Rev.do don Nicola Bux,
ci è sembrato doveroso prendere in seria
considerazione la sua ultima pubblicazione
La
riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra
innovazione e tradizione, che appare come la
continuazione dell’appello che lanciò
sull’Osservatore Romano il 18 novembre dello
scorso
anno, quando invitò a «confrontarsi senza
alcun pregiudizio» sulla liturgia. Da allora
i suoi
sforzi sono sempre andati nella direzione di
offrire un contributo di verità per uscire
dalla
crisi liturgica (e dottrinale) che sta
attraversando la Chiesa cattolica. È un
appello che non si
può lasciar cadere, perché finalmente, dopo
anni di riduzione al silenzio di quanti non
fossero d’accordo con la vulgata liturgica,
una voce autorevole, a seguito di quella del
Sommo
Pontefice, esce dagli schemi patrocinati
sembra dalla corte celeste: almeno da Sant’Anselmo
e
Santa Giustina. Lei è un uomo di spirito:
siamo certi che saprà sorridere, senza
vedere in
questa battuta alcuna polemica.
Il primo grande merito del suo libro: aver
portato all’attenzione del grande pubblico,
rinunciando a stile e dimensioni
accademiche, i dissensi intestini alla
riforma liturgica, particolarmente accennando all’opposizione
del Cardinale Ferdinando Antonelli ai diktat
di Bugnini. La liturgia è oggi «un campo di
battaglia», per usare una sua espressione,
perché tale è stata fin dall’inizio della sua riforma.
Il secondo merito e non lo affermiamo per
una mera captatio benevolentiae è racchiuso nei
capitoli primo (La sacra e divina liturgia),
secondo (A chi ci avviciniamo con il culto divino) e
sesto (Come incontrare il mistero), che
costituiscono una bella e profonda introduzione
all’essenza dello spirito liturgico. Sono
questi dei capitoli che ogni sacerdote ed ogni fedele dovrebbe
leggere e meditare. E non possono che
allietare le considerazioni sull’essenziale verticalità
della liturgia, da riguadagnare anche a
partire dalla vexata quaestio del versus liturgico, quell’orientamento
verso oriente tutt’uno con l’orientamento verso la croce, per
significare nuovamente la centralità di
Nostro Signore Gesù Cristo e del Suo Sacrificio. Ora, lei
riconosce, ed il suo libro ne è chiara
testimonianza, che il Rito tridentino ha saputo incarnare
in modo eccellente l’autentico spirito
liturgico; tuttavia una delle sue tesi di fondo è che
anche «la riforma liturgica nel suo insieme,
comprese le parti già attuate, possono
essere riesaminate alla luce del vero
spirito della liturgia» (p. 59). Lei auspica dunque un
movimento degli estremi verso il centro: «Se
quanti amano o scoprono la precedente tradizione
liturgica devono anche convincersi del
valore e della santità del nuovo rito, tutti gli
altri dovrebbero riflettere sul fatto che
nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma
nessuna rottura» (pp. 45-46). È su questo
punto che vorremmo soffermarci e confrontarci,
partendo dalle sue affermazioni e cercando
di seguirne la logica interna, che ci porterà
però ad una conclusione diversa dalla sua,
riconoscendo nel contempo che la sua
conclusione sia naturale per un buon
cattolico, al quale ripugna a ragione l’idea di una rottura
nello sviluppo della liturgia. Ma sono i
fatti, che lei ha mostrato e che noi semplicemente
riproporremo e arricchiremo, sono i fatti
dunque a mostrare il vero volto del nuovo rito. Ed
una precisazione previa è d’obbligo: non
prenderemo in esame gli abusi illegali, come le messe
rock, o quelle stile pic-nic o altre
pagliacciate di questo genere. Non ci soffermeremo troppo
nemmeno sugli abusi legalizzati, ossia la
Comunione ricevuta in piedi, sulla mano,
l’uso esclusivo della lingua volgare, etc.
Sappiamo bene che tutto questo non è contemplato nel
Novus Ordo, ma è frutto di aggiustamenti successivi e di un dinamismo liturgico che
pretende essere sempre vivo e operante.
Tuttavia anche questi elementi devono essere
considerati come il frutto della riforma
liturgica, così come è stata concepita e di fatto realizzata
da Bugnini & C. Rimandiamo al seguito della
lettera per argomentare quest’ultima
affermazione, grave senz’altro, ma non
frutto di fantasia né di pregiudizio.
Il principio guida
Nelle nostre considerazioni ci facciamo
guidare dalla sua brillante spiegazione del
termine riforma: «Si sa che non c’è contenuto senza
forma; da quando Dio si è fatto uomo, non
c’è verità che non abbia una forma che lo
richiami. Ri-forma vuol dire migliorare la
forma o cambiarla? Non sembra univoco il senso.
Secondo i Padri della Chiesa è da rinnovare
sempre. Ma la riforma non può essere intesa
nel senso di una ricostruzione secondo i
gusti del tempo. La riforma, secondo Michelangelo,
è quella dell’artista che libera l’immagine
dal materiale da cui è ostruita; l’immagine è
già presente nel marmo e non c’è che da
eliminare le incrostazioni che si sono depositate nei
secoli. Riforma è togliere ciò che offusca
affinché divenga visibile la forma nobile, il volto
della Chiesa e insieme con essa anche il
volto di Gesù Adottato per la liturgia il termine
riforma può essere accettabile o meno:
accettabile se la forma corrisponde al contenuto, non se la
forma indica un altro contenuto» (p. 49). In
questo brano c’è tutto: riformare significa
fare in modo che la forma esprima il
contenuto nel modo migliore possibile, tenendo fermo che
tale contenuto non è a disposizione dei
gusti del tempo. Il volto della Chiesa e di Gesù
Cristo non sono vendibili sul mercato dei
gusti e delle sensibilità storiche. Il suo principio guida
è perfettamente sulla scia di quello che
diede Pio XII nella meravigliosa enciclica Mediator
Dei: «La gerarchia ecclesiastica ha sempre
usato di questo suo diritto in materia liturgica
disponendo ed ordinando il culto divino ed
arricchendolo di sempre nuovo splendore e
decoro a gloria di Dio e per il vantaggio
dei fedeli. Non dubitò inoltre salva la sostanza
del sacrificio eucaristico e dei sacramenti
di mutare ciò che non riteneva conforme,
aggiungere ciò che meglio sembrava
contribuire all’onore di Gesù Cristo e della Trinità
augusta, e all’istruzione e stimolo salutare
del popolo cristiano». Non abbiamo nessuna remora a
sottoscrivere questo testo; noi riconosciamo
alla gerarchia il diritto di intervenire in
materia liturgica e tale riconoscimento è
stato da noi mostrato nei fatti. Quella di san Pio V non
fu una riforma? Anche gli stessi interventi
più recenti in materia liturgica, quali quelli
da lei stesso ricordati, fino al messale del
1962, sono stati da noi accolti con filiale obbedienza.
Il problema non è dunque nella liceità della
riforma liturgica, ma nella riforma specifica che è
seguita al Concilio e si è concretizzata nel
messale di Paolo VI. Questa riforma non è in linea
con il principio guida ammesso sia da noi
che da lei e pertanto non può essere paragonata alle
altre riforme che l’hanno preceduta. Non
possiamo concordare quando, richiamandosi alla
lettera del Santo Padre che ha accompagnato
il Motu Proprio Summorum Pontificum, lei afferma che
il messale del 1962 e quello di Paolo VI
sono «due stesure conseguenti, come altre volte è
avvenuto nei secoli, allo sviluppo
dell’unico rito, infatti chi conosce la storia dei
libri liturgici sa che in occasione della
loro ristampa sono stati emendati e arricchiti di
formulari per messe, benedizioni ecc.» (p.
62). Non possiamo essere d’accordo, perché non
possiamo negare la realtà, quella realtà che
lei stesso ha richiamato in più punti del suo libro e
che ora intendiamo ripercorrere.
«Una riforma decisamente radicale»
Citiamo dal suo libro: «Purtroppo il messale
di Paolo VI non contiene tutto quello di Pio
V - se si sta alle edizioni nelle lingue
nazionali - inoltre lo ha mutato in più
punti aggiungendo nuovi testi» (p. 72). E poco oltre: «È vero
che il papa Paolo VI intendeva restaurare
semplicemente il rito di san Pio V ovvero la
liturgia di san Gregorio, ma, purtroppo gli
esperti in una prima fase presero il
sopravvento fabbricando un’altra cosa.
Quando il Papa se ne accorse, abbiamo visto cosa accadde;
intanto, come si suol dire, i buoi erano
scappati dalla stalla. Proprio questo svarione ha
prodotto la frattura perché ha svelato che
non tutto era andato per il verso giusto» (pp. 72-73).
Ecco, appunto. Quello che Paolo VI corresse
è in definitiva il noto paragrafo 7 dell’Institutio
generalis del 1969, forse a seguito del
Breve esame critico degli eminentissimi cardinali
Ottaviani e Bacci o di un intervento presso
Paolo VI del Cardinal Journet. Certamente si
trattò di una correzione importante; ma a
cosa servì cambiare quella definizione di Messa se si
lasciò inalterato il nuovo messale che di
quella definizione è l’espressione? Il
summenzionato Breve esame critico non
rivolse la propria denuncia solo verso quel punto dell’Institutio,
ma verso il Novus Ordo «sia nel suo insieme
come nei particolari», affermando che si
trattava di «un impressionante
allontanamento dalla teologia cattolica della Santa
Messa»(1). I buoi erano ormai scappati, come
lei ci ricorda, ed il messale di Paolo VI è il
frutto di questa fuga che non è stata
fermata in tempo. È tempo di mostrare che la forma del nuovo
messale non corrisponde al contenuto
cattolico, ma ad un altro contenuto e dunque, seguendo
il principio guida che lei ci ha fornito,
non si è trattato di una riforma ma di una
rivoluzione. In un’intervista(2) rilasciata
da Andrea Rose, Canonico titolare della cattedra di Namur
(Belgio) e consultore del Consilium ad exequendam constitutionem de sacra liturgia,
il cui segretario era mons. Annibale Bugnini,
abbiamo la conferma che la mente della
riforma liturgica fu proprio Bugnini: «Ciò
che so, è che mons. Martimort non era molto d’accordo
con lui [Bugnini]. Egli lo criticava tutte
volte che era assente. Mi diceva: "Questo Bugnini
fa ciò che vuole!". Un giorno mi ha detto:
"Sapete, Bugnini ha fatto una buona scuola
media". Era questo il giudizio di Martimort
su Bugnini. All’inizio credevo che esagerasse,
ma poi mi sono reso conto che aveva ragione.
Bugnini non aveva alcuna profondità di
pensiero. Fu una cosa grave designare per un
posto simile una persona che era come una
banderuola. Ma si rende conto? La cura della
liturgia lasciata a un pover’uomo come quello, un
superficiale». Ed aggiunge: «Bugnini era
sempre dal Papa, per informarlo. Un giorno, era
all’inizio, quando i problemi non erano
ancora così gravi, ero in piazza San Pietro col Padre
Dumas. Abbiamo incontrato Bugnini, che ci ha
indicato le finestre dell’appartamento di
Paolo VI, dicendo: "pregate, pregate perché
ci sia conservato questo Papa!". E questo perché
egli manovrava Paolo VI. Andava da lui per
fargli rapporto, ma gli raccontava le cose
come piaceva a lui. Poi ritornava, dicendo:
"Il Santo Padre desidera così, il Santo Padre
desidera cosà". Ma era lui che,
sottobanco...». Affermazioni pesanti, certamente, ma che
collimano con quelle del Cardinale Antonelli
da lei riportate e che rivelano principalmente il
peso determinante che ebbe Bugnini nella compilazione del nuovo messale. Ma Bugnini
non era certamente il solo; il Cardinale Antonelli non fa mistero che il clima che
prevaleva nel Consilium era tutt’altro che
rassicurante: spirito di critica ed
insofferenza verso la Santa Sede,
razionalismo, nessuna preoccupazione per la vera pietà,
impreparazione teologica Non stupisce allora
il risultato, che ha solo la maschera di un ritorno alle
fonti liturgiche, come rivela ancora don
Rose: «Certuni, nel Consilium, volevano il ritorno
alla tradizione principale quando faceva
loro comodo. Francamente, che si potessero
effettuare delle piccole riforme, d’accordo,
ma ciò che si è fatto è stato decisamente
radicale». La riforma detta di Paolo VI non
ha precedenti nella storia liturgica; nemmeno la riforma
di Lutero, a detta di Mons. Klaus Gamber, fu
così radicale: «La nuova organizzazione della
liturgia, e soprattutto le profonde
modifiche del rito della messa sorte sotto il pontificato
di Paolo VI, e sono anzitempo divenute obbligatorie sono state molto più radicali
della riforma liturgica di Lutero - almeno
in ciò che riguarda il rito esteriore - ed hanno
tenuto meno conto della sensibilità
popolare»(3).
La Messa, vero e proprio sacrificio e la
transustanziazione
Dicevamo che la forma deve esprimere il
contenuto. Le proponiamo una rapida
ricognizione della riforma liturgica per verificare se la
forma del Novus Ordo corrisponde ai
contenuti fondamentali della dottrina sul santo
Sacrificio della Messa. «L’augusto
sacrificio dell’altare non è, dunque, una pura e semplice
commemorazione della Passione e Morte di Gesù Cristo, ma è un vero e proprio sacrificio, nel
quale, immolandosi incruentamente, il sommo
Sacerdote fa ciò che fece una volta sulla
croce, offrendo al Padre tutto Se stesso,
Vittima graditissima»(4). Il Messale di San Pio V
richiama incessantemente questo aspetto,
tanto fondamentale in quanto esso esprime
l’essenza della Santa Messa. E lo fa
principalmente nell’Offertorio e nel Canone.
1. La sostituzione dell’Offertorio.
L’Offertorio ha precisamente la funzione di
anticipare non l’effetto della
consacrazione, ma il suo significato, richiamando così il
sacerdote ed i fedeli all’offerta di loro
stessi, in unione alla Vittima divina. Il tutto nell’antichità
veniva espresso con la sola presentazione
del pane e del vino e la santificazione delle oblate. Nei
secoli questo significato si è tradotto in
una molteplicità di riti. San Pio V,
nell’intento di unificare e regolare le
cerimonie del culto pubblico, scelse quelle formule che meglio
esprimevano il gesto dell’offerta,
significato nel sollevare la patena ed il calice. Nel nuovo
Offertorio non è rimasto più nulla di tutto
questo, neppure il nome Offertorio, sostituito da
Presentazione dei doni ; ed effettivamente
la nuova formulazione non ha nulla a che vedere con
l’intenzione offertoriale. Se ne accorse lo
stesso Paolo VI, ma non apportò alcuna modifica.
Egli fece notare che le formule «sono due
belle espressioni eucologiche, ma che non hanno
alcuna intenzionalità oblativa, se si
tolgono i due incisi [proposti dal Papa, n.d.A.]: quem
tibi offerimus , quod tibi offerimus; non
sono, senza di essi, formule dell’offertorio.
Perciò sembra che tali due incisi diano
valore specifico d’offerta al gesto e alle parole». Ma, a
riprova della dittatura di Bugnini e del
Consilium, il Papa aggiunse: «Tuttavia si rimette la
decisione circa la loro permanenza o la loro
soppressione al giudizio collegiale del Consilium»(5). Dunque anche Paolo VI è
concorde con noi nel dire che l’Offertorio del
Novus Ordo
semplicemente non è un offertorio L’aggiunta
delle due formule suggerite dal Papa ha
finito per aggravare la situazione: pane e
vino sono offerti a Dio in luogo dell’unica offerta a
Lui gradita, quella del Corpo e del Sangue
del suo Figlio, e l’uomo si dichiara capace di
offrire a Dio i frutti del proprio lavoro;
l’Eucaristia come sacrificio non è contemplata nelle due
formule di presentazione dell’ostia e del
vino, che invece rinviano subito l’attenzione
sull’Eucaristia come sacramento («perché
diventi per noi cibo di vita eterna»; «perché diventi per
noi bevanda di salvezza»). L’elemento
sacrificale risulta così non negato, ma certamente posto
in ombra, a grave danno della fede di chi
celebra e di chi assiste. L’Offertorio romano è
stato devastato con delle pseudo-motivazioni,
che manifestano l’assenza di formazione
teologica e sensibilità liturgica da parte
di molti membri del
Consilium. È ancora don Andrea Rose a
dirci come andarono i fatti: «Coloro che si
sono occupati della Messa sono stati ancora più
radicali di quanto lo fummo noi nell’Ufficio
Divino. Basta vedere come è stato quasi
eliminato l’Offertorio. Dom Capelle non
voleva alcun Offertorio. Si parla come se il
sacrificio fosse già compiuto. Si rischia di
credere che tutto è stato già fatto , diceva. Non si
rendeva conto che tutte le liturgie
contengono una anticipazione come quella, Ci si pone già
nella prospettiva del compimento. Domanda:
Non si tratta della mancanza di una prospettiva
finalista? Risposta: Sì, e allora si è
finito col sopprimere tutto, tutto quello che era
preghiera nell’Offertorio, perché, si
diceva, non si tratta ancora del sacrificio. Ma, insomma,
qui siamo di fronte a delle posizioni molto
razionaliste! Una mentalità da scolaresca!
Domanda: Nella sua esperienza pastorale ha
notato che i fedeli avessero creduto che le
oblate fossero già state consacrate? Vale a
dire: ha constatato la concretizzazione dei
pericoli sottolineati da dom Capelle?
Risposta: Ma no, ma no. Mai! E poi, basta guardare come si
svolgono i riti orientali. Là è la stessa
cosa. E sarebbe interessante comparare tutte queste
cose».
2. Dal Canone alle Preghiere eucaristiche
Si è riuscito a far di peggio per quanto
riguarda le Preghiere eucaristiche. Accanto
al Canone, riproposto nella Preghiera eucaristica I, ma
con delle variazioni significative che
vedremo più avanti, sono state poste altre anafore
(quattro, più due dette della
riconciliazione). Tutte queste preghiere sono state fatte a
tavolino, compresa la seconda, che del
Canone di Ippolito ha si è no l’ispirazione. E per quale
profondo motivo teologico? Per porre fine «a
secoli di fissismo»(6)! Lei ha ragione quando dice che
«la liturgia è un processo vitale, non il
prodotto di erudizione specialistica» (p. 50). Ora,
le nuove Preghiere eucaristiche sono
precisamente il frutto delle mani di una commissione che,
secondo il giudizio del Cardinale Antonelli
da lei riassunto, era caratterizzato
dall’«incompetenza di molti, sete di novità,
discussioni affrettate, votazioni caotiche pur di
approvare al più presto» (p. 50). È sensato,
secondo lei, mettere fine al Canone (perché di fatto il
Canone non è più canone, norma) che
raccoglie oltre 1500 anni di tradizione liturgica, che,
secondo il Concilio tridentino, è «talmente
puro da ogni errore, da non contenere niente che non
profumi di grande santità e pietà e non
innalzi a Dio la mente di quelli che lo offrono»(7),
perché nelle adunanze del Consilium «c’era
chi sottolineava le difficoltà che l’attuale
Canone comportava per la nuova epoca e
mentalità moderna»(8)? C’è un altro rilievo da fare: Bugnini affermò che nelle tre Preghiere eucaristiche aggiunte, «per quanto
possibile, si è evitato di ripetere
concetti, parole e frasi del canone romano»(9). Ma allora che cosa si
esprime in quelle preghiere eucaristiche? Se
il Canone raccoglie ed esprime la tradizione
liturgica sul Santo Sacrificio, armonizzando
meravigliosamente l’impetrazione, il
ringraziamento, la supplica, l’espiazione,
che cosa resta nelle altre Preghiere eucaristiche?
3. L’abominazione nel luogo sacro: la
modifica della formula di consacrazione
C’è un altro aspetto, che interessa anche la
Preghiera eucaristica I e che colpisce
direttamente l’azione sacrificale della consacrazione. Si
tratta della modifica della forma della consacrazione; anche in questo caso, Bugnini
agì di testa sua, contrariamente
all’indicazione del Papa, che chiese di lasciare immutato il
Canone e di aggiungere altre due o tre
anafore da usare in alcuni tempi(10). In primis, quella
che veniva chiamata consacrazione, nel nuovo
messale è divenuta il racconto
dell’istituzione ; ed il nuovo titolo ci
fornisce, purtroppo, l’autentica chiave di lettura delle
modifiche della formula consacratoria.
L’aggiunta delle parole: «Prendete e mangiatene tutti» e
«Prendete e bevetene tutti», che nel Messale
di san Pio V sono chiaramente distinte dalla vera e
propria formula di consacrazione sia per il
punto fermo che le segue che per la differenza dei
caratteri tipografici, permettono di
considerare la consacrazione più come memoriale narrativo
che come vero e proprio sacrificio reso presente esattamente per mezzo della formula
pronunciata dal sacerdote. Anche l’«hunc praeclarum calicem» è divenuto semplicemente
«il calice»; ma mentre nel primo caso si sottolinea l’azione
in persona Christi, per
cui quel calice dell’ultima cena è questo
calice, nel secondo caso questa sottolineatura è omessa,
favorendo ancora una volta lo stile
narrativo. Lei sa bene come nella liturgia ogni parola,
usata o non usata, ogni gesto, ogni silenzio
hanno un valore e veicolano un’idea teologica.
Bugnini & C. sono passati come un uragano,
mettendo sottosopra una formula consacratoria che mai
nessuno aveva osato alterare. Veramente qualcuno l’aveva mutata: i protestanti; e se
si va a prendere il loro testo di racconto
della Cena, essi hanno precisamente il medesimo
testo presente nel nuovo Messale. È
veramente incredibile la presunzione di Bugnini quando
afferma che la formula consacratoria
presente nel Canone «è per se stessa gravemente
incompleta dal punto di vista della teologia
della messa»(11)! Non meno incredibili sono le
motivazioni addotte per la rimozione del «mysterium fidei» dalla formula
consacratoria, prima dell’acclamazione
dell’assemblea: «non è biblica; si trova solo nel canone
romano; è di origine e significato incerti;
gli stessi periti discutono sul senso preciso di queste
parole. Anzi, alcuni le intendono in senso
addirittura pericoloso perché la traducono:
segno per la nostra fede; interrompe la
frase e ne rende difficile il senso e la
traduzione»(12). E invece quel «mysterium
fidei» posto immediatamente dopo la consacrazione del
vino, ha un valore enorme, perché afferma
che è appena avvenuta l’immolazione, per mezzo
della doppia consacrazione, che è il mistero
dei misteri della nostra santa fede. C’è poi
l’aggiunta delle acclamazioni
dell’assemblea, secondo tre differenti formulari. A parte
l’inopportunità di inserire in questo punto
un’acclamazione, che interrompe la sacralità del silenzio,
occorre notare che le prime due formule («Annunciamo la tua morte...», e «Ogni volta
che mangiamo...») sono davvero molto pericolose, perché spostano l’attenzione dei
fedeli alla «seconda venuta del Cristo alla
fine dei tempi proprio nel momento in cui Egli è
veramente, realmente e sostanzialmente presente sull’altare»(13), allorché si parla
dell’«attesa della tua venuta». Inoltre la
formula «Ogni volta che mangiamo...» è del tutto
inadeguata e nociva al senso del sacrificio
appena compiuto. Infatti non sottolinea che è la
consacrazione ad «annunciare (nel senso di
rendere presente) la tua morte, Signore», bensì il
«mangiare il pane e bere il calice». Questa
acclamazione ha un sapore fortemente
protestante.
4. Ancora modifiche
A tutte queste modifiche si aggiungano anche
l’eliminazione della quasi totalità dei
segni di croce fatti dal celebrante sulle oblate,
sulle e con le specie consacrate, per
indicare che le specie che si hanno davanti sono realmente
la Vittima di cui si parla. Le genuflessioni
sono state ridotte da sei a due e sono state
tolte quelle tanto importanti che il
sacerdote fa appena terminate le parole di consacrazione del
pane e del vino. Non è più presente nemmeno
la preservazione delle dita del sacerdote dopo
la consacrazione e la loro purificazione nel
calice, il che affievolisce ancora di più il senso
della presenza sostanziale di Cristo in ogni
frammento eucaristico. Sono state omesse
anche le precise e riverenti prescrizioni
nel caso in cui l’Ostia consacrata abbia a cadere. La
purificazione dei vasi sacri può essere
posticipata E si potrebbe continuare. È chiaro che la
nuova forma non esprime più in modo adeguato
l’essenza sacrificale della Messa e la
presenza sostanziale di Nostro Signore. Non
diciamo che neghi questi aspetti, ma certamente non li
significa più in modo adeguato, aprendo così
la strada a ciò che di fatto è avvenuto e che è
denunciato da lei stesso.
La glorificazione di Dio
E dopo l’essenza della Messa, passiamo a
considerarne le finalità, la prima delle
quali è senza dubbio la glorificazione della SS.ma Trinità
per mezzo di Nostro Signore Gesù Cristo. La
liturgia ha principalmente e sostanzialmente
una dimensione verticale e tutto il rito
deve esprimere e favorire questo orientamento.
Nel nuovo messale la finalità ultima della
liturgia (e di ogni cosa) è quasi scomparsa. Il
Gloria Patri nell’antifona all’Introito è
stato omesso; il Gloria in excelsis Deo è recitato meno
frequentemente; solo la Colletta termina con
la formula trinitaria («Per il nostro Signore Gesù Cristo...»), mentre le altre orazioni
concludono semplicemente con «Per Cristo
nostro Signore»; la medesima conclusione è
stata tolta anche dopo le tre preghiere che
preparano alla Santa Comunione e dopo il
Libera nos Domine che segue il
Pater noster; la
bellissima preghiera dell’Offertorio Suscipe,
Sancta Trinitas, bellissimo compendio della
finalità del santo Sacrificio è abolita; il
Prefazio della SS.ma Trinità non è più recitato tutte le
domeniche ma solo il giorno della Solennità
della SS.ma Trinità; è stato rimosso anche il
Placeat tibi, Sancta Trinitas, al termine
della Messa. Anche in questo caso siamo di fronte ad una
vera e propria devastazione che priva i
sacerdoti ed i fedeli di quell’abituale riferimento
alla gloria della SS.ma Trinità, che è il
fine della vita e di tutte le cose.
La propiziazione e l’espiazione
«L’aspetto più evidente di questa
rielaborazione [delle orazioni, n.d.A.]
è la
quasi totale soppressione delle espressioni relative al
peccato e al male (peccata nostra, imminentia pericula, mentis nostrae tenebrae),
e di
quelle relative alla necessità di redenzione
e perdono (puriores, mundati, reparatio nostra,
purificatis mentibus)»(14). È la necessaria
conseguenza del principio di Bugnini, riportato più
sopra, di rivedere ciò che non è conforme ai
tempi moderni. L’idea di essere peccatori,
profondamente debitori verso Dio, meritevoli
dei Suoi castighi, radicalmente incapaci di riparare
da noi stessi il debito contratto dai nostri
peccati è quanto di meno accettato dall’uomo di
sempre, e particolarmente quello moderno. E
così i tagli fioccano! Prima vittima è
l’implorazione «Deus tu conversus
vivificabis nos» nelle preghiere ai piedi dell’altare, seguita
dalle due orazioni che il sacerdote recita
quando è salito all’altare (Aufer a nobis e
Oramus te,
Domine), nelle quali domanda a Dio di
allontanare le proprie iniquità e perdonare i propri
peccati. Il Confiteor non è più recitato dal
sacerdote profondamente inchinato e dai fedeli in
ginocchio, entrambe espressioni di umiltà e
supplica. Con l’abolizione dell’Offertorio, sono
sparite anche le due suppliche di
accettazione dell’offerta immacolata «pro innumerabilibus
peccatis et offensionibus et negligentiis
meis», come pure l’espressione «tuam deprecantes
clementiam». Il gesto di stendere le mani
sull’ostia ed il calice, che indica il gesto
del Sommo Sacerdote che caricava dei nostri
peccati la vittima che stava per essere immolata,
nelle Preghiere eucaristiche del nuovo
Messale viene associato all’invocazione dello
Spirito Santo, smarrendo così il significato
espiatorio del Sacrificio di Cristo. Anche i riti appena
precedenti la Santa Comunione, che aiutano
il sacerdote ed i fedeli a ravvivare
disposizioni interiori di contrizione sono
stati sensibilmente modificati. Per entrambi il
Domine non sum
dignus oltre alla variazione del testo è
stato ridotto da tre ad uno soltanto, laddove
invece la ripetizione permette una sempre
maggior consapevolezza della propria indegnità
dinanzi a tanto mistero.
La sacralità
Anche su questo aspetto ci sarebbe molto da
dire. Ci basti in questa lettera trarre
qualche spunto da quanto lei scrive in quel bel
primo capitolo sulla Sacra e divina
liturgia: «Il sacro nella messa antica è presente e si esprime
anche nei segni di croce e nelle
genuflessioni. Nel silenzio dei fedeli durante la preghiera
eucaristica, non gridata ma pronunciata submissa voce a voler così significare anche il gesto
di sottomissione e di umiliazione, dinanzi a
Dio, della nostra voce» (p. 23). E poi aggiunge
profonde considerazioni sulla lingua sacra.
Lei sa come tutto questo è sparito. Se c’è un
rimprovero generale che si può fare alla
Messa riformata è che essa vuol far capire troppo.
Il leitmotiv è che tutti devono capire tutto
e subito. Il sacerdote deve sempre parlare ad
alta voce, i fedeli devono parlare, le
letture devono essere moltiplicate, la lingua deve
essere capita, ecc. E c’è sempre meno spazio
per il silenzio ed il canto sacro, le due
espressioni somme della preghiera e
dell’adorazione. «Razionalità nella liturgia e nessuna
pietà»(15): era questa l’accusa precisa che
muoveva il Cardinal Antonelli. Nulla di più vero. Su
questo aspetto ci sarebbero veramente molte
considerazioni da fare, a partire dai
paramenti, i vasi sacri, gli edifici, il
canto, la lingua, gli atteggiamenti del corpo, etc.
Il sacerdozio
Una delle vittime privilegiate della riforma
liturgica è il sacerdozio (e
conseguentemente l’identità degli stessi sacerdoti e la
fedeltà alla loro vocazione). Le annotazioni
precedentemente fatte sullo slittamento in
senso narrativo della formula di
consacrazione incidono fortemente sull’intenzione del
sacerdote che le pronuncia. Anche a causa
delle carenti indicazioni rubricali circa la
posizione, il tono della voce, ecc., il
sacerdote è sempre meno condotto ad intendere la celebrazione
come actio sacrificalis operata in persona Christi. Il suo ruolo di insostituibile e
necessario mediatore e sacrificatore è stato
poi posto in ombra dalla riforma liturgica sia per la
rimozione di alcuni elementi, che ben
sottolineano la differenza essenziale tra il sacerdote e
l’assemblea dei fedeli, sia per l’eccessiva
e imprecisa insistenza sul sacerdozio comune. Per quanto
riguarda il primo aspetto - l’unico che esamineremo - si veda quello che si è
verificato con l’atto penitenziale. Il
Confiteor, laddove non è sostituito dai formulari alternativi,
viene recitato comunemente dal sacerdote e
dai fedeli, senza alcuna distinzione; il
sacerdote da Pater, diventa uno dei
fratres.
Inoltre è stata omessa la formula di assoluzione, atto
esclusivamente sacerdotale, che anche i
protestanti tolsero nella loro messa riformata. Anche
nelle nuove Preghiere eucaristiche non si
afferma più la distinzione tra il sacrificio offerto
dal sacerdote a cui si associano i fedeli
(«pro quibus tibi offerimus vel qui tibi offerunt»), ma
dice in generale «ti offriamo», oppure nella
Preghiera eucaristica III si parla di «un
popolo che da un confine all’altro della
terra offra al tuo nome un sacrificio perfetto». La formula
di Comunione del sacerdote è divenuta meno
specifica ed è unita a quella dei fedeli. Da
due orazione si è passati ad una; il
sacerdote poi insieme ai fedeli recita per una sola volta
«O Signore, non sono degno» (tralasciamo per
brevità la modifica della formula) e quindi
si comunica con le sole formule «Il Corpo [vel
Sangue] di Cristo mi custodisca per la vita
eterna». Quindi amministra subito la
comunione dei fedeli. In tal modo si distingue sempre
di meno il fatto che la comunione del
Sacerdote è necessaria per il compimento del Sacrificio,
mentre quella dei fedeli, certamente
importante, non è essenziale. Nella nuova impostazione
la comunione del sacerdote è semplicemente
prima di quella dei fedeli, mentre dovrebbe
risultare come parte strutturale e
conclusiva del Sacrificio, poiché è la consumazione della
Vittima divina.
La forma della ri-forma
Alla luce di tutte queste ed altre modifiche
(come la soppressione della Chiesa
trionfante, il biblicismo dell’attuale Lezionario, etc.)
non ci si può esimere dal chiedersi che cosa
sia rimasto della dottrina cattolica sul Santo
Sacrificio della Messa. Si resta ancor più
attoniti allorché si confronti il
Novus Ordo con le
modifiche delle liturgie protestanti e
gianseniste. Di fronte alla realtà dei fatti non possiamo
seguire la sua indicazione per cui «la
riforma liturgica non deve essere messa in
dubbio...» (p. 68). È invece doveroso per la
custodia del tesoro più prezioso che Nostro Signore ci ha
lasciato, per la conservazione del
Sacerdozio cattolico ed infine per la salvaguardia e
l’incremento della fede e pietà dei fedeli,
che si abbia il coraggio di rivedere una riforma che
dimostra di essere fallita. Lei ha affermato
un po’ eufemisticamente: «Se non si può dire che la
riforma liturgica non sia decollata, di
certo ha volato basso, Dunque, restano ombre da
dissipare sul come fu fatta. Si era andati
oltre le intenzioni del concilio? Perciò, si faccia
tregua nella battaglia: ora l’usus antiquior
della messa è tornato a mo’ di specchio accanto al
nuovo. Se alcune nuove forme rituali sono
sembrate un cedimento allo spirito del
mondo, un pacato approfondimento e una
revisione o restituzione delle antiche potrà
allontanare ogni timore» (p. 59). Se è
veramente così, se cioè c’è stato bisogno di far ritornare la
Messa tridentina perché la nuova potesse
ritrovare la sua identità, ciò significa semplicemente
che la riforma ha fallito. Non è stata
ri-forma nel senso da lei e da noi auspicato, ma è stato
il conferimento di una nuova forma alla
Messa, una forma che costituisce «un impressionante
allontanamento dalla teologia cattolica
della Santa Messa»(16). Non è mai capitato nella
storia della liturgia che un Messale
riformato dovesse rifarsi al precedente per poter
recuperare l’autentico spirito liturgico.
Noi celebriamo con il Messale del 1962 e sebbene
abbiamo in somma stima le precedenti
edizioni, non abbiamo bisogno di riferirci ad esse
come ad uno «specchio accanto al nuovo»,
perché il Messale del 1962 ha conservato lo stesso
spirito - e anche la lettera! - dei
precedenti. Con tutto ciò non vogliamo affermare che sia eretico
chi celebra secondo il nuovo rito; ma quel
che è chiaro è che esso favorisce uno spirito ed
una pietà che non sono autenticamente
cattoliche. Piano piano si assorbe una mentalità che non
è più cattolica. E se può essere possibile
che chi celebra la Messa secondo il
Novus Ordo o vi
assiste riesca a conservare uno spirito
cattolico, è però realistico ammettere che ciò avviene
non grazie a quella Messa, ma nonostante
essa. In altri termini se anche la fede cattolica può
essere mantenuta nell’intimo, il rito
liturgico non ne è più l’espressione esterna. È un po’
come quando si entra nelle nuove chiese di
pessima architettura: teoricamente in esse si può
pregare, ma è bene chiudere gli occhi... Non
c’è nulla in queste chiese che aiuta l’anima ad
elevarsi, la mente a raccogliersi, il cuore
a scaldarsi di fuoco soprannaturale. Per questo motivo non
possiamo essere d’accordo con lei quando afferma che «chi celebra secondo l’uso
antico deve evitare di delegittimare l’altro
uso, e viceversa. Quindi non è ammesso un diniego a
celebrare il nuovo per partito preso, non
sarebbe segno di comunione rifiutarsi, per
esempio, di concelebrare con un vescovo che
intendesse farlo secondo il nuovo
messale...» (p. 64). Non possumus! Davvero è
impossibile coniugare questa riforma con la tradizione;
e sottolineiamo ancora il dimostrativo,
perché non è lo sviluppo storico che neghiamo, non
è la saggezza dell’et-et cattolico in quella
meravigliosa sintesi tra «rinnovamento e
tradizione, innovazione e continuità,
attenzione alla storia e consapevolezza dell’Eterno...»
(p. 10), messo in luce da Vittorio Messori
nella Prefazione. Non è questo. Non è forse vero
che il Patrono della nostra Fraternità, cioè
san Pio X, è stato uno dei più grandi riformatori
(anche in ambito liturgico) della storia
della Chiesa? Quello che noi non possiamo accettare è che
questo et-et sia dato hegelianamente, come
sintesi di contraddittori, in una identità
tra il reale ed il razionale. «Salvare i
fenomeni»! Era questo, secondo la profonda lettura di Taylor(17), l’imperativo della filosofia di
Hegel: salvare razionalmente la storia ed i suoi momenti,
affermando idealisticamente che ognuno di
essi è tappa di uno stadio ulteriore. E così Hegel
perde l’essenza delle cose, smarrisce il
criterio di verità o falsità. «Salvare la riforma»
sembra essere il motto di quel nuovo
movimento liturgico che lei auspica nell’ultimo
capitolo. Ma non si era detto di
confrontarsi sulla liturgia «senza alcun pregiudizio»?
Rev.do don Bux, tiriamo le fila di questa
lunga lettera, anzitutto con un invito alla
speranza. Per lei e per noi. Non è impossibile uscire
da questa situazione e forse su questo lei
sarà d’accordo con noi; Nostro Signore non
abbandona mai chi cerca la Sua gloria ed il
bene delle anime. Ma forse non sarà sulla nostra stessa
linea d’onda, allorché le confessiamo che
siamo certi che il ritorno al sacro non si farà
cercando di mettere insieme il Vetus ed il
Novus Ordo. Umanamente può sembrare l’unica via
percorribile per non provocare rotture, a
scandalo della fede di tanti credenti già largamente
provata. Ma non è così. La situazione
liturgica nella Francia del XVIII ed inizio del XIX secolo
non era meno drammatica della nostra.
L’anarchia liturgica era all’ordine del giorno e si
diffondevano riti fai da te , con lo scopo
più che nobile di ritrovare l’autentico spirito liturgico. Dom
Prosper Guéranger, il grande abate di
Solesmes, dopo aver presentato l’incredibile
situazione di quel momento così conclude:
«Tale era dunque lo sconvolgimento di idee nel
diciottesimo secolo che vide dei prelati
combattere gli eretici e nello stesso tempo, per uno zelo
inspiegabile, attaccare la tradizione nelle
sacre preghiere del messale; confessare che la
Chiesa ha una voce propria, e far tacere
questa voce per dare la parola a qualche dottore senza
autorità. Tale fu la sciocca tracotanza dei
nuovi liturgisti, che non si proponevano niente
meno, e ne convenivano, che di ricondurre la
Chiesa del loro tempo al vero spirito di
preghiera; di purgare la Liturgia dagli
elementi poco puri, poco esatti, poco misurati, piatti,
difficili da capire correttamente, che la
Chiesa, nei pii moti della sua ispirazione, aveva
sventuratamente prodotto ed adottato. Per il
più giusto di tutti i giudizi, tale era la barbarie
entro la quale erano caduti i francesi
riguardo al culto divino, essendo stata distrutta l’armonia
liturgica, che la musica, la pittura, la
scultura, l’architettura, che sono le arti tributarie
della Liturgia, la seguirono in una
decadenza che non ha fatto altro che accrescersi negli
anni»(18). Tale era dunque la situazione,
che ha una rassomiglianza impressionante con la nostra.
E come si uscì da questa situazione? Con il
rito romano di sempre, puro e semplice. Lei
chiede una "tregua" sulla liturgia ora che
il Rito tradizionale "è ritornato a casa"; tuttavia
pur cogliendo il suo intento ci sembra che
su questa ipotetica tregua gravi ufficialmente proprio
uno di quei pregiudizi che lei invita ad
evitare: quello di far soffrire al Messale del 1962
condizioni di inferiorità rispetto al
messale di Paolo VI. Le facciamo notare che, mentre oggi si
parla di forma "ordinaria" e
"straordinaria", perfino Mons. Gamber, molti anni or sono,
nel libro già citato (che poté godere della
prefazione di quattro illustri prelati:
Mons. Nyssen, i Cardinali Stickler e Oddi e
l’allora Cardinal Ratzinger) proponeva una tregua in
termini diversi (e in un certo senso
opposti) ai suoi: «La forma della messa attualmente in
vigore non potrà più passare per rito romano
in senso stretto, ma per un rito particolare ad experimentum. Solo l’avvenire mostrerà se
questo nuovo rito potrà un giorno imporsi in
modo generale e per un lungo periodo. Si può
supporre che i nuovi libri liturgici non
resteranno per molto tempo in uso, perché
gli elementi progressisti della Chiesa nel
frattempo avranno certamente sviluppato
nuove concezioni riguardo l’ organizzazione della
celebrazione della messa»(19). In ogni caso
restiamo profondamente convinti che il Rito
tridentino, con l’impianto dottrinale su cui
si fonda, che esprime e che veicola non possa
che evidenziare la sostanziale
incompatibilità del rito di Paolo VI con la dottrina cattolica.
Riteniamo che i due riti possano coesistere
solo se non se ne coglie l’opposta valenza
dottrinale, oppure se ci si basa su una
filosofia che coniuga i contraddittori; una liturgia infatti
presuppone sempre, attraverso e al di là dei
segni che utilizza, una precisa dimensione dottrinale
e spirituale che non può essere in alcun
modo dissociata dal rito stesso. Celebrare in un
modo, credendo in qualcosa di diverso non è
normale e in ultima analisi non sarebbe
nemmeno onesto. Illustriamo la cosa con un
esempio semplice e alla portata di chiunque. Come
può un medesimo sacerdote offrire sullo
stesso altare "La Vittima Immacolata" e il "pane
frutto della terra e del lavoro dell’uomo",
credendo e facendo credere che le due
espressioni si equivalgano? Come può la
medesima istituzione fare suoi due segni così
manifestamente opposti illudendosi di
spiegare l’uno attraverso l’altro senza perdere
ulteriormente la propria identità e senza
aumentare ulteriormente la confusione dei semplici?
Che ci sarebbe in comune tra questo nuovo
linguaggio liturgico e il sì sì-no no
evangelico? Non c’è in noi alcun dubbio che
chiunque si accosti senza pregiudizi al Messale romano
tradizionale possa ripetere l’esperienza che
ebbe dom Guéranger, quando per la prima volta, da
semplice prete, si accostò accidentalmente
al rito romano, egli che di quel rito fino ad
allora era tutt’altro che simpatizzante:
«Malgrado la mia poca simpatia per la liturgia romana,
che d’altronde non avevo mai studiato seriamente, mi sentii subito penetrato dalla
grandezza e dalla maestà dello stile
impiegato in questo messale. L’uso della Sacra
Scrittura, così grave e così pieno
d’autorità, il profumo di antichità che emana questo libro, i suoi
caratteri rosso e nero, tutto ciò mi
trascinava a capire che stavo scoprendo dentro questo
messale l’opera ancora vivente di questa
antichità ecclesiastica per la quale ero appassionato.
Il tono dei messali moderni mi parvero
allora sprovvisti d’autorità e di unzione,
avvertendo l’opera di un secolo e di un
paese e nel contempo di un lavoro personale»(20). È
l’esperienza che auguriamo di cuore a Lei e
a tutti i confratelli del mondo! Con stima.
Note
(1) Lettera a Paolo VI dei Cardinali Ottaviani e Bacci, 1.
(2) L’intervista, pubblicata in lingua
francese da Courrier de Rome del giugno
2004, è integralmente consultabile sul sito
www.unavox.it.
(3) K. Gamber, La Réforme liturgique en
question, 1992, p.42.
(4) Pio XII, Mediator Dei, 20 novembre 1947.
(5) M. Barba, La riforma conciliare dell’«Ordo
Missae», Roma, 2002, p. 214.
(6) A Bugnini, La riforma liturgica
(1948-1975), Roma, 1997, p. 443.
(7) Concilio di Trento, Sessione XXIII, 17
settembre 1562, Decreto e canoni sulla
Messa, c. IV:
(8) M. Barba, La riforma conciliare …, cit.,
p. 137.
(9) A Bugnini, La riforma liturgica…, cit.,
p. 446.
(10) Cfr. ibid., p. 444.
(11) ibid., p. 448.
(12) ibid., pp. 448-449.
(13) Breve esame critico del Novus Ordo
Missae, Le formule consacratorie.
(14) L. Bianchi, Liturgia. Memoria o
istruzioni per l’uso?, Milano, 2002, p. 59.
(15) N. Giampietro, Il Card. Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma
liturgica dal 1948 al 1970, Roma, 1988, p. 234.
(16) Lettera a Paolo VI dei Cardinali Ottaviani e Bacci, 1.
(17) Cfr. C. Taylor, Hegel, Cambridge, 1975,
p. 494.
(18) P. Guéranger, Institution liturgique,
t. II, c. XX, pp. 393-394.
(19) K. Gamber, La Réforme liturgique…, cit.,
p.76.
(20) P. Guéranger, Mémoires
autobiographiques (1805-1833), Solesmes,
2005, p. 81
7/4/2009