioni prese dalla Chiesa per favorire tra i suoi
membri lo sviluppo della vita nello Spirito sono totalmente riferite alla
crescita personale di ogni credente nella santità dell’amore. Con la nuova
Legge, che è una legge essenzialmente interiore, «la legge perfetta, la legge
della libertà» (Gc 1,25), il desiderio di autonomia e di libertà nella verità
che è presente nel cuore dell’uomo raggiunge qui la più perfetta realizzazione.
Dal più intimo della persona, dove Cristo è presente e che lo Spirito trasforma,
nasce il suo agire morale (103). Ma questa libertà è al servizio dell’amore:
«Voi fratelli, infatti, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non
divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate a servizio gli uni
degli altri» (Gal 5,13).
112. La nuova Legge del Vangelo include, assume e porta a compimento le esigenze
della legge naturale. Gli orientamenti della legge naturale non sono dunque
istanze normative esterne rispetto alla nuova Legge. Sono una parte costitutiva
di questa, anche se seconda e ordinata all’elemento principale, che è la grazia
di Cristo (104). Perciò è alla luce della ragione illuminata ormai dalla fede
viva che l’uomo riconosce meglio gli orientamenti della legge naturale, che gli
indicano la via del pieno sviluppo della sua umanità. Così, la legge naturale,
da una parte, mantiene «un legame fondamentale con la nuova legge dello Spirito
di vita in Cristo Gesù e, d’altra parte, offre un’ampia base di dialogo con le
persone di altro orientamento o di altra formazione, in vista della ricerca del
bene comune» (105).
Conclusione
torna su
113. La Chiesa cattolica, consapevole della necessità per gli uomini di
ricercare in comune le regole di un vivere insieme nella giustizia e nella pace,
desidera condividere con le religioni, le sapienze e le filosofie del nostro
tempo le risorse del concetto di legge naturale. Chiamiamo legge naturale il
fondamento di un’etica universale che cerchiamo di ricavare dall’osservazione e
dalla riflessione sulla nostra comune natura umana. Essa è la legge morale
inscritta nel cuore degli uomini e di cui l’umanità prende sempre più coscienza
via via che avanza nella storia. Questa legge naturale non ha niente di statico
nella sua espressione; non consiste in una lista di precetti definitivi e
immutabili. È una fonte di ispirazione che zampilla sempre nella ricerca di un
fondamento obiettivo a un’etica universale.
114. La nostra convinzione di fede è che Cristo rivela la pienezza dell’umano
realizzandola nella sua persona. Ma tale rivelazione, per quanto specifica,
raggiunge e conferma elementi già presenti nel pensiero razionale delle sapienze
dell’umanità. Il concetto di legge naturale è dunque anzitutto filosofico e,
come tale, consente un dialogo che, nel rispetto delle convinzioni religiose di
ciascuno, fa appello a quello che c’è di universalmente umano in ogni essere
umano. Uno scambio sul piano della ragione è possibile quando si tratta di
sperimentare e di dire ciò che è comune a tutti gli uomini dotati di ragione e
di stabilire le esigenze della vita in società.
115. La scoperta della legge naturale risponde alla ricerca di una umanità che
da sempre si sforza di darsi regole per la vita morale e per la vita in società.
Questa vita in società riguarda un arco di relazioni che va dalla cellula
familiare fino alle relazioni internazionali, passando per la vita economica, la
società civile, la comunità politica. Per poter essere riconosciute da tutti gli
uomini e in tutte le culture, le norme del comportamento in società devono avere
la loro fonte nella stessa persona umana, nei suoi bisogni, nelle sue
inclinazioni. Tali norme, elaborate con la riflessione e sostenute dal diritto,
possono così essere interiorizzate da tutti. Dopo la seconda guerra mondiale, le
nazioni di tutto il mondo hanno saputo darsi una Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo, la quale suggerisce implicitamente che la fonte dei diritti
umani inalienabili si trova nella dignità di ogni persona umana. Il presente
contributo non aveva altro fine che aiutare a riflettere su questa fonte della
moralità personale e collettiva.
116. Offrendo il nostro contributo alla ricerca di un’etica universale, e
proponendone un fondamento razionalmente giustificabile, desideriamo invitare
gli esperti e i portavoce delle grandi tradizioni religiose, sapienziali e
filosofiche dell’umanità a procedere a un lavoro analogo a partire dalle loro
fonti, per giungere a un riconoscimento comune di norme morali universali
fondate su un approccio razionale alla realtà. Questo lavoro è necessario e
urgente. Dobbiamo arrivare a dirci, al di là delle nostre convinzioni religiose
e della diversità dei nostri presupposti culturali, quali sono i valori
fondamentali per la nostra comune umanità, in modo da lavorare insieme a
promuovere comprensione, riconoscimento reciproco e cooperazione pacifica fra
tutte le componenti della famiglia umana.
Note
* NOTA PRELIMINARE. Il tema «Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo
sulla legge naturale» è stato sottoposto allo studio della Commissione Teologica
Internazionale. Per preparare questo studio venne formata una Sottocommissione
composta dall’Ecc.mo mons. Roland Minnerath, dai Rev.mi professori: p.
Serge-Thomas Bonino OP (presidente della Sottocommissione), Geraldo Luis Borges
Hackmann, Pierre Gaudette, Tony Kelly CssR, Jean Liesen, John Michael McDermott
SI, dai Ch.mi professori dott. Johannes Reiter e dott.ssa Barbara Hallensleben,
con la collaborazione di s.e. mons. Luis Ladaria SI, segretario generale, nonché
con i contributi degli altri membri. La discussione generale si è svolta in
occasione delle sessioni plenarie della stessa CTI, tenutesi a Roma,
nell’ottobre 2006 e 2007 e nel dicembre 2008. Il documento è stato approvato
all’unanimità dalla Commissione nella sessione dell’1-6 dicembre 2008 ed è stato
poi sottoposto al suo presidente, il cardinale William J. Levada, che ha dato la
sua approvazione per la pubblicazione.
(1) Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, proemio, n.
1.
(2) Cfr Ez 36,26.
(3) Giovanni Paolo II, Discorso del 5 ottobre 1995 all’Assemblea generale delle
Nazioni Unite per la celebrazione del 50° anniversario della sua fondazione, in
Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XVIII/2, 1995, Città del Vaticano, 1998, 732.
(4) Cfr Benedetto XVI, Discorso del 18 aprile 2008 davanti all’Assemblea
generale dell’ONU, in AAS 100 (2008) 335: «Il merito della Dichiarazione
universale è stato di aprire a culture, a espressioni giuridiche e a modelli
istituzionali diversi la possibilità di convergere attorno a un nodo
fondamentale di valori e quindi di diritti: ma è uno sforzo che oggi dev’essere
ancora più sostenuto di fronte a istanze che cercano di reinterpretare i
fondamenti della Dichiarazione e di comprometterne l’unità interna per favorire
il passaggio dalla protezione della dignità umana all’appagamento di semplici
interessi, spesso particolari. [...] Sovente constatiamo nei fatti un predominio
della legalità sulla giustizia, quando si manifesta un’attenzione alla
rivendicazione dei diritti che giunge sino a farli apparire come il risultato
esclusivo di disposizioni legislative o di decisioni normative prese dalle
diverse istanze delle autorità in carica. I diritti, quando sono presentati
sotto una forma di pura legalità, rischiano di diventare proposizioni di debole
portata, separati dalla dimensione etica e razionale, che costituisce il loro
fondamento e il loro fine. La Dichiarazione universale ha infatti riaffermato
con forza la convinzione che il rispetto dei diritti dell’uomo è radicata prima
di tutto in una giustizia immutabile, sulla quale è pure fondata la forza
coercitiva delle proclamazioni internazionali. È un aspetto che spesso è
trascurato, quando si pretende di privare i diritti della loro vera funzione in
nome di una stretta prospettiva utilitarista».
(5) Nel 1993, alcuni rappresentanti del Parlamento delle religioni del mondo
hanno reso pubblica una Dichiarazione per un’etica planetaria, la quale afferma
che «esiste già tra le religioni un consenso suscettibile di fondare un’etica
planetaria; un consenso minimo che riguarda valori obbliganti, norme
irrevocabili e tendenze morali essenziali». Questa Dichiarazione contiene
quattro princìpi. 1) «Nessun nuovo ordine del mondo senza un’etica mondiale». 2)
«Ogni persona umana sia trattata umanamente». La presa in considerazione della
dignità umana è considerata come un fine in sé. Tale principio riprende la
«regola d’oro» che è presente in molte tradizioni religiose. 3) La Dichiarazione
enuncia quattro direttive morali irrevocabili: non-violenza e rispetto della
vita; solidarietà; tolleranza e verità; uguaglianza dell’uomo e della donna. 4)
Riguardo ai problemi dell’umanità, è necessario un cambiamento di mentalità,
affinché ciascuno prenda coscienza della propria pressante responsabilità. È
dovere delle religioni coltivare tale responsabilità, approfondirla e
trasmetterla alle generazioni future.
(6) Benedetto XVI, Discorso del 12 febbraio 2007 al Congresso internazionale
sulla legge morale naturale organizzato dalla Pontificia Università Lateranense,
in AAS 99 (2007) 244.
(7) Cfr Agostino, s., De doctrina christiana, III, XIV, 22 (Corpus christianorum,
series latina, 32, 91): «Il precetto: “Quello che tu non vuoi sia fatto a te,
non farlo ad altri” non può in alcun modo variare in funzione della diversità
dei popoli (“Quod tibi fieri non vis, alii ne feceris”, nullo modo posse ulla
eorum gentili diversitate variari)». Cfr L. J. Philippidis, Die «Goldene Regel»
religionsgeschichtlich Untersucht, Leipzig, 1929; A. Dihle, Die Goldene Regel.
Eine Einführung in die Geschichte der antiken und frühchristlichen Vulgarethik,
Göttingen, 1962; J. Wattles, The Golden Rule, New York - Oxford, 1996.
(8) Mānava dharmaśāstra, 1, 108 (G. C. Haughton, Mānava Dharma Śāstra or The
Institutes of Manu, Comprising the Indian System of Duties, Religious and Civil,
ed. By P. Percival, New Delhi, 1982(4), 14.
(9) Mahābhārata, Anusasana parva, 113, 3-9 (ed. Ishwar Chundra Sharma e O. N.
Bimali; transl. according to M. N. Dutt, vol. IX, Delhi, Parimal Publications,
469).
(10) Ad esempio: «Dica la verità, dica cose che facciano piacere, non dichiari
una verità sgradevole, non pronunci una bugia pietosa: questa è la legge eterna»
(Mānava dharmaśāstra, 4, 138, p. 101); «Consideri sempre l’azione di colpire,
quella di ingiuriare e quella di nuocere al bene del prossimo come le tre cose
più funeste nella serie dei vizi provocati dalla collera» (Mānava dharmaśāstra,
7, 51, p. 156).
(11) Confucio, Entretiens 15, 23 (traduzione di A. Cheng, Paris, 1981, 125).
(12) Corano, sura 35, 24 (traduzione di D. Masson, Paris, 1967, 537); cfr sura
13, 7.
(13) Corano, sura 17, 22-38 (pp. 343-345): «Il tuo Signore ha decretato che
adoriate soltanto Lui. Ha prescritto la bontà verso il padre e la madre. Se uno
di loro o entrambi hanno raggiunto la vecchiaia vicino a te, non dire loro: “Oibò”,
non allontanarli, rivolgi loro parole rispettose. China verso di loro, con
bontà, l’ala della tenerezza e di’: “Mio Signore! Sii misericordioso verso di
loro, come essi sono stati verso di me, quando ero bambino e mi hanno allevato”.
Il vostro Signore conosce perfettamente ciò che è in voi. Se siete giusti,
perdona coloro che ritornano pentiti a lui. Da’ ai parenti prossimi ciò che è
loro dovuto, come anche al povero e al viandante; ma non essere prodigo. I
prodighi sono fratelli dei demoni, e il Demonio è molto ingrato verso il suo
Signore. Se, cercando una misericordia che speri dal tuo Signore, sei costretto
ad allontanarti da loro, rivolgi loro una parola benevola. Non portare la mano
chiusa al collo e non tenderla troppo larga, altrimenti ti troverai vilipeso e
misero. Sì, il tuo Signore dispensa largamente oppure misura i suoi doni a chi
vuole. È bene informato sui suoi servi e li vede perfettamente. Non uccidete i
vostri figli per timore della povertà. Noi provvederemo al loro mantenimento
insieme al vostro. La loro uccisione sarà un peccato enorme. Evitate la
fornicazione: è un abominio! Che via detestabile! Non uccidete l’uomo che Dio vi
ha vietato di uccidere, se non per una giusta ragione. [...] Non toccate i beni
dell’orfano, finché non ha raggiunto la maggiore età, se non per il migliore
uso. Mantenete i vostri impegni, perché gli uomini saranno interrogati sui loro
impegni. Quando misurate, date una giusta misura; pesate con la bilancia più
precisa. È un bene e il suo risultato è eccellente. Non inseguire ciò di cui non
hai alcuna conoscenza. Certamente dovrai rendere conto di tutto: dell’udito,
della vista e del cuore. Non percorrere la terra con insolenza. Tu non puoi né
squarciare la terra, né raggiungere l’altezza delle montagne. Ciò che in tutto
questo è male è detestabile davanti a Dio».
(14) Sofocle, Antigone, v. 449-460 (ed. Pléiade, p. 584).
(15) Cfr Aristotele, Retorica, I, XIII, 2 (1373 b 4-11): «La legge particolare (nomos
idios) è quella che ogni gruppo di uomini determina in rapporto ai suoi membri,
e questi tipi di leggi si dividono in legge non scritta e legge scritta. La
legge comune (nomos koinos) è quella conforme alla natura (kata physin). Infatti
c’è un giusto e un ingiusto, comuni per natura, che tutti riconoscono per una
specie di divinazione, anche se non vi sia nessuna comunicazione o reciproca
convenzione. Perciò si vede l’Antigone di Sofocle dichiarare che è giusto
seppellire Polinice, la cui sepoltura è stata vietata, affermando che tale
sepoltura è giusta, essendo conforme alla natura»; cfr anche Etica a Nicomaco,
V, 10.
(16) Cfr Platone, Gorgia (483 c-484 b) [Discorso di Callicle]: «La natura stessa
dimostra che è giusto che il migliore abbia più del più debole, e il più potente
più del più impotente. Essa manifesta in diverse circostanze che è bene così,
sia negli altri esseri viventi sia in tutte le città e le razze degli uomini, e
che il giusto è così determinato per il fatto che il più potente comanda al più
debole e a una parte più grande. Infatti su quale idea del giusto si fondava
Serse per fare guerra alla Grecia, o suo padre agli sciti? Si potrebbero citare
molti esempi simili. Ma, mi pare, quelli hanno agito così secondo la natura del
giusto e, per Zeus, secondo la legge della natura, e probabilmente non secondo
quella istituita da noi; plasmando i migliori e i più forti tra noi, prendendoli
fin dalla giovane età, come si farebbe con i leoni, seducendoli con i nostri
sortilegi e stregandoli con i nostri incantesimi, li sottomettiamo a noi
ripetendo loro che ciascuno dev’essere uguale agli altri, e che questo è il
bello e il giusto. Ma se nasce un uomo dotato di una natura abbastanza potente,
allora, liberandosi con una spallata di tutti questi ostacoli, facendoli a pezzi
e sfuggendo loro, calpestando i nostri scritti, i nostri sortilegi, i nostri
incantesimi e le nostre leggi che sono tutte senza eccezione contro natura, e
alzandosi sopra di noi, ecco che lo schiavo si rivela nostro padrone, e allora
appare in piena luce il giusto secondo la natura!».
(17) Nel Teeteto (172 a-b), il Socrate di Platone spiega le nefaste conseguenze
politiche della tesi relativista attribuita a Protagora, secondo la quale ogni
uomo è misura della verità: «Dunque, anche in politica, bello e brutto, giusto e
ingiusto, pio ed empio, tutto ciò che ogni città ritiene tale e legalmente
decreta tale per sé, tutto questo in verità è tale per ciascuno [...]. Nelle
questioni di giusto e ingiusto, di pio ed empio, si è d’accordo nel sostenere
rigorosamente che nulla di questo è di natura né possiede la sua essenza in
proprio; ma semplicemente ciò che sembra al gruppo diventa vero dal momento in
cui sembra e fino a quando sembra».
(18) Cfr, ad esempio, Seneca, De vita beata, VIII, 1: «Bisogna seguire la natura
come guida; la ragione la osserva e la consulta. Quindi è la stessa cosa vivere
felice e vivere secondo la natura (Natura enim duce utendum est: hanc ratio
observat, hanc consulit. Idem est ergo beate vivere et secundum naturam)».
(19) Cicerone, De legibus, I, VI, 18: «Lex est ratio summa insita in natura quae
iubet ea quae facienda sunt prohibetque contraria».
(20) Cfr Am 1-2.
(21) Il giudaismo rabbinico si riferisce a sette imperativi morali che Dio ha
dato a Noè per tutti gli uomini. Sono enumerati nel Talmud (Sanhedrin 56), 1)
Non ti farai idoli. 2) Non ucciderai. 3) Non ruberai. 4) Non commetterai
adulterio. 5) Non bestemmierai. 6) Non mangerai la carne di un animale vivo. 7)
Stabilirai tribunali di giustizia per far rispettare i sei comandamenti
precedenti. Mentre i 613 mitzot della Torah scritta e la loro interpretazione
nella Torah orale riguardano soltanto gli ebrei, le leggi di Noè si rivolgono a
tutti gli uomini.
(22) La letteratura sapienziale si interessa della storia soprattutto in quanto
essa fa apparire certe costanti relative al cammino che conduce l’uomo verso
Dio. I sapienti non disprezzano le lezioni della storia e il loro valore di
rivelazione divina (cfr Sir 44-51), ma hanno una viva coscienza del legame tra
gli avvenimenti dipendenti da una coerenza che non è un avvenimento storico. Per
comprendere questa identità all’interno della mutabilità e agire in modo
responsabile in funzione di questa, la sapienza ricerca i princìpi e le leggi
strutturali piuttosto che precise prospettive storiche. Facendo così, la
letteratura sapienziale si concentra sulla protologia, cioè sulla creazione
iniziale con ciò che essa implica. Infatti la protologia tenta di descrivere la
coerenza che si trova dietro gli avvenimenti storici. È una condizione a priori
che consente di mettere in ordine tutti gli avvenimenti storici possibili. La
letteratura sapienziale cerca dunque di valorizzare le condizioni che rendono
possibile la vita di tutti i giorni. La storia descrive questi elementi in modo
successivo, la sapienza va al di là della storia verso una descrizione
atemporale di ciò che costituisce la realtà al tempo della creazione,
«all’inizio», quando gli esseri umani furono creati a immagine di Dio.
(23) Cfr Prv 6,6-9: «Va’ dalla formica, o pigro, guarda le sue abitudini e
diventa saggio. Essa non ha né capo, né sorvegliante, né padrone, eppure
d’estate si provvede il vitto, al tempo della mietitura accumula il cibo. Fino a
quando, pigro, te ne starai a dormire? Quando ti scuoterai dal sonno?».
(24) Cfr anche Lc 6,31: «E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche
voi fate a loro».
(25) Traduzione italiana della versione francese della Bibbia. Cfr Bonaventura,
s., Commentarius in Evangelium Lucae, c. 6, n. 76 («Opera omnia, VII», ed.
Quaracchi, p. 156): «In hoc mandato [Lc 6,31] est consummatio legis naturalis,
cuius una pars negativa ponitur Tobiae quarto et implicatur hic: “Quod ab alio
oderis tibi fieri, vide ne tu aliquando alteri facias”»; (Pseudo-)Bonaventura,
Expositio in Psalterium, Ps 57,2 («Opera omnia, IX», ed. Vivès, p. 227); «Duo
sunt mandata naturalia: unum prohibitivum, unde hoc “Quod tibi non vis fieri,
alteri ne feceris”; aliud affirmativum, unde in Evangelio “Omnia quaecumque
vultis ut faciant vobis homines, eadem facite illis”. Primum de malis removendis,
secundum de bonis adipiscendis».
(26) Cfr Concilio Vaticano I, Costituzione dogmatica Dei Filius, c. 2. Cfr anche
At 14,16-17: «Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che ogni popolo
seguisse la sua strada; ma non ha cessato di dar prova di sé beneficandovi,
concedendovi dal cielo piogge e stagioni ricche di frutti, fornendovi di cibo e
riempiendo di letizia i vostri cuori».
(27) In Filone di Alessandria si trova l’idea secondo la quale Abramo, senza la
Legge scritta, conduceva già «per natura» una vita conforme alla Legge. Cfr
Filone di Alessandria, De Abrahamo, § 275-276 (Introduzione, traduzione e note
di J. Gorez, «Les œuvres de Philon d’Alexandrie, 20», Paris, 1966, 132-135): «Mosè
dice: Quest’uomo [Abramo] ha osservato la legge divina e tutti gli ordini divini
(Gn 26,5). E non aveva ricevuto un insegnamento di testi scritti. Ma, spinto
dalla natura — non scritta — pone il suo zelo nel seguire da vicino slanci sani
e senza difetto».
(28) Cfr Rm 7,22-23: «Nel mio intimo io acconsento alla legge di Dio, ma nelle
mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione (to
nomo tou noos mou) e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie
membra».
(29) Clemente di Alessandria, Stromata, I, c. 29, 182, 1 [«Sources chrétiennes»,
30, 176].
(30) Agostino, s., Contra Faustum, XXII, c. 27 [PL 42, col. 418]: «Lex vero
aeterna est ratio divina vel voluntas Dei, ordinem naturalem conservari iubens,
perturbari vetans». Ad esempio, sant’Agostino condanna la menzogna, perché va
direttamente contro la natura del linguaggio e la sua vocazione ad essere il
segno del pensiero; cfr Enchiridion, VII, 22 [Corpus christianorum, series
latina, 46, 62]: «La parola non è stata data agli uomini per ingannarsi
reciprocamente, ma per portare bene i loro pensieri alla conoscenza degli altri.
Servirsi della parola per ingannare e non per il suo fine normale è dunque un
peccato (Et utique verba propterea sunt instituta non per quae invicem se
homines fallant sed per quae in alterius quisque notitiam cogitationes suas
perferat. Verbis ergo uti ad fallaciam, non ad quod instituta sunt, peccatum
est)».
(31) Agostino, s., De Trinitate, XIV, XV, 21 [Corpus christianorum, series
latina, 50 A, 451]: «Queste regole dove sono scritte? L’uomo, anche ingiusto,
dove riconosce ciò che è giusto? Dove vede che bisogna avere ciò che egli non
ha? Dove sono scritte, se non nel libro di quel lume che si chiama la Verità? Là
è scritta ogni legge giusta, di là essa passa nel cuore dell’uomo che pratica la
giustizia; non emigra in lui, ma vi mette la sua impronta, come un sigillo che
da un anello passa nella cera, ma senza lasciare l’anello (Ubinam sunt istae
regulae scriptae, ubi quid sit iustum et iniustus agnoscit, ubi cernit habendum
esse quod ipse non habet? Ubi ergo scriptae sunt, nisi in libro lucis illius
quae veritas dicitur, unde omnis lex iusta describitur et in cor hominis qui
operatur iustitiam non migrando sed tamquam imprimendo transfertur, sicut imago
ex anulo et in ceram transit et anulum non relinquit?)».
(32) Cfr Gaius, Instituta, 1. 1 (II sec. d.C.) (ed. J. Reinach, «Collection des
universités de France», Paris, 1950, 1): «Quod vero naturalis ratio inter omnes
homines constituit, id apud omnes populos peraeque custoditur vocaturque ius
gentium, quasi quo iure omnes gentes utuntur. Populus itaque romanus partim suo
proprio, partim communi omnium hominum iure utitur».
(33) San Tommaso d’Aquino distingue nettamente l’ordine politico naturale
fondato sulla ragione e l’ordine religioso soprannaturale fondato sulla grazia
della rivelazione. Egli si oppone ai filosofi musulmani ed ebrei medievali che
attribuivano alla rivelazione religiosa un ruolo essenzialmente politico. Cfr Quaestiones disputatae de veritate, q. 12, a. 3, ad 11: «La società degli
uomini, in quanto è ordinata al fine della vita eterna può conservarsi soltanto
con la giustizia della fede, il cui principio è la profezia. [...] Ma poiché
questo fine è soprannaturale, sia la sua giustizia ordinata a tale fine sia la
profezia che è il suo principio saranno soprannaturali. Invece la giustizia con
la quale è governata la società umana in ordine al bene civile, si può ottenere
quanto basta con i princìpi del diritto naturale posti nell’uomo (Societas
hominum secundum quod ordinatur ad finem vitae aeternae, non potest conservari
nisi per iustitiam fidei, cuius principium est prophetia [...] Sed cum hic finis
sit supernaturalis, et iustitia ad hunc finem ordinata, et prophetia, quae est
eius principium, erit supernaturalis. Iustitia vero per quam gubernatur societas
humana in ordine ad bonum civile, sufficienter potest haberi per principia iuris
naturalis homini indita)».
(34) Cfr Benedetto XVI, Discorso tenuto a Ratisbona in occasione dell’incontro
con i rappresentanti del mondo della scienza (12 settembre 2006), in AAS 98
(2006) 733: «Alla fine del Medioevo si sono sviluppate nella teologia tendenze
che hanno manifestato questa sintesi tra lo spirito greco e lo spirito
cristiano. Di fronte a quello che è detto l’intellettualismo agostiniano e
tomista, inizia con Duns Scoto la teoria del volontarismo che, nei suoi sviluppi
ulteriori, ha condotto a dire che noi possiamo conoscere di Dio soltanto la sua
voluntas ordinata. Al di là di questa, ci sarebbe la libertà di Dio, in virtù
della quale egli avrebbe potuto creare e anche fare il contrario di ciò che ha
fatto. Qui si stabiliscono posizioni che possono [...] tendere verso l’immagine
di un Dio arbitrario, che non è più legato né al vero né al bene. La
trascendenza e l’alterità di Dio sono poste così in alto che anche la nostra
ragione e il nostro senso del vero e del bene non sono più un autentico specchio
di Dio, le cui immense possibilità, dietro alle sue effettive decisioni,
rimangono per noi eternamente inaccessibili e nascoste».
(35) TH. Hobbes, Leviathan, Parte II, c. 26 (tr. F. Tricaud, Paris, 1971, 295,
nota 81): «In una città costituita, l’interpretazione delle leggi di natura non
dipende dai dottori, dagli scrittori che hanno trattato di filosofia morale, ma
dall’autorità civile. Infatti le dottrine possono essere vere: ma è l’autorità,
non la verità, che fa la legge».
(36) La posizione dei Riformatori di fronte alla legge naturale non è
monolitica. Più di Martin Lutero, Giovanni Calvino, fondandosi su san Paolo,
riconosce l’esistenza della legge naturale come norma etica, anche se è
radicalmente incapace di giustificare l’uomo. «È una cosa volgare che l’uomo sia
sufficientemente istruito nella retta regola del vivere bene da quella legge
naturale di cui parla l’Apostolo [...]. Il fine della legge naturale è di
rendere l’uomo inescusabile; perciò la possiamo definire propriamente così: è un
sentimento della coscienza, con cui essa distingue sufficientemente tra il bene
e il male, per togliere all’uomo la copertura dell’ignoranza, in quanto è
rimproverato dalla sua stessa testimonianza» (L’Istituzione cristiana, libro II,
c. 2, 22). Nei tre secoli successivi alla Riforma, per i protestanti la legge
naturale è servita da fondamento alla giurisprudenza. Soltanto con la
secolarizzazione della legge naturale, nel XIX secolo, la teologia protestante
ne ha preso le distanze. Solamente a partire da tale epoca, si manifesta dunque
l’opposizione delle opinioni cattolica e protestante sulla questione della legge
naturale. Ma oggi l’etica protestante sembra manifestare un nuovo interesse per
questa nozione.
(37) L’espressione ha origine in Hugo Grotius, De iure belli et pacis,
Prolegomena: «Haec quidem quae iam diximus locum aliquem haberent, etsi daremus,
quod sine summo scelere dari nequit, non esse Deum».
(38) Graziano, Concordantia discordantium canonum, pars I, dist. 1 [PL 187, col.
29]: «Humanum genus duobus regitur, naturali videlicet iure et moribus. Ius
naturale est quod in lege et Evangelio continetur, quo quisque iubetur alii
facere quod sibi vult fieri, et prohibetur alii inferre quod sibi nolit fieri.
[...] Omnes leges aut divinae sunt aut humanae. Divinae natura, humanae moribus
constant, ideoque hae discrepant, quoniam aliae aliis gentibus placent».
(39) Cfr Paolo VI, Enciclica Humanae vitae, n. 4, in AAS 60 (1968) 483.
(40) Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1954-1960; Giovanni Paolo II,
Enciclica Veritatis splendor, nn. 40-53.
(41 )Benedetto XVI, Discorso del 12 febbraio 2007 al Congresso internazionale
sulla legge morale naturale organizzato dalla Pontificia Università Lateranense,
in AAS 99 (2007) 243.
(42) Cfr Id., Discorso del 18 aprile 2008 davanti all’Assemblea generale
dell’ONU: «Questi diritti [i diritti dell’uomo] trovano il loro fondamento nella
legge naturale inscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e
civiltà. Separare i diritti umani da tale contesto significherebbe limitare la
loro portata e cedere a una concezione relativista, per la quale il senso e
l’interpretazione dei diritti potrebbe variare e la loro universalità potrebbe
essere negata in nome delle diverse concezioni culturali, politiche, sociali e
anche religiose».
(43) Cfr Giovanni Paolo II, Enciclica Evangelium vitae, nn. 73-74.
(44) Cfr Id., Enciclica Veritatis splendor, n. 44: «La Chiesa si è riferita
spesso alla dottrina tomista della legge naturale, integrandola nel suo
insegnamento morale».
(45) Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 94, a. 2: «Il primo
precetto della legge è che si deve fare e perseguire il bene ed evitare il male.
Su questo si fondano tutti gli altri precetti della legge di natura, che cioè si
deve fare ed evitare tutto ciò che riguarda i precetti della legge di natura,
che la ragione pratica riconosce naturalmente come beni umani (Hoc est primum
praeceptum legis, quod bonum est faciendum et prosequendum, et malum vitandum.
Et super hoc fundantur omnia alia praecepta legis naturae, ut scilicet omnia
illa facienda vel vitanda pertineant ad praecepta legis naturae, quae ratio
practica naturaliter apprehendit esse bona humana)».
(46) Cfr ivi, Ia, q. 79, a. 12; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1780.
(47) Cfr R. Guardini, Liberté, grâce et destinée (tr. J. Ancelet-Hustache,
Paris, 1969, 46-47): «Compiere il bene significa pure compiere ciò che rende
feconda e ricca l’esistenza. Così, il bene è ciò che preserva la vita e la
conduce alla sua pienezza, ma soltanto quando è compiuto per se stesso».
(48) Cfr Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 91, a. 2: «Fra
tutti gli esseri, la creatura ragionevole è soggetta alla provvidenza divina in
modo più eccellente, poiché essa stessa è partecipe di questa provvidenza,
provvedendo a sé e agli altri. In questa creatura c’è dunque una partecipazione
alla ragione eterna, secondo la quale essa possiede un’inclinazione naturale al
modo di agire e al fine che sono dovuti. Questa partecipazione alla legge eterna
nella creatura razionale si dice legge naturale (Inter cetera autem rationalis
creatura excellentiori quodam modo divinae providentiae subiacet, inquantum et
ipsa fit providentiae particeps, sibi ipsi et aliis providens. Unde et in ipsa
participatur ratio aeterna, per quam habet naturalem inclinationem ad debitum
actum et finem. Et talis participatio legis aeternae in rationali creatura lex
naturalis dicitur)», Questo testo è citato in Giovanni Paolo II, Enciclica
Veritatis splendor, n. 43. Cfr pure Concilio Vaticano II, Dichiarazione
Dignitatis humanae, n. 3: «La norma suprema della vita umana è la stessa legge
divina eterna, oggettiva e universale, per mezzo della quale Dio con un suo
disegno di sapienza e amore ordina, dirige e governa il mondo intero e le vie
della comunità umana. E Dio rende partecipe l’uomo di questa legge, cosicché
l’uomo, per soave disposizione della provvidenza divina, possa conoscere sempre
più l’immutabile verità».
(49) Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 36.
(50) Cfr Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 94, a. 2.
(51) Cfr ivi, Ia-IIae, q. 94, a. 6.
(52) Cfr Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, art. 3.5.17.22.
(53) Cfr ivi, articolo 16.
(54) Cfr Aristotele, Politica, I, 2 (1253 a 2-3); Concilio Vaticano II,
Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 12, § 4.
(55) Girolamo, s., Epistolae 121, 8 [PL 22, col. 1024].
(56) Cfr Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 94, a. 6: «Quanto
ai precetti secondi, la legge naturale può essere cancellata dal cuore degli
uomini, sia per cattive esortazioni, come nelle scienze speculative si insinuano
errori riguardo a conclusioni necessarie, sia per cattive abitudini e
comportamenti viziosi, come alcuni non consideravano peccati le rapine e neppure
i vizi contro natura, come dice san Paolo (Rm 1,24). (Quantum vero ad alia
praecepta secundaria, potest lex naturalis deleri de cordibus hominum, vel
propter malas persuasiones, eo modo quo etiam in speculativis errores contingunt
circa conclusiones necessarias; vel etiam propter pravas consuetudines et
habitus corruptos; sicut apud quosdam non reputabantur latrocinia peccata, vel
etiam vitia contra naturam, ut etiam apostolus dicit, ad Rom. 1,24)».
(57) Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 94, a. 4: «Ratio
practica negotiatur circa contingentia, in quibus sunt operationes humanae, et
ideo, etsi in communibus sit aliqua necessitas, quanto magis ad propria
descenditur, tanto magis invenitur defectus [...]. In operativis autem non est
eadem veritas vel rectitudo practica apud omnes quantum al propria, sed solum
quantum ad communia, et apud illos apud quod est eadem recititudo in propriis,
non est aequaliter omnibus nota. [...]. Et hoc tanto magis invenitur deficere,
quanto magis ad particularia descenditur».
(58) Cfr Id., Sententia libri Ethicorum, Lib. VI, 6 (ed. Leonina, t. XLVII,
353-354): «La prudenza non considera soltanto l’universale, in cui non c’è
azione; ma deve conoscere il singolare, poiché è attiva, cioè principio di
azione. Ora, l’azione è sul singolare. Perciò alcuni che non hanno una scienza
universale sono più attivi in alcune realtà particolari di quelli che hanno una
scienza universale, perché hanno l’esperienza delle realtà particolari. [...].
Poiché dunque la prudenza è una ragione attiva, bisogna che l’uomo prudente
abbia entrambe le conoscenze, cioè l’universale e la particolare; oppure, se ne
ha una sola, è meglio che abbia la conoscenza del particolare, che è più vicina
all’operazione (Prudentia enim non considerat solum universalia, in quibus non
est actio; sed oportet quod cognoscat singularia, eo quod est activa, idest
principium agendi. Actio autem est circa singularia. Et inde est, quod quidam
non habentes scientiam universalium sunt magis activi circa aliqua particularia,
quam illi qui habent universalem scientiam, eo quod sunt in aliis particularibus
experti. [...]. Quia igitur prudentia est ratio activa, oportet quod prudens
habeat utramque notitiam, scilicet et universalium et particularium; vel, si
alteram solum contingat ipsum habere, magis debet habere hanc, scilicet notitiam
particularium quae sunt propinquiora operationi)».
(59) Ad esempio, la psicologia sperimentale sottolinea l’importanza della
presenza attiva dei genitori dell’uno e dell’altro sesso per lo sviluppo
armonioso della personalità del bambino, o ancora il ruolo decisivo
dell’autorità paterna per la costruzione della sua identità. La storia politica
suggerisce che la partecipazione di tutti alle decisioni che riguardano
l’insieme della comunità è generalmente un fattore di pace sociale e di
stabilità politica.
(60) A questo primo livello, l’espressione della legge naturale talvolta fa
astrazione da un riferimento esplicito a Dio. Certamente, l’apertura alla
trascendenza fa parte dei comportamenti virtuosi che ci si devono attendere
dall’uomo realizzato, ma Dio non è ancora necessariamente riconosciuto come il
fondamento e la fonte della legge naturale né come il fine ultimo che mobilita e
gerarchizza i diversi comportamenti virtuosi. Questo non riconoscimento
esplicito di Dio come norma morale ultima sembra che impedisca all’approccio
«empirico» alla legge naturale di costituirsi in dottrina propriamente morale.
(61) Bonaventura, s., Commentarius in Ecclesiasten, cap. 1 («Opera omnia, VI»,
ed. Quaracchi, 1893, p. 16): «Verbum divinum est omnis creatura, quia Deum
loquitur».
(62) Cfr Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 91, a. 1: «La legge
non è altro che una prescrizione della ragione pratica nel principe che governa
una comunità perfetta. Ora, è manifesto — essendo ammesso che il mondo è
governato dalla provvidenza divina — che tutta la comunità dell’universo è
governata da un piano divino. Perciò il piano del governo delle cose che è in
Dio come nel capo dell’universo ha valore di legge. E poiché il piano divino non
concepisce nulla nel tempo ma ha una concezione eterna [...], ne segue che tale
legge deve dirsi eterna (Nihil est aliud lex quam quoddam dictamen practicae
rationis in principe qui gubernat aliquam communitatem perfectam. Manifestum est
autem, supposito quod mundus divina providentia regatur [...], quod tota
communitas universi gubernatur ratione divina. Et ideo ipsa ratio gubernationis
rerum in Deo sicut in principe universitatis existens, legis habet rationem. Et
quia divina ratio nihil concipit ex tempore, sed habet aeternum conceptum [...],
inde est quod huiusmodi legem oportet dicere aeternam)».
(63) Cfr ivi, Ia-IIae, q. 91, a. 2: «Unde patet quod lex naturalis nihil aliud
est quam participatio legis aeternae in rationali creatura».
(64) Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor, n. 41: «L’insegnamento
sulla legge naturale come fondamento dell’etica è accessibile di diritto alla
ragione naturale. La storia lo attesta. Ma, di fatto, questo insegnamento ha
raggiunto la piena maturità soltanto sotto l’influenza della rivelazione
cristiana. Anzitutto perché la comprensione della legge naturale come
partecipazione alla legge eterna è strettamente legata a una metafisica della
creazione. Ora, questa, benché sia di diritto accessibile alla ragione
filosofica, è stata veramente presentata e spiegata soltanto sotto l’influenza
del monoteismo biblico. E poi perché la Rivelazione, ad esempio attraverso il
Decalogo, spiega, conferma, purifica e completa i princìpi fondamentali della
legge naturale».
(65) La teoria dell’evoluzione, che tende a ridurre la specie a un equilibrio
precario e provvisorio nel flusso del divenire, non rimette forse in questione
radicalmente il concetto stesso di natura? Infatti, qualunque sia il suo valore
sul piano della descrizione biologica empirica, la nozione di specie risponde a
un’esigenza permanente della spiegazione filosofica del vivente. Soltanto il
ricorso a una specificità formale, irriducibile alla somma delle proprietà
materiali, consente di dare ragione dell’intelligibilità del funzionamento
interno di un organismo vivente considerato come un tutto coerente.
(66) La dottrina teologica del peccato originale sottolinea fortemente l’unità
reale della natura umana. Questa non può ridursi a una semplice astrazione né a
una somma di realtà individuali. Essa indica piuttosto una totalità che
abbraccia tutti gli uomini che condividono uno stesso destino. Il semplice fatto
di essere nati (nasci) ci pone in relazioni durevoli di solidarietà con tutti
gli altri uomini.
(67) Boezio, Contra Eutychen et Nestorium, c. 3 [PL 64, col. 1344]: «Persona est
rationalis naturae individua substantia». Cfr Bonaventura, s., Commentaria in
librum I Sentantiarum, d. 25, a. 1, q. 2; Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae,
Ia, q. 29, a. 1.
(68) Benedetto XVI, Enciclica Spe salvi, n. 5.
(69) Cfr pure Atanasio di Alessandria, Traité contre les païens, 42 [«Sources
chrétiennes», 18, 195]): «Come un musicista che accorda la lira unisce con la
sua arte le note gravi con le note acute, le note medie con le altre, per
eseguire una sola melodia: così la Sapienza di Dio, il Verbo, tenendo l’universo
come una lira, unisce gli esseri dell’aria con quelli della terra, e gli esseri
del cielo con quelli dell’aria; combina l’insieme con le parti; conduce tutto
con il suo comando e con la sua volontà; produce così, nella bellezza e
nell’armonia, un solo mondo e un solo ordine del mondo».
(70) La physis degli antichi, prendendo atto dell’esistenza di un certo
non-essere (la materia), preservava la contingenza delle realtà terrestri e
opponeva una resistenza alle pretese della ragione umana di imporre all’insieme
della realtà un ordine determinista puramente razionale. Così lasciava aperta la
possibilità di un’azione effettiva della libertà umana nel mondo.
(71) Cfr Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie, n. 19: «La filosofia, che ha
enunciato il principio del cogito, ergo sum, “penso, dunque sono”, ha pure
impresso nella concezione moderna dell’uomo il carattere dualista che la
distingue. È proprio del razionalismo opporre radicalmente nell’uomo lo spirito
al corpo e il corpo allo spirito. Al contrario, l’uomo è una persona nell’unità
del suo corpo e del suo spirito. Il corpo non può mai essere ridotto a una pura
materia: è un corpo «spiritualizzato», come lo spirito è così profondamente
unito al corpo che si può dire uno spirito «incarnato».
(72) L’ideologia del gender, che nega ogni significato antropologico e morale
alla differenza naturale dei sessi, si inscrive in questa prospettiva dualista. Cfr Congregazione per la Dottrina della Fede,
Lettera ai vescovi della Chiesa
cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo,
n. 2: «Per evitare ogni supremazia dell’uno o dell’altro sesso, si tende a
cancellare le loro differenze, considerate come semplici effetti di un
condizionamento storico e culturale. In questo livellamento, la differenza
corporale chiamata sesso è minimizzata, mentre la dimensione puramente
culturale, chiamata genere, è sottolineata al massimo e considerata come
primordiale. [...] La radice immediata di questa tendenza si trova nell’ambito
della questione della donna, ma la sua motivazione più profonda dev’essere
ricercata nel tentativo della persona umana di liberarsi dai suoi
condizionamenti biologici. Secondo questa prospettiva antropologica, la natura
umana non avrebbe in sé caratteristiche che si impongano in modo assoluto: ogni
persona potrebbe o dovrebbe determinarsi secondo il suo buon volere, in quanto
sarebbe libera da ogni predeterminazione legata alla sua costituzione
essenziale».
(73) Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor, n. 50.
(74) Il dovere di umanizzare la natura nell’uomo è inseparabile dal dovere di
umanizzare la natura esterna. Questo giustifica l’immenso forzo compiuto dagli
uomini per emanciparsi dalle coercizioni della natura fisica nella misura in cui
esse ostacolano lo sviluppo dei valori propriamente umani. La lotta contro le
malattie, la prevenzione dei fenomeni naturali ostili, il miglioramento delle
condizioni di vita sono di per sé opere che attestano la grandezza dell’uomo
chiamato a riempire la terra e a sottometterla (cfr Gn 1,28). Cfr Concilio
Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 57.
(75) Reagendo al pericolo del fisicismo e insistendo giustamente sul ruolo
decisivo della ragione nella elaborazione della legge naturale, alcune teorie
contemporanee della legge naturale trascurano, anzi rifiutano, il significato
morale dei dinamismi naturali pre-razionali. La legge naturale sarebbe detta
«naturale» soltanto in riferimento alla ragione, che definirebbe il tutto della
natura dell’uomo. Obbedire alla legge naturale si ridurrebbe dunque ad agire in
modo ragionevole, cioè ad applicare all’insieme dei comportamenti un ideale
univoco di razionalità generato dalla sola ragione pratica. Ciò significa
identificare a torto la razionalità della legge naturale con la sola razionalità
della ragione umana senza tener conto della razionalità immanente alla natura.
(76) Cfr Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, IIa-IIae, q. 154, a. 11. La
valutazione morale dei peccati contro natura deve tener conto non soltanto della
loro gravità oggettiva ma anche delle disposizioni soggettive, spesso
attenuanti, di coloro che li commettono.
(77) Cfr Gn 2,15.
(78) Cfr Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, nn.
73-74. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1882, precisa che «certe
società, quali la famiglia e la comunità civica, sono più immediatamente
rispondenti alla natura dell’uomo».
(79) Cfr Giovanni XXIII, Enciclica Mater et Magistra, n. 65; Concilio Vaticano
II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 26 § 1; Dichiarazione Dignitatis
humanae, n. 6.
(80) Cfr Giovanni XXIII, Enciclica Pacem in terris, n. 55.
(81) Cfr ivi, n. 37; Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace,
Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, nn. 192-203.
(82) Cfr Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 95, a. 2.
(83) Agostino, s., De libero arbitrio, I, V, 11 [Corpus christianorum, series
latina, 29, 217]: «Infatti non mi sembra legge, quella che non è giusta»;
Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 93, a. 3, ad 2: «La legge
umana ha ragione di legge in quanto è conforme alla retta ragione; a questo
titolo, è manifesto che essa deriva dalla legge eterna. Ma, nella misura in cui
si allontana dalla ragione, è dichiarata legge iniqua, quindi non ha più ragione
di legge, ma è piuttosto una violenza (Lex humana intantum habet rationem legis,
inquantum est secundum rationem rectam, et secundum hoc manifestum est quod a
lege aeterna derivatur. Inquantum vero a ratione recedit, sic dicitur lex
iniqua, et sic non habet rationem legis, sed magis violentiae cuiusdam)»;
Ia-IIae, q. 95, a. 2: «Ogni legge posta dagli uomini non ha ragione di legge che
nella misura in cui deriva dalla legge naturale. Se in qualche punto si
allontana dalla legge naturale, allora non è più una legge, ma una corruzione
della legge (Unde omnis lex humanitus posita intantum habet de ratione legis,
inquantum a lege naturae derivatur. Si vero in aliquo a lege naturali discordet,
iam non erit lex sed legis corruptio)».
(84) Cfr Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 97, a. 1.
(85) Per sant’Agostino, il legislatore, per fare una buona opera, deve
consultare la legge eterna; cfr Agostino, s., De vera religione, XXXI, 58
[Corpus christianorum, series latina, 32, 225]: «Il legislatore temporale, se è
saggio e buono, consulta la legge eterna, che nessun uomo può giudicare,
affinché secondo le sue norme immutabili possa riconoscere ciò che in quel
momento conviene comandare o vietare (Conditor tamen legum temporalium, si vir
bonus est et sapiens, illam ipsam consulit aeternam, de qua nulli animae
iudicare datum est; ut secundum eius immutabiles regulas, quid sit pro tempore
iubendum vetandumque discernat)». In una società secolarizzata, nella quale non
tutti riconoscono il segno di questa legge eterna, la ricerca, la difesa e
l’espressione del diritto naturale mediante la legge positiva ne garantiscono la
legittimità.
(86) Cfr Agostino, s., De Civitate Dei, I, 35 [Corpus christianorum, series
latina, 47, 34-35].
(87) Cfr Pio XII, Discorso del 23 marzo 1958, in AAS 25 (1958) 220.
(88) Cfr Pio XI, Enciclica Quadragesimo anno, nn. 79-80.
(89) Cfr anche Gv 1,3-4; 1 Cor 8,6; Eb 1,2-3.
(90) Cfr Gv 3,19-20; Rm 1,24-25.
(91) Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 22. Cfr
Ireneo di Lione, s., Contro le eresie, V, 16,2 [Sources chrétiennes, 153,
216-217]: «Nei tempi anteriori, si diceva certamente che l’uomo era stato fatto
a immagine di Dio, ma ciò non appariva, perché il Verbo era ancora invisibile,
egli a cui immagine l’uomo era stato fatto: del resto, per questo motivo la
somiglianza si era facilmente perduta. Ma quando il Verbo di Dio si è fatto
carne, ha confermato l’una e l’altra: ha fatto apparire l’immagine in tutta la
sua verità, diventando egli stesso quello che era la sua immagine, e ha
ristabilito la somiglianza in modo stabile, rendendo l’uomo del tutto simile al
Padre invisibile per mezzo del Verbo da allora visibile».
(92) Cfr Agostino, s., Enarrationes in Psalmos, LVII, 1 [Corpus christianorum,
series latina, 39, 708]: «Per mano del Creatore, la Verità ha scritto nei nostri
cuori queste parole: “Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te”.
Nessuno poteva ignorare questo principio, anche prima che fosse data la legge,
perché doveva servire a giudicare proprio quelli a cui la legge non era stata
data. Ma per impedire agli uomini di lamentarsi e di dire che era loro mancato
qualche cosa, si è scritto anche nelle tavole quello che essi non leggevano più
nei loro cuori. Non è che non lo possedessero come scritto, ma non volevano
leggerlo. Si pose perciò sotto i loro occhi quello che sarebbero obbligati a
vedere nella propria coscienza: la voce che Dio ha fatto sentire dal di fuori ha
costretto l’uomo a rientrare in se stesso (Quandoquidem manu formatoris nostri
in ipsis cordibus nostris scripsit: “Quod tibi non vis fieri, ne facias alteri”.
Hoc et antequam lex daretur nemo ignorare permissus est, ut esset unde
iudicarentur et quibus lex non esset data. Sed ne sibi homines aliquid defuisse
quaererentur, scriptum est et in tabulis quod in cordibus non legebant. Non enim
scriptum non habebant, sed legere nolebant. Oppositum est oculis eorum quod in
conscientia videre cogerentur; et quasi forinsecus admota voce Dei, ad interiora
sua homo compulsus est)». Cfr Tommaso d’Aquino, s., In III Sent., d. 37, q. 1,
a. 1: «Necessarium fuit ea quae naturalis ratio dictat, quae dicuntur ad legem
naturae pertinere, populo in praeceptum dari, et in scriptum redigi [...] quia
per contrariam consuetudinem, qua multi in peccato praecipitabantur, iam apud
multos ratio naturalis, in qua scripta erant, obtenebrata erat»; Summa theologiae, Ia-IIae, q. 98, a. 6.
(93) Cfr Sir 24,23 (Vulgata: 24,32-33).
(94) Cfr Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 100.
(95) La liturgia bizantina di san Giovanni Crisostomo esprime bene la
convinzione cristiana quando mette sulla bocca del sacerdote che benedice il
diacono nel ringraziamento dopo la comunione: «Cristo nostro Dio, che sei il
compimento della Legge e dei Profeti e che hai compiuto tutta la missione
ricevuta dal Padre, riempi i nostri cuori di gioia e di letizia, in ogni tempo,
ora e sempre, e nei secoli dei secoli. Amen».
(96) Cfr Gal 3,24-26: «Così la Legge è per noi come un pedagogo che ci ha
condotti a Cristo, perché fossimo giudicati per la fede. Ma appena è giunta la
fede, noi non siamo più sotto un pedagogo. Tutti voi infatti siete figli di Dio
per la fede in Gesù Cristo». Sulla nozione teologica di compimento, cfr
Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue sante Scritture nella
Bibbia cristiana, specialmente n. 21.
(97) Cfr Mt 22,37-40; Mc 12,29-31; Lc 10,27.
(98) Cfr Lc 6,27-36.
(99) Cfr Lc 10,25-37.
(100) Cfr Gv 15,13.
(101) Cfr anche Ger 31,33-34.
(102) Cfr Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 106, a. 1: «La
cosa principale nella legge della nuova alleanza, in cui risiede tutta la sua
forza, è la grazia dello Spirito Santo che è data per la fede in Cristo. Ecco
perché la nuova legge è principalmente la grazia stessa dello Spirito Santo, che
è data a quelli che credono in Cristo (Id autem quod est potissimum in lege novi
testamenti, et in quo tota virtus eius consistit, est gratia Spiritus sancti,
quae datur per fidem Christi. Et ideo principaliter lex nova est ipsa gratia
Spiritus sancti, quae datur Christi fidelibus)».
(103) Cfr ivi, Ia-IIae, q. 108, a. 1, ad 2: «Poiché la grazia dello Spirito
Santo è come un abito interiore infuso in noi, che ci inclina a operare
rettamente, ci fa compiere liberamente le opere che convengono alla grazia ed
evitare quelle che le sono contrarie. Così dunque, la nuova legge è detta
doppiamente legge della libertà. Anzitutto perché non ci costringe a compiere o
ad evitare se non gli atti di per sé necessari o contrari alla salvezza, che
sono comandati o vietati dalla legge. Poi perché ci fa compiere liberamente
questi comandi o divieti, in quanto li compiamo per lo stimolo interiore della
grazia. Per questi due motivi, la nuova legge è detta “legge perfetta, legge
della libertà” (Gc 1,25) (Quia igitur gratia Spiritus sancti est sicut habitus
nobis infusus inclinans nos ad recte operandum, facit nos libere operari ea quae
conveniunt gratiae, et vitare ea quae gratiae repugnant. Sic igitur lex nova
dicitur lex libertatis dupliciter. Uno modo, quia non arctat nos ad facienda vel
vitanda aliqua, nisi quae de se sunt vel necessaria vel repugnantia saluti, quae
cadunt sub praecepto vel prohibitione legis. Secundo, quia huiusmodi etiam
praecepta vel prohibitiones facit nos libere implere, inquantum ex interiori
instinctu gratiae ea implemus. Et propter haec duo lex nova dicitur lex
perfectae libertatis, Iac 1,25)».
(104) Id., Quodlibeta, IV, q. 8, a. 2: «La nuova legge, legge della libertà è
costituita dai precetti morali della legge naturale, dagli articoli di fede e
dai sacramenti della grazia (Lex nova, quae est lex libertatis [...] est
contenta praeceptis moralibus naturalis legis, et articulis fidei, et
sacramentis gratiae)».
(105) Giovanni Paolo II, Discorso del 18 gennaio 2002, in AAS 94 (2002) 334.
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