Il mese di agosto sarà ricordato in Turchia per due eccezionali avvenimenti
religiosi: il 15, dopo 87 anni, verrà celebrata "la divina Eucaristia" nell'ex
monastero di Sumela, nei dintorni di Trabzon, l'antica Trebisonda, abbandonato
dai monaci nel 1923; e il 19 ne sarà celebrata un'altra nella chiesa armena
della Santa Croce di Akhtamar, edificata su un'isola dello splendido lago di Van,
nell'est del paese.
Il governo turco ha concesso l'autorizzazione, accolta con sorpresa e
soddisfazione dal patriarcato ecumenico di Costantinopoli, che si sta
organizzando perché tutto si svolga tranquillamente, dato che si prevede la
presenza di circa 10 mila ortodossi (7 mila a Van) tra greci e russi, con la
presenza di alcuni uomini politici di questi due paesi.
La televisione greca trasmetterà in diretta l'intera celebrazione perché,
soprattutto i discendenti dei greci che dovettero lasciare il Ponto durante
l'occupazione turca, possano almeno vedere i luoghi in cui vissero i loro
antenati e conoscere uno dei luoghi più significativi dell'ortodossia orientale.
Sumela è infatti conosciuta come la Montecassino d'Oriente perché per quindici
secoli, dal 385 al 1923, è stato il monastero-guida per la salvaguardia della
tradizione, dell'arte, della storia, della cultura greca e della religione in
tutto il territorio del Ponto, i cui abitanti udirono parlare la propria lingua
dagli apostoli a Gerusalemme il giorno di Pentecoste.
Il monastero si trova a 50 km da Trebisonda, tra le gole dell'Altindere
(Torrente d'Oro), a 1.200 metri di altitudine, disteso per 40 metri su un lungo
sperone roccioso del monte Zigana, a picco sull'abisso.
Stando alla tradizione, sarebbe stata la Vergine stessa a indicare il luogo ai
monaci ateniesi Barnaba e Sofronio che, venendo dalla penisola calcidica,
adattarono a celle le grotte più piccole della montagna e a chiesa quella più
grande, esponendovi l'icona più artistica delle tre venerate a quei tempi in
Atene e attribuite a san Luca.
La fama del santuario montano e della santità dei due monaci, morti nel 412
(nello stesso giorno, assicura la tradizione), attirò pellegrini, procurò
offerte e soprattutto richiamò altri monaci, divenendo così il maggior centro
culturale e di pellegrinaggio di tutto il nordest dell'Asia Minore.
Fra l'umile gente che sfidava la montagna pressoché inaccessibile, si mischiò
perfino l'imperatore Giustiniano, di ritorno da una delle sue campagne contro i
Persiani, lasciando un'urna d'argento per conservare le reliquie di san Barnaba
e il testo dei quattro Vangeli scritto su pelle di gazzella.
Nonostante tutto, la montagna si prestava al brigantaggio che non risparmiò
neppure il monastero, depredato e incendiato nel 640, ma ricostruito quattro
anni dopo da Cristoforo di Vazelon, un monaco coraggioso che rianimò i
confratelli e fortificò la costruzione così ingegnosamente che Atanasio di
Trebisonda la riprodusse nell'edificare la Grande Lavra del Monte Athos.
L'esperienza, tuttavia, insegnò ai monaci che per salvarsi dovevano ricorrere a
fortificazioni più sicure, di stile militare; per questo fecero del monastero un
nido quasi inaccessibile, rendendolo un'oasi di pace in mezzo a un crescente
turbinio di guerre e di lotte, consentendogli di raggiungere il massimo
splendore al tempo dell'impero dei Conmeni, signori della vicina Trebisonda.
Nel 1350 Alessio III chiese di esservi incoronato imperatore e vi lasciò un "crisobolo",
un sigillo d'oro. Con lui il monastero divenne un capolavoro di arte bizantina.
Vi fu incoronato anche Manuele III, che lasciò in dono una reliquia della croce,
posta nel tesoro; grande reliquia in un grande reliquiario.
L'attività del monastero non fu interrotta neppure dalla conquista turca nel
1461. Anzi, Mehemet II Fatih (il Conquistatore) lo visitò con molto rispetto,
lasciandovi un "firmano", un decreto imperiale con il quale assicurava ai monaci
la proprietà delle terre circostanti. Alta stima ne ebbe anche Selim I, che vi
si rifugiò durante una battuta di caccia e più tardi vi mandò cinque grosse
candele a spirale, alte quanto la sua persona con gemme e scritte d'oro. Vi
tornò alla vigilia della guerra contro Ismail di Tabriz e una terza volta dopo
la vittoria per consegnare due candelabri d'oro massiccio sottratti al nemico.
Doni e privilegi vennero anche da altri sultani e da vari patriarchi, segno
d'una devozione che metteva la "Panàgia tu Mèlas", la Madonna della Montagna
Nera (il nome Sumela pare derivi proprio da una storpiatura di "tu Mèlas") al di
sopra dello stesso santuario di Santa Sofia di Trebisonda, gloria della città
adagiata sulla sponda del Mar Nero.
La vita di Sumela sembrava intramontabile: fede, arte, tecnica – si dice che un
sistema ingegnoso di comunicazioni consentisse di trasmettere e ricevere notizie
tra il monastero e Trebisonda in soli dieci minuti – e cultura ne avevano fatto
l'anima del Ponto, un punto cardinale dello spirito per i pellegrini, gli
studiosi e gli artisti; i monaci l'avevano trasformato in un balcone pieno di
cielo e non in una sosta nel paesaggio. Le sue porte rossicce parevano tinte del
sangue che salva dalla morte.
Ma nell'inverno tra 1915 e il 1916 il sogno si infranse per la prima volta in
quindici secoli: la guerra costrinse i monaci a lasciare montagna e monastero.
Vi tornarono dopo l'occupazione russa e di nuovo all'indomani dell'armistizio
del 1918. Fu una parentesi di cinque anni, perché la guerra greco-turca del 1923
li allontanò per sempre, mentre mani ignote tentarono di cancellare Sumela con
il fuoco.
La memoria del monastero sopravvive al tempo grazie a studiosi europei che hanno
frugato tra le rovine, riportando alla luce resti di affreschi di sorprendente
freschezza e di intensa spiritualità. Il monaco Ambrosios mise in salvo le
reliquie più preziose murate nella chiesa di Santa Barbara: l'icona della
Vergine fu portata nel monastero di Dovràs, nei pressi di Veroia, in Grecia, e
il manoscritto dei Vangeli nel museo bizantino di Atene.
Non sono pochi, oggi, gli appassionati che affrontano la montagna per visitare i
ruderi dell'antico cimelio tra il verde, così sorprendentemente attaccato alla
montagna che sembra sospeso tra cielo e terra. Anche se i resti di alcune
pesanti finestre sembrano le palpebre della morte, dietro di loro palpitano
ricordi di vita. La biblioteca, i residui della chiesa dell'Assunzione, il
refettorio, le 72 celle dei monaci distribuite su quattro piani, il posto di
avvistamento al quinto piano fremono di ricordi e sono un autentico terrazzo
sull'infinito, cullato dalle acque dell'Altindere che serpeggia tra forre
rocciose.
Guidati dal patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, gli ortodossi
vivranno dunque a Meryemana Monastiri, l'attuale nome turco di Sumela, momenti
di profonda commozione, fieri che così antiche vestigia di fede abbiano
resistito alla furia del tempo e degli uomini.
[Fonte: L'Osservatore Romano 13 agosto 2010]