Olocausto colpa tedesca, ma non solo
Franco Cardini, su Avvenire 31 maggio 2006

In margine ad alcune reazioni alla riflessione del Papa sulla responsabilità o meno dell’intera Germania per la Shoah. Non è corretto addossare tutte le responsabilità a un popolo intero. Perché gli Alleati non intervennero per fermare i treni della morte?

«Dov'era Dio?» Quegli interrogativi del Papa
Gianfranco Ravasi, Avvenire 31 maggio 2006

 

 

Un Papa nella terra del suo predecessore: una terra che per circa mezzo secolo, dal '39 al momento del riscatto, ha conosciuto solo schiavitù e sofferenza. Un prete, un tedesco, sulla terra che i suoi connazionali hanno calpestato e torturato.

Là, nel centro del male eretto a sistema di vita e di governo, nella fatale Auschwitz, il Papa ha parlato per tutta la sua gente e anche per se stesso quando ha chiesto conto - come un cristiano può chiederlo - a Dio stesso del suo silenzio. Il colto e anziano sacerdote, il teologo severo e raffinato, è tornato per un istante il bambino spiritualmente violentato da una ferocia forse ancora più oscena di quella fisica, perché il peccato più orribile al mondo è sempre quello contro lo spirito: ha ripensato al popolo più civile e laborioso d'Europa intossicato dal veleno razzista, alla severa e profonda cristianità tedesca corrotta dal più nichilista dei paganesimi; ha forse pensato a se stesso, bambino, chino sui libri di scuola che avrebbero dovuto trasmettergli il sapere e che si erano piegati a divenir essi stessi strumenti abietti di quella corruzione morale, di quella malattia dello spirito. Quella terribile croce uncinata, così simile - è un antico simbolo che si trova anche nelle catacombe - eppur così opposta alla croce del Cristo.

Ho letto con attenzione i commenti di ieri: quello dolente e misurato di Ernesto Galli della Loggia su «Il Corriere», quello non privo di qualche ambiguità di Lucio Caracciolo su «La Repubblica», quello più duro di Giovanni De Luna su «La Stampa», che mi piacerebbe ridiscutere con lui su un piano specificamente storico. Badate: sto parlando di amici che stimo, e non intendo far polemiche. Mi sembra però anzitutto che si dovrebbe esser molto prudenti anche solo nel riferire certi commenti demenziali, come quello secondo il quale la Germania sarebbe per sua natura un pericolo costante per l'Europa; e poi che un minimo di vigile senso storico non dovrebbe venir mai meno, anche quando si parla di eventi tanto enormi per ignominia che si amerebbe poterci rifugiare in una generale, dura, irremissibile e inflessibile condanna.

Attenzione, soprattutto, al paradosso. Se non si accetta la denunzia del Papa, che accusa i capi nazisti di essere stati una cricca di criminali che hanno traviato e moralmente violentato il popolo tedesco, se si accetta la tesi alla Habermas della responsabilità collettiva, si finisce paradossalmente per trovar delle attenuanti ad Hitler e ai suoi; per sostenere di fatto - pur senza esplicitamente ammetterlo - che davvero il consenso dei tedeschi al nazismo fu sincero e volontario, al limite libero; e insomma, che in fondo la classe dirigente nazista era quella ch'essi meritavano e che ben li rappresentava.

Non fu così. Il nazismo non nacque nelle fumose birrerie bavaresi, non si alimentò di miti neopagani e wagneriani: a tenerlo davvero a battesimo fu il cieco egoismo dei vincitori che con i patti di Versailles, e poi con una serie di angherie internazionalmente imposte, gettarono la Germania nella disperazione e nella fame. Fu anche per colpa di quella cecità che i tedeschi videro un salvatore nel caporale bavarese che additava loro i presunti responsabili primi di quell'obbrobrio negli ebrei; e, se lo seguirono sostanzialmente disciplinati e fedeli sino alla fine, fu perché erano convinti che fra '36 e '39 agli aveva compiuto il "miracolo", aveva restituito loro il pane e la dignità. Pochissimi, più illuminati, capirono qual era in termini di menzogna e di barbarie il prezzo di quel "miracolo".

Bisogna pertanto graduare le responsabilità. Molti tedeschi, certo, fecero la politica dello struzzo: ma avrebbero potuto esser tutti eroi, come i ragazzi della "Rosa Bianca". E davvero decisi, davvero informati come loro? Ma quanti poi - soprattutto nel periodo più duro dello sterminio, fra '42 e '44 - davvero sapevano qualcosa eccedente i "si dice", in un paese dissanguato, con i giovani e gli uomini validi al fronte o morti o prigionieri, in un paese dove ormai la "gente" - togliendo i Gastarbaiter formalmente volontari e gli stranieri arruolati nella Wehrmacht e nelle Waffen SS - era fatta di vecchi, di donne, di bambini ubriachi di fame e di lavoro e folli di terrore per i continui bombardamenti a tappeto? È a questa plebe dolente e miserabile che dal loro pulpito eretto oltre sessant'anni dopo alcuni saggisti vorrebbero insegnar la morale della responsabilità e dell'eroismo? E allora che dire degli Alti Comandi statunitense e britannico, che al contrario sapevano, e che ciò nonostante non alzarono mai le quote d'immigrazione ebraica nei loro paesi, e mai bombardarono sul serio i nodi ferroviari che portavano i convogli di tanta dolente umanità verso le Fabbriche della Morte? L'Olocausto ha macchiato tutta l'Europa, ha disonorato tutta l'umanità: sarebbe troppo comodo addossarne ai soli tedeschi l'intera responsabilità.

Questo ha forse voluto intendere l'Uomo vestito di bianco, commosso fino alle lacrime, quando ha parlato del silenzio di Dio. Queste cose vanno ripensate solo alla luce della pietà. Perché nessuno, nessuno può dirsene davvero del tutto innocente; e non si ha quindi il diritto di fomular verdetti di colpevolezza collettiva contro nessuno.  

«Dov'era Dio?» Quegli interrogativi del Papa 
Gianfranco Ravasi

Una sera, al ritorno dai lavori forzati, gli internati di un lager nazista scoprono sul piazzale interno tre impiccati. Sono due adulti e un bambino, "l'angelo dagli occhi tristi". Le guardie costringono i prigionieri a guardare in faccia gli impiccati, come monito contro ogni velleità di ribellione. I due adulti sono già morti: il ragazzo è ancora vivo, la lingua rossa gli fuoriesce dalle labbra e gli occhi non sono ancora spenti. Ecco, allora, la terribile domanda di uno dei prigionieri: "Dov'è il buon Dio? Dov'è?".

Mentre ascoltavo le domande di Benedetto XVI ad Auschwitz ("Dov'era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Perché ha potuto tollerare tutto questo?"), spontaneamente mi è venuta davanti agli occhi la scena che Elia Wiesel aveva evocato nel suo noto romanzo "La notte" con lo stesso implacabile interrogativo. Un interrogativo che ha tormentato i credenti al punto tale da aver dato avvio a un modello di pensiero detto appunto "la teologia dopo Auschwitz". Una domanda che sembra infrangersi davanti alle porte del palazzo della trascendenza di Dio e lasciare la creatura umana sconcertata e abbacinata.

Ho qui davanti un fascio di ritagli dei giornali italiani e stranieri sulla visita del Papa ad Auschwitz. Tante sono le questioni affiorate, come è stato testimoniato anche dal nostro giornale, ma su questo problema così radicale si è solo balbettato qualcosa. E giustamente, perché chi ha diritto di interpellare Dio è solo Giobbe o quell'antico orante ebreo del Salmo 44, citato dal Papa, che era stato "messo a morte, considerato solo come carne da macello", oppure le vittime di Auschwitz. Loro solo possono persino rasentare la soglia della blasfemia, protestando contro un Dio che pare sordo e indifferente alle sue creature come un imperatore impassibile, "un leopardo che affila gli occhi", un generale trionfatore, per usare le terribili immagini giobbiche.

Sì, questo dev'essere per noi il tempo del silenzio, un silenzio che sarebbe da imporre anche ai teologi chiacchieroni, convinti di essere in grado di allestire una difesa d'ufficio per il loro Signore, incapaci di rispettare il mistero del "Dio nascosto", misterioso, cantato da Isaia (45, 15).

Eppure questo può essere anche il momento di una parola. È una confessione: prima di mettere Dio sul banco degli imputati, bisogna ricordare che quell'orrore nasce dalle mani dell'uomo, da quella libertà che è dono mirabile ma che può essere un esplosivo dirompente. Dio ha preso sul serio questa qualità che ci ha assegnato creandoci. Non la smentisce per comodità sua e nostra, non ci blocca come un sasso a leggi obbligatorie e a meccanismi fissi quando traligniamo.

Eppure la sua non è un'assenza o un silenzio assoluto, anche se la sua voce è inascoltata dalle coscienze accecate e dalla libertà impazzita e impazzata. E alla fine una risposta Dio a suo modo l'ha data. Vorrei ancora ritornare a Wiesel: anch'egli era tra quei prigionieri e quando aveva sentito la domanda: «Dov'è il buon Dio? Dov'è?», aveva confessato: «Io sentivo in me una voce che rispondeva: "Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca!"». Paradossalmente quella dello scrittore ebreo è la risposta cristiana che sulla forca vede Cristo, il Figlio stesso di Dio che, rompendo l'isolamento perfetto della sua trascendenza, non è solo accanto alle vittime come un consolatore magnanimo, ma è lui stesso vittima e impiccato.

E, allora, valgono le parole di un altro martire dei nazisti, il teologo Dietrich Bonhoeffer, che nel lager di Flossenburg scriveva: "Dio non ci salva in virtù della sua onnipotenza. Egli ci salva in virtù della sua impotenza in Cristo Gesù crocifisso e morto". Lassù, infatti, sulla croce non cessa di essere Dio e quindi di essere Salvatore.

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