«Per mezzo di Cristo possiamo presentarci, gli uni e gli
altri, al Padre in un solo Spirito».
(Efesini 2,18)
«La memoria ci tiene prigionieri, ma un’altra memoria,
quella del Cristo, può liberarci».
(mons. Teofan Sinaitul)
«Quando nel giugno del 1997 ci
siamo radunati a Graz, in Austria, per la Seconda assemblea ecumenica
europea, l’euforia era ormai svanita. Il Documento finale di
Basilea [...], secondo il quale l’Europa ha di fronte “tutta una serie di
problemi collegati tra loro che mettono a repentaglio la sopravvivenza
dell’umanità”, è risultato giustificato: persino le crudeltà della guerra
sono ricomparse in Europa, e hanno lasciato molte ferite ancora aperte».
Queste parole, poste come esordio al Messaggio finale
dell’assemblea ecumenica di Graz, paiono dissonanti rispetto agli echi
pregnanti di entusiasmo e soddisfazione che emergevano all’indomani di
Basilea, precedente riunione delle chiese europee nel
1989. Visti
i risultati, forse da questo incontro ci si aspettava qualcosa di diverso.
Magari ripetere, come un naturale prosieguo, l’euforia di Basilea. Molti
fattori infatti lo facevano presagire: i preparativi, il numero dei
partecipanti (settecento delegati ufficiali, oltre diecimila
«visitatori»), la serie di attese più o meno manifeste da parte delle
gerarchie... Sì, il ricordo di Basilea suscitava decise
speranze.
Leggendo invece le cronache della stampa, visionando i resoconti e i
commenti sui periodici cattolici, sembra che abbiano tenuto banco a Graz
le tensioni mai sopite, gli inveterati sospetti, le polemiche aspre, le
gelosie nascoste, le preoccupazioni sincere; secondo alcuni, questi sono
stati i veri protagonisti dell’assemblea ecumenica. Non ultimo, è stato
rimarcato con enfasi (a dire il vero eccessiva), il mancato incontro tra
il papa di Roma e i patriarchi di Mosca e di Costantinopoli, additandolo a
segno evidente del fallimento di Graz. Infine, non è mancato chi, vestendo
i panni del «profeta di sventura», ha prospettato una fine millennio
contrassegnata dal ritorno di un cupo «gelo tra le chiese
europee». Con
questi elementi può apparire atto prematuro che la nostra rivista si
impegni a stilare un bilancio e a verificare la portata di un evento come
quello di Graz, nonostante sia passato più di un anno. Tuttavia, per
quanto ci è dato di intravedere con la luce dello Spirito, possiamo
favorevolmente sbilanciarci, affermando che esso rappresenta un effettivo
passo in avanti per la chiesa, malgrado gli episodi stonati, registrati di
quando in quando durante lo svolgimento. Proviamo allora a segnare in
margine qualche elemento di speranza. Un forte segnale viene anzitutto dalla
partecipazione a questo importante appuntamento, che ha visto ovviamente
coinvolta la gerarchia ecclesiastica, ma anche la cosiddetta «base» del
popolo di Dio. È un segno inequivocabile: ormai l’unità della chiesa non è
più un’accorata esigenza di pochi, di qualche pioniere o poeta, ma
interessa una porzione sempre crescente di cristiani. Senza aver bisogno
di sanzioni ufficiali, Graz ha confermato che il «senso di fede dei
fedeli» in campo ecumenico è un elemento da cui non si potrà più
prescindere in futuro. Determinante nel segnare in modo
positivo questo passo è il tema prescelto e discusso dall’assemblea: la
riconciliazione, intesa come «dono di Dio e sorgente di vita nuova». Punto
di forza dell’annuncio cristiano e della vita stessa della chiesa, la
riconciliazione è per eccellenza l’atteggiamento divino e rappresenta
l’azione centrale nell’opera di Cristo: «Piacque a Dio di fare abitare in
lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose,
rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le
cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli» (Col
1,19-20). Quasi
senza saperlo, le chiese hanno lanciato una vera sfida a se stesse, come
saggiamente ha detto Paolo Ricca. In effetti, abbiamo raggiunto nel
dialogo ecumenico un buon livello per ciò che riguarda la programmazione e
il confronto comuni, la discussione e la disquisizione. Vi è da domandarsi
se siamo altrettanto competenti nel vivere in prima persona la
riconciliazione, lasciandoci condurre dalla misericordia (cor miser
) di Dio. È un atto in cui – continua a ricordarci Ricca – interagiscono
tre personaggi: «Non ci sei solo tu e l’altro, ma tu e due altri, di cui
uno con l’A maiuscola». Finora, come suggeriva il celebre
adagio, gli sforzi delle singole chiese sono stati indirizzati a cercare
«ciò che unisce» le parti; ma per arrivare all’attesa unità delle chiese,
prima o poi occorrerà affrontare con tanta umiltà anche il «ciò che
divide». Allora risulterà, a nostro parere, decisivo trovarsi pronti, non
intellettualmente e con sottili discorsi teologici già pronti, ma con il
cuore disposto alla riconciliazione, un cuore trasformato, che sente
l’urgenza di esaminare attentamente prima se stesso e di vedere poi nel
«diverso» un amico. Più forte di tante promesse, più
incisiva di tanti accordi, più compromettente di tante dichiarazioni, la
riconciliazione è quell’unico «punto archimedico» nella chiesa che può
sradicare le sue antiche sofferenze e sanare le proprie fratture secolari,
è l’unico antidoto alle persistenti divisioni regnanti nel mondo, tra gli
uomini. Di questo la chiesa può essere messaggera: «Noi fungiamo da
ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi
supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor
5,20 ). Scriveva
Lucio Anneo Seneca in uno dei suoi brevi trattati: «Cerchiamo un bene non
apparente ma vero, che sia costante e bello nella sua intima essenza: è
questo che dobbiamo sprigionare e portare alla luce. Non è lontano, lo
troveremo, ci basta solo sapere dove tendere la mano» (De vita
beata, III,1). Noi sappiamo dove tendere la mano per trovare questo
bene non apparente: verso Cristo, unico memoriale che riconcilia le nostre
memorie storiche ferite.
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[Fonte: Editoriale da Credere Oggi - luglio/agosto 1998]
A. F.
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