Giacomo Biffi: Sull'immigrazione.
Intervento dell'arcivescovo di Bologna al Seminario della Fondazione
Migrantes, 30 settembre 2000
Premessa
Dovrebbe essere evidente a tutti quanto sia rilevante il tema
dell'immigrazione nell'Italia di oggi; ma credo sia altrettanto
innegabile l'inadeguata attenzione pastorale e lo scarso realismo con
cui finora esso è stato valutato e affrontato. Il fenomeno appare
imponente e grave; e i problemi che ne derivano - tanto per la società
civile quanto per la comunità cristiana - sono per molti aspetti nuovi,
contrassegnati da inedite complicazioni, provvisti di una forte
incidenza sulla vita delle nostre popolazioni.
I generici allarmismi senza dubbio non servono, ma nemmeno le
banalizzazioni ansiolitiche e le speranzose minimizzazioni. Né si può
sensatamente confidare in un rapido esaurirsi dell'emergenza: è
improbabile che tutto si risolva quasi autonomamente, senza positivi
interventi, e la tensione stia per sciogliersi presto quasi come un
temporale estivo, che di solito è di breve durata e non suscita
prolungate preoccupazioni.
A una interpellanza della storia come questa si deve dunque rispondere -
come, del resto, davanti a tutti gli eventi imprevisti e non eludibili
della vicenda umana - senza panico e senza superficialità. Vanno
studiate le cause e va accuratamente indagata l'indole multiforme dell'accadimento;
ma non si può neanche attardarsi troppo nelle ricerche e nelle analisi,
senza mai arrivare a qualche provvedimento mirato e, per quel che è
possibile, efficace, perché i turbamenti e le sofferenze derivanti
dall'immigrazione sono già in atto.
Un fenomeno che ha sorpreso lo Stato
Dobbiamo riconoscere - e può essere un'attenuante - che siamo stati
tutti colti di sorpresa.
È stato colto di sorpresa lo Stato, che dà tuttora l'impressione di
smarrimento; e pare non abbia ancora recuperata la capacità di gestire
razionalmente la situazione, riconducendola entro le regole
irrinunciabili e gli ambiti propri dell'ordinata convivenza civile. I
provvedimenti, che via via vengono predisposti, sono eterogenei e spesso
appaiono contradditori: denunciano la mancanza di una qualche
progettualità e, più profondamente, denotano l'assenza di una corretta
e disincantata interpretazione di ciò che sta avvenendo. Non vediamo
che ci sia una "lettura" abbastanza penetrante dei fatti, tale
che sia poi in grado di suggerire, sviluppare e sorreggere un indirizzo
coerente e saggio di comportamento.
Ha sorpreso anche la comunità ecclesiale
Sono state colte di sorpresa anche le comunità cristiane, ammirevoli in
molti casi nel prodigarsi prontamente ad alleviare disagi e pene, ma
sprovviste finora di una visione non astratta, non settoriale e
abbastanza concorde, in grado di ispirare valutazioni e intenti
operativi che tengano conto di tutte le implicazioni degli avvenimenti e
di tutti gli aspetti della questione. Le generiche esaltazioni della
solidarietà e del primato della carità evangelica - che in sé e in
linea di principio sono legittime e anzi doverose - si dimostrano più
generose e ben intenzionate che utili, se rifuggono dal commisurarsi con
la complessità del problema e la ruvidezza della realtà effettuale.
Anche nella nostra esplicita consapevolezza di pastori, non si ha
l'impressione che il fenomeno dell'immigrazione negli ultimi quindici
anni - nel corso dei quali esso si è amplificato e acutizzato - sia
stato vivo e pungente a misura della sua oggettiva gravità.
Abbiamo avuto in merito due estesi documenti: nel 1990 la Nota pastorale
della Commissione ecclesiale "Giustizia e pace" dal titolo:
Uomini di culture diverse: dal conflitto alla solidarietà; e nel 1993
gli Orientamenti pastorali della Commissione ecclesiale per le
migrazioni dal titolo: Ero forestiero e mi avete ospitato. Ambedue i
testi, molto estesi e analitici, sono più che altro (e doverosamente)
tesi a costruire e a diffondere nella cristianità una "cultura
dell'accoglienza". Manca invece un po' di realismo nel vaglio
delle difficoltà e dei problemi; e soprattutto appare insufficiente il
risalto dato alla missione evangelizzatrice della Chiesa nei confronti
di tutti gli uomini, e quindi anche di coloro che vengono a dimorare da
noi.
Gli auspici del pastore
Vorrei adesso dare consistenza al mio cordiale saluto ai partecipanti di
questo seminario, esprimendo semplicemente alcuni auspici: nascono dalla
riflessione e dal cuore di un vescovo, rivelano più che altro le sue
sollecitudini apostoliche e sono formulati nel rispetto di quanti -
studiosi, operatori sociali, pubbliche autorità - sono chiamati in
causa dalla necessità di dare rapida e sufficiente risposta
all'emergenza che qui prende il nostro interesse.
Non dovrebbe essere inutile che agli esami e alle considerazioni di
natura politica, economica, antropologica, culturale dei competenti (e
prestando ad essi la dovuta attenzione) si aggiunga anche la prospettiva
di chi - essendo a tutti gli effetti cittadino italiano e avendo
l'originale presunzione di poter esporre anche in quanto tale il proprio
parere - si sente soprattutto responsabile del presente e dell'avvenire
del gregge di Cristo che gli è stato affidato; e, tra l'altro, non può
mai dimenticare l'inquietante domanda che il Signore Gesù ha lasciato
senza risposta: "Il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la
fede sulla terra?" (Lc 18,8).
Gli auspici per lo Stato e la società civile
L'auspicio sostanziale che crediamo di dover formulare per lo Stato e la
società civile, è che si chiariscano e siano comunemente accolte
alcune persuasioni previe, sicché ci si accosti al fenomeno
dell'immigrazione provvisti di una "cultura" plausibile
largamente condivisa.
È incontestabile, per esempio, il principio che a ogni popolo debbano
essere riconosciuti gli spazi, i mezzi, le condizioni che gli consentano
non solo di sopravvivere ma anche di esistere e svilupparsi secondo
quanto è richiesto dalla dignità umana. Gli organismi internazionali
sono sollecitati a farsi carico delle iniziative atte a conseguire
questa mèta e non possono perdere di vista questo necessario ideale di
giustizia distributiva generale; e tutto ciò vale - in modo
proporzionato e secondo le reali possibilità - anche per i singoli
stati.
Ma non se ne può dedurre - se si vuol essere davvero "laici"
oltre tutti gli imperativi ideologici - che una nazione non abbia il
diritto di gestire e regolare l'afflusso di gente che vuol entrare a
ogni costo. Tanto meno se ne può dedurre che abbia il dovere di aprire
indiscriminatamente le proprie frontiere.
Bisogna piuttosto dire che ogni auspicabile progetto di pacifico
inserimento suppone ed esige che gli accessi siano vigilati e
regolamentati. È tra l'altro davanti agli occhi di tutti che gli
ingressi arbitrari - quando hanno fama di essere abbastanza agevolmente
effettuabili - determinano fatalmente da un lato il dilatarsi
incontrollato della miseria e della disperazione (e spesso pericolose
insorgenze di intolleranza e di rifiuto assoluto), dall'altro il
prosperare di un'industria criminale di sfruttamento di chi aspira a
varcare clandestinamente i confini.
Progetti realistici complessivi
Ciò che dobbiamo augurare al nostro Stato e alla società italiana è
che si arrivi presto a un serio dominio della situazione, in modo che il
massiccio arrivo di stranieri nel nostro paese sia disciplinato e
guidato secondo progetti concreti e realistici di inserimento che mirino
al vero bene di tutti, sia dei nuovi arrivati sia delle nostre
popolazioni.
Tali progetti dovrebbero contemplare tanto la possibilità di un lavoro
regolarmente remunerato quanto la disponibilità di alloggi dignitosi
non gratuiti: per questa strada si potrà arrivare a un sicuro innesto
entro il nostro organismo sociale, senza discriminazioni e senza
privilegi.
Chi viene da noi deve sapere subito che gli sarà richiesto, come
necessaria contropartita dell'ospitalità, il rispetto di tutte le norme
di convivenza che sono in vigore da noi, comprese quelle fiscali.
Diversamente non si farebbe che suscitare e favorire perniciose crisi di
rigetto, ciechi atteggiamenti di xenofobia e l'insorgere di deplorevoli
intolleranze razziali.
Criteri attuativi
La pratica attuazione di questi progetti obbedirà necessariamente a
criteri che saranno anche economici: l'Italia ha bisogno di forze
lavorative che non riesce più a trovare nell'ambito della sua
popolazione.
A questo proposito, dovrebbero essere tutti ormai persuasi di quanto sia
stata insipiente la linea perseguita negli ultimi quarant'anni, con
l'ossessivo terrorismo culturale antidemografico e con l'assenza di ogni
correttivo legislativo e politico che ponesse qualche rimedio
all'egoistica e stolta denatalità, da molto tempo ai vertici delle
statistiche mondiali. Tutto questo nonostante l'esempio contrario delle
nazioni d'Europa più accorte, più lungimiranti, più civili, che non
hanno esitato a prendere in questo campo intelligenti e realistici
provvedimenti.
La salvaguardia dell'identità nazionale
Ma i criteri di cui si parla non potranno essere soltanto economici e
previdenziali.
Una consistente immissione di stranieri nella nostra penisola è
accettabile e può riuscire anche benefica, purché ci si preoccupi
seriamente di salvaguardare la fisionomia propria della nazione.
L'Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza
tradizioni vive e vitali, senza una inconfondibile fisionomia culturale
e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un
patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare
perduto.
Sotto questo profilo, uno Stato davvero "laico" - che cioè
abbia di mira non il trionfo di qualche ideologia, ma il vero bene degli
uomini e delle donne sui quali esercita la sua attività di
amministrazione e di governo, e voglia loro preparare con accortezza un
desiderabile futuro - dovrebbe avere tra le sue preoccupazioni primarie
quella di favorire la pacifica integrazione delle genti (come si è già
storicamente verificato nell'incontro tra le popolazioni latine e
quelle germaniche sopravvenute) o quanto meno una coesistenza non
conflittuale; una compresenza e una coesistenza che comunque non
conducano a disperdere la nostra ricchezza ideale o a snaturare la
nostra specifica identità.
Bisogna perciò concretamente operare perché coloro che intendono
stabilirsi da noi in modo definitivo "si inculturino" nella
realtà spirituale, morale, giuridica del nostro paese, e vengano posti
in condizione di conoscere al meglio le tradizioni letterarie,
estetiche, religiose della peculiare umanità della quale sono venuti a
far parte.
A questo fine, le concrete condizioni di partenza degli immigrati non
sono ugualmente propizie; e le autorità non dovrebbero trascurare
questo dato della questione.
In una prospettiva realistica, andrebbero preferite (a parità di
condizioni, soprattutto per quel che si riferisce all'onestà delle
intenzioni e al corretto comportamento) le popolazioni cattoliche o
almeno cristiane, alle quali l'inserimento risulta enormemente agevolato
(per esempio i latino-americani, i filippini, gli eritrei, i provenienti
da molti paesi dell'Est Europa, eccetera); poi gli asiatici (come i
cinesi e i coreani), che hanno dimostrato di sapersi integrare con buona
facilità, pur conservando i tratti distintivi della loro cultura.
Questa linea di condotta - essendo "laicamente" motivata - non
dovrebbe lasciarsi condizionare o disanimare nemmeno dalle possibili
critiche sollevate dall'ambiente ecclesiastico o dalle organizzazioni
cattoliche.
Come si vede, si propone qui semplicemente il "criterio
dell'inserimento più agevole e meno costoso": un criterio
totalmente ed esplicitamente "laico", a proposito del quale
evocare gli spettri del razzismo, della xenofobìa, della
discriminazione religiosa, dell'ingerenza clericale e perfino della
violazione della Costituzione, sarebbe un malinteso davvero mirabile e
singolare; il quale, se effettivamente si verificasse, ci insinuerebbe
qualche dubbio sulla perspicacia degli opinionisti e dei politici
italiani.
Il caso dei musulmani
Se non si vuol eludere o censurare tale realistica attenzione, è
evidente che il caso dei musulmani vada trattato a parte. Ed è
sperabile che i responsabili della cosa pubblica non temano di
affrontarlo a occhi aperti e senza illusioni.
Gli islamici - nella stragrande maggioranza e con qualche eccezione -
vengono da noi risoluti a restare estranei alla nostra "umanità",
individuale e associata, in ciò che ha di più essenziale, di più
prezioso, di più "laicamente" irrinunciabile: più o meno
dichiaratamente, essi vengono a noi ben decisi a rimanere
sostanzialmente "diversi", in attesa di farci diventare tutti
sostanzialmente come loro.
Hanno una forma di alimentazione diversa (e fin qui poco male), un
diverso giorno festivo, un diritto di famiglia incompatibile col nostro,
una concezione della donna lontanissima dalla nostra (fino a praticare
la poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente integralista
della vita pubblica, sicché la perfetta immedesimazione tra religione e
politica fa parte della loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche
se aspettano prudentemente a farla valere di diventare preponderanti.
Non sono dunque gli uomini di Chiesa, ma gli stati occidentali moderni a
dover far bene i loro conti a questo riguardo.
Va anzi detto qualcosa di più: se il nostro Stato crede sul serio
nell'importanza delle libertà civili (tra cui quella religiosa) e nei
princìpi democratici, dovrebbe adoperarsi perché essi siano sempre più
diffusi, accolti e praticati a tutte le latitudini. Un piccolo strumento
per raggiungere questo scopo è quello della richiesta che venga data
una "reciprocità" non puramente verbale da parte degli stati
di origine degli immigrati.
Scrive a questo proposito la Nota Cei del 1993: 'In diversi paesi
islamici è quasi impossibile aderire e praticare liberamente il
cristianesimo. Non esistono luoghi di culto, non sono consentite
manifestazioni religiose fuori dell'islam, né organizzazioni ecclesiali
per quanto minime. Si pone così il difficile problema della reciprocità.
E' questo un problema che non interessa solo la Chiesa, ma anche la
società civile e politica, il mondo della cultura e delle stesse
relazioni internazionali. Da parte sua il papa è instancabile nel
chiedere a tutti il rispetto del diritto fondamentale della libertà
religiosa' (n. 34). Ma - diciamo noi - chiedere serve a poco, anche se
il papa non può fare di più.
Per quanto possa apparire estraneo alla nostra mentalità e persino
paradossale, il solo modo efficace e non velleitario di promuovere il
"principio di reciprocità" da parte di uno Stato davvero
"laico" e davvero interessato alla diffusione delle libertà
umane, sarebbe quello di consentire in Italia per i musulmani, sul piano
delle istituzioni da autorizzare, solo ciò che nei paesi musulmani è
effettivamente consentito per gli altri.
Cattolicesimo "religione nazionale storica"
Quanto ai rapporti da intrattenere con le diverse religioni, che sono
presenti tra noi in conseguenza dell'immigrazione, sarà bene che
nessuno ignori o dimentichi che il cattolicesimo - che indiscutibilmente
non è più la "religione ufficiale dello Stato" - rimane
nondimeno la "religione storica" della nazione italiana, la
fonte precipua della sua identità, l'ispirazione determinante delle
nostre più vere grandezze.
Sicché è del tutto incongruo assimilarlo socialmente alle altre forme
religiose o culturali, alle quali dovrà essere assicurata piena e
autentica libertà di esistere e di operare, senza però che questo
comporti un livellamento innaturale o addirittura un annichilimento dei
più alti valori della nostra civiltà.
Va anche detto che è una singolare visione della democrazia il far
coincidere il rispetto degli individui e delle minoranze con il non
rispetto della maggioranza e l'eliminazione di ciò che è acquisito e
tradizionale in una comunità umana. Dobbiamo qui segnalare purtroppo
casi sempre più numerosi di questa, che è una "intolleranza
sostanziale", per esempio quando nelle scuole si aboliscono i segni
e gli usi cattolici per la presenza di alcuni di altre fedi.
Alle comunità ecclesiali
Che cosa diremo di illuminante e di pratico alle comunità cristiane,
che di questi tempi sono per la verità afflitte da poca chiarezza di
idee e da molte incertezze comportamentali?
In primo luogo, deve essere manifesto a tutti che non è per sé compito
della Chiesa come tale risolvere ogni problema sociale che la storia di
volta in volta ci presenta. Le nostre comunità e i nostri fedeli non
devono perciò nutrire complessi di colpa a causa delle emergenze anche
imperiose che essi con le loro forze non riescono ad appianare. Sarebbe
un implicito, ma comunque intollerabile e grave "integralismo"
il credere che le aggregazioni ecclesiali e i cattolici possano essere
responsabilizzati di tutto.
Qualche volta i malintesi sono involontariamente propiziati dalle
pubbliche autorità che, quando non sanno che pesci pigliare, fanno
appello alle nostre supplenze e fatalmente ci coinvolgono (dando in tal
modo implicito riconoscimento che le organizzazioni ecclesiali sono tra
quelle che in Italia riescono ancora a funzionare).
L'annuncio del Vangelo e l'osservanza della carità
Compito primario e indiscutibile delle comunità ecclesiali è
l'annuncio del Vangelo e l'osservanza del comando dell'amore. Di fronte
a un uomo in difficoltà - quale che sia la sua razza, la sua cultura,
la sua religione, la legalità della sua presenza - i discepoli di Gesù
hanno il dovere di amarlo operosamente e di aiutarlo a misura delle loro
concrete possibilità.
Il Signore ci chiederà conto della genuinità e dell'ampiezza della
nostra carità e ci domanderà se abbiamo fatto tutto il possibile. Su
questo però - sarà bene che nessuno se lo dimentichi - noi siamo
tenuti a rispondere non ad altri, ma solo al Signore.
Non surrogabilità dell'evangelizzazione
Dovere statutario della Chiesa Cattolica e compito di ogni battezzato è
di far conoscere esplicitamente Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio morto
per noi e risorto, oggi vivo e Signore dell'universo, unico Salvatore di
tutti.
Tale missione può essere coadiuvata ma non surrogata dall'attività
assistenziale che riusciremo a offrire ai nostri fratelli. Suppone la
nostra attitudine al dialogo sincero, aperto, rispettoso con tutti, ma
non può risolversi nel solo dialogo. E' favorita dalla conoscenza
oggettiva delle posizioni altrui, ma si avvera soltanto nella conoscenza
di Cristo cui noi riusciamo a portare i nostri fratelli, che
sventuratamente ancora non ne sono gratificati.
Inoltre l'azione evangelizzatrice è di sua natura universale e non
tollera deliberate esclusioni di destinatari. Il Signore non ci ha
detto: "Predicate il Vangelo ad ogni creatura, tranne i musulmani,
gli ebrei e il Dalai Lama" (cf Mc 16,15). Chi ci contestasse la
legittimità o anche solo l'opportunità di questo annuncio illimitato e
inderogabile, peccherebbe di intolleranza nei nostri confronti: ci
proibirebbe infatti di essere quello che siamo, vale a dire
"cristiani"; cioè obbedienti alla chiara ed esplicita volontà
di Cristo.
E' molto importante che tutti i cattolici si rendano conto di questa
loro indeclinabile responsabilità. E per essere buoni evangelizzatori,
persuasi dentro di sé e persuasivi nei confronti degli altri, essi
devono crescere sempre più nella intelligenza e nella gioiosa
ammirazione degli immensi tesori di verità, di sapienza, di consolante
speranza che hanno la fortuna di possedere: è una effusione sovrumana,
anzi divinizzante di luce, assolutamente inconfrontabile con i pur
preziosi barlumi offerti dalle varie religioni e dall'Islam; e noi siamo
chiamati a proporla appassionatamente e instancabilmente a tutti i figli
di Adamo.
Approccio realisticamente differenziato
Le comunità cristiane - in funzione di un approccio sapiente e
realistico al fenomeno dell'immigrazione - non possono non valutare
attentamente i singoli e i gruppi, in modo da assumere poi gli
atteggiamenti più pertinenti e più opportuni.
Agli immigrati cattolici - quale che sia la loro lingua e il colore
della loro pelle - bisogna far sentire nella maniera più efficace che
all'interno della Chiesa non ci sono "stranieri": essi a
pieno titolo entrano a far parte della nostra famiglia di credenti, e
vanno accolti con schietto spirito di fraternità.
Quando sono presenti in numero rilevante e in aggregazioni omogenee
consistenti, andranno sinceramente incoraggiati a conservare la loro
tipica tradizione cattolica, che sarà oggetto di affettuosa attenzione
da parte di tutti. La compresenza di queste diverse "forme" di
vita ecclesiale e di culto autentico costituirà senza dubbio un
arricchimento spirituale per l'intera cristianità.
Ai cristiani delle antiche Chiese orientali, che non sono ancora nella
piena comunione con la Sede di Pietro, esprimeremo simpatia e rispetto.
E, in conformità agli eventuali accordi generali e secondo l'opportunità,
potremo favorirli anche dell'uso di qualche nostra chiesa per le loro
celebrazioni.
Gli appartenenti alle religioni non cristiane vanno amati e, quanto è
possibile, aiutati nelle loro necessità. Da alcuni di loro -
segnatamente dai musulmani - possiamo tutti imparare la fedeltà ai loro
esercizi rituali e ai loro momenti di preghiera, ma non tocca a noi
prestare positive collaborazioni alla loro pratica religiosa.
A questo proposito, è utile richiamare quanto è disposto dalla Nota
CEI del 1993, già citata: "Le comunità cristiane, per evitare
inutili fraintendimenti e confusioni pericolose, non devono mettere a
disposizione, per incontri religiosi di fedi non cristiane, chiese,
cappelle e locali riservati al culto cattolico, come pure ambienti
destinati alle attività parrocchiali" (n. 34).
Come si può capire dalla complessità di questa problematica, non è
ammissibile che essa sia affrontata 'in toto' dalla "Caritas
italiana", che ha un ben delimitato campo di valutazione e di
interesse. Sui temi della evangelizzazione, della identità cristiana
del nostro popolo, delle concrete difficoltà pastorali - e dunque sulla
questione della immigrazione globalmente intesa - non dovrebbero esserci
deleghe a nessun particolare organismo ecclesiale.
Conclusione
In un'intervista di una decina d'anni fa, mi è stato chiesto con molto
candore e con invidiabile ottimismo: "Ritiene anche Lei che
l'Europa o sarà cristiana o non sarà?". Mi pare che la mia
risposta di allora possa ben servire alla conclusione del mio intervento
di oggi.
Io penso - dicevo - che l'Europa o ridiventerà cristiana o diventerà
musulmana. Ciò che mi pare senza avvenire è la "cultura del
niente", della libertà senza limiti e senza contenuti, dello
scetticismo vantato come conquista intellettuale, che sembra essere
l'atteggiamento largamente dominante nei popoli europei, più o meno
tutti ricchi di mezzi e poveri di verità. Questa "cultura del
niente" (sorretta dall'edonismo e dalla insaziabilità libertaria)
non sarà in grado di reggere all'assalto ideologico dell'Islam, che non
mancherà: solo la riscoperta dell'avvenimento cristiano come unica
salvezza per l'uomo - e quindi solo una decisa risurrezione dell'antica
anima dell'Europa - potrà offrire un esito diverso a questo inevitabile
confronto.
Purtroppo né i "laici" né i "cattolici" pare si
siano finora resi conto del dramma che si sta profilando. I
"laici", osteggiando in tutti i modi la Chiesa, non si
accorgono di combattere l'ispiratrice più forte e la difesa più valida
della civiltà occidentale e dei suoi valori di razionalità e di libertà:
potrebbero accorgersene troppo tardi. I "cattolici", lasciando
sbiadire in se stessi la consapevolezza della verità posseduta e
sostituendo all'ansia apostolica il puro e semplice dialogo a ogni
costo, inconsciamente preparano (umanamente parlando) la propria
estinzione.La speranza è che la gravità della situazione possa a un
certo momento portare a un efficace risveglio sia della ragione sia
dell'antica fede.
È il nostro augurio, il nostro impegno, la nostra preghiera.