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Riletture conciliari
Inos Biffi, su L'Osservatore Romano 15 aprile 2011

Riesaminare il Vaticano II è opportuno ma un conto è fare un discorso, un conto è denigrare: tesi preconcette portano a ricostruzioni infelici

È senza dubbio possibile, e anche auspicabile, una lettura critica del concilio Vaticano II, che miri a un’esauriente analisi delle fonti, nella loro diversa tipologia, a una compiuta ricostruzione storica della sua preparazione e del suo svolgimento e, infine, all’interpretazione dei suoi contenuti dottrinali valutati secondo i criteri metodologici noti alla teologia. Impegno, quest’ultimo, non facile a motivo del genere letterario dei testi conciliari, molto effusi e simili a trattati teologici, a differenza del dettato sintetico che contrassegnava gli atti dei concili passati. 

Si tratta, in realtà, di un lavoro già intrapreso anche con ampia prospettiva, ma non senza ragione recensito negativamente per le ideologie di segno opposto che lo hanno guidato e che hanno portato a una medesima conclusione: quella di un Vaticano II «rivoluzionario», che avrebbe rappresentato una spaccatura con la Tradizione, o per un aggiornamento di rottura promosso da Giovanni XXIII, conciliare fin dal grembo materno, o per un riflusso di «modernismo», dovuto all’inavvedutezza dei Papi succeduti a Pio X. 

L’implausibilità di una tale conclusione dovrebbe apparire già dall’approvazione e promulgazione dei documenti conciliari da parte del successore di Pietro e del collegio episcopale raccolto in concilio e in comunione con lui. L’ipotesi che essi abbiano proposto un corpo dottrinale discorde rispetto alla Tradizione si risolverebbe inevitabilmente nell’affermazione che nella Chiesa si è infranto il Magistero e si è smarrita la sicurezza della fede. 

D’altronde, e l’uno e l’altro esito sopra ricordati sono inevitabili, quando, più o meno consapevolmente, alla base della rilettura operi non l’intenzione di rilevare e considerare i dati, ma il proposito di comprovare una tesi. Rimosse, invece, le pregiudiziali destinate a comprometterne un’intelligenza oggettiva, è certamente legittimo e anche opportuno riesaminare il concilio e rilevarne, a diversi livelli, i limiti o quelli che sembrano tali. 

Penso alle sintetiche ma penetranti riflessioni del cardinale Giacomo Biffi nelle "Memorie e digressioni di un italiano cardinale" (Siena, Cantagalli, 2010). Egli ritiene, per esempio, l’espressione giovannea «rinnovamento interno della Chiesa» «più pertinente del vocabolo “aggiornamento (esso pure giovanneo)”»; fu questa, però, ad avere «un’immeritata fortuna», solo che – di là dall’intenzione del Papa – «includeva l’idea che la “nazione santa” si proponesse di ricercare la sua migliore conformità non al disegno eterno del Padre e alla sua salvezza (...), ma alla “giornata” (alla storia temporale e mondana)». Lo stesso cardinale non manca di manifestare le sue riserve sul proposito vagheggiato da Giovanni XXIII di astenersi dalle condanne, per ricorrere alla «medicina della misericordia», evitando così di «formulare insegnamenti definitivi, vincolanti per tutti» secondo l’intenzione dichiarata di «mirare a un “concilio pastorale”», suscitando la compiacenza di tutti «dentro e fuori l’aula vaticana».  

Commenta Giacomo Biffi: «Il concetto mi pareva ambiguo, e un po’ sospetta l’enfasi con cui la “pastoralità” era attribuita al Concilio in atto: non si voleva forse dire implicitamente che i precedenti concili non intendevano essere “pastorali” o non lo erano stati abbastanza? Non aveva avuto rilevanza pastorale il mettere in chiaro che Gesù di Nazaret era Dio e consostanziale al padre, come si era definito a Nicea? Non aveva avuto rilevanza pastorale precisare il realismo della presenza eucaristica e la natura sacrificale della messa, come era avvenuto a Trento?». E prosegue: «C’era il pericolo di non ricordare più che la prima e insostituibile “misericordia” per l’umanità smarrita è, secondo l’insegnamento chiaro della Rivelazione, la “misericordia della verità”, misericordia che non può essere esercitata senza la condanna esplicita, ferma, costante di ogni travisamento e di ogni alterazione del “deposito” della fede, che va custodito». Lo notava san Tommaso nella "Summa contra Gentiles" (I, 2): il compito della teologia è quello di «manifestare la verità professata dalla fede cattolica, eliminando gli errori ad essa contrari».

 Riguardo alla "Gaudium et spes" Giacomo Biffi ricorda tre giudizi autorevoli.

 Il primo è quello di Hubert Jedin, per il quale «questa costituzione fu salutata con entusiasmo, ma la sua storia posteriore ha già dimostrato che allora il suo significato e la sua importanza erano stati largamente sopravvalutati e che non si era capito quanto profondamente quel “mondo” che si voleva guadagnare a Cristo fosse penetrato nella Chiesa». 

Il secondo giudizio è quello di un teologo protestante molto apprezzato da Giacomo Biffi, Karl Barth, secondo il quale il concetto di «mondo» della Gaudium et spes non era quello del Nuovo Testamento: un giudizio che Giacomo Biffi ritiene «forse troppo severo se riferito al documento stesso», ma «ineccepibile, se lo si estende a buona parte della mentalità del postconcilio». 

Il terzo giudizio evocato è quello del cardinale Giovanni Colombo, «acuto e libero come sempre», che affermava: «Quel testo ha tutte le parole giuste; sono gli accenti a essere sbagliati», e «purtroppo – sono ancora parole di Biffi – il postconcilio è stato influenzato e ammaliato più dagli accenti che dalle parole». 

In particolare le "Memorie e digressioni di un italiano cardinale" si soffermano sulla costituzione liturgica "Sacrosanctum concilium". Alla sua apparizione, ricorda il cardinale, «mi sono molto rallegrato. Tutto il più intelligente ed equilibrato movimento liturgico – che negli anni precedenti avevo seguito con passione – trovava qui la sua massima accoglienza e il suo coronamento. Di qui è partita, provvidenziale e inarrestabile, la riforma che tanto avevamo auspicato». Indubbiamente «di qui la più sconcertante insipienza ecclesiastica ha preso arbitrariamente le mosse per le sue vistose aberrazioni (...) Ma di ciò questa Costituzione è incolpevole».

Continuando, Giacomo Biffi mette in luce le provvide riforme intese a rendere effettivamente possibile una «pia e attiva partecipazione dei fedeli» alla celebrazione, per cui «un totale e perfetto ritorno alle forme che prima del Concilio erano normali per le celebrazioni meno solenni sarebbe in esplicito contrasto con l’insegnamento e con la volontà del Vaticano II». Il cardinale non manca poi di osservare che, se «il Concilio non aveva né voluto né previsto la totale scomparsa del latino dalle nostre celebrazioni», già nei "Praenotanda" del nuovo messale riformato «la Santa Sede era addivenuta a una concessione generale».  

E, infatti, dopo la menzione del testo conciliare: «L’uso della lingua parlata può riuscire spesso di grande utilità per il popolo» (36), si afferma: «L’entusiasmo con cui questa decisione è stata dappertutto accolta, ha portato, sotto la guida dei vescovi e della stessa Sede apostolica, alla concessione che tutte le celebrazioni con la partecipazione di popolo si possano fare in lingua viva, per rendere più facile l’intelligenza piena del mistero celebrato» (Proemio, 12). A parere del cardinale: «Una licenza soltanto parziale, con il risultato di avere una “liturgia bilingue”, non poteva sostenersi a lungo; ed è quindi a mio parere giustificato che si sia oltrepassato il dettato conciliare». 

Mi sembra dissenta affatto da questa valutazione della "Sacrosanctum concilium" il teologo Brunero Gherardini, che le riserva una serie di accuse a mio avviso non fondate e non condivisibili ("Concilio Vaticano II. Il discorso mancato", Torino, Lindau, 2011, pagine 111, euro 12). A essere inaccettabile è anzitutto la non distinzione tra il dettato del Concilio, i successivi interventi applicativi autorevolmente promossi e guidati, da un lato, e, dall’altro, gli sconsiderati arbitrî del postconcilio, di cui, tuttavia – come osservava il cardinale Giacomo Biffi – la «Costituzione è incolpevole».  

Del tutto condivisibile quanto è detto da Gherardini sulle «assurdità antiliturgiche compiute in nome del Vaticano II» e sulla «rozza situazione d’anarchia liturgica ch’è sotto gli occhi di tutti»; non credo però che se ne possa attribuire la responsabilità diretta o indiretta al Concilio stesso. Veramente anche Gherardini riconosce la validità e la precisione dei principi di riforma enunciati dalla "Sacrosanctum concilium", che «nel loro insieme ed ognuno per se stesso, son di cristallina chiarezza, di tempestiva puntualità e di prudente equilibrio», ma alla fine questo non gli vieta di imputare alla medesima costituzione di essere la causa delle rovinose derive succedute, e in particolare dell’antropocentrismo e orizzontalismo liturgico, di cui conteneva i germi e l’inclinazione. 

Del resto, secondo Gherardini, l’antropocentrismo, il naturalismo, l’orizzontalismo erano state «le note dominanti», dell’«incauto movimento liturgico», per esempio quello rappresentato da Beauduin, Parsch e Casel, obiettivamente responsabili, di là dalla loro «rettitudine d’intenzione», «d’aver almen in parte invertito la marcia del movimento liturgico, incentrandolo sull’uomo». Un’affermazione del genere non mi pare proprio sostenibile nei confronti né di Casel, per il quale, in sintonia con la concezione patristica, la liturgia ripresenta nella forma del sacramento l’opera della salvezza, né di Beauduin, impegnato a rendere attivamente orante la comunità cristiana, né di Parsch, meritevole di aver iniziato il più possibile il popolo all’intelligenza della liturgia. A meno di ritenere che l’opera pastorale consistente a favorire la partecipazione sempre più attiva dei fedeli all’azione liturgica sia segno di antropocentrismo e orizzontalismo.  

Del resto, Pio XII nella "Mediator Dei" (1947) non esitava a scrivere: «Verso la fine del secolo scorso ed agli inizi del presente, si ebbe un singolare fervore di studi liturgici, cosicché si sviluppò una encomiabile ed utile gara, le cui benefiche conseguenze furono visibili sia nel campo delle sacre discipline sia nella vita spirituale e privata di molti cristiani», con questi esiti: una «partecipazione ai Sacramenti più larga e frequente», «le preghiere liturgiche più soavemente gustate», e «il culto eucaristico considerato come veramente è il centro e la fonte della vera pietà cristiana». 

Se, per un verso, Gherardini riconosce al Concilio una «visione soprannaturale della sacra liturgia» – la si definisce, infatti, in accordo con la Mediator Dei, «opera di Cristo sacerdote e del suo Corpo, che è la Chiesa, azione sacra per eccellenza» (7), e la concezione non potrebbe essere più teocentrica e “verticalista” – per l’altro verso non esita ad asserire che «l’orizzontalismo vi faceva capolino», anzi si giunge a dire che esso si rivelava «il punto focale inteso e prefissato»: in poche parole, un Concilio schizofrenico, che pensa una cosa e ne fa un’altra. Da qui, sempre per Gherardini, «l’entusiastica disponibilità per ogni proposta di novità e correlative concessioni entro l’orbita dell’ormai diffuso orizzontalismo» ed è come definire i Padri conciliari degli spensierati, senza criterio. La prova sarebbe «il no alla “rigida uniformità”, “il rispetto e la valorizzazione delle qualità e delle doti d’animo delle varie razze e dei vari popoli”». Senonché, questa stessa espressione la troviamo nel motu proprio "Sancta Dei Ecclesia" del 1938, dove si dice, che, secondo con il pensiero (mens) dei Romani Pontefici, «la varietà degli elementi liturgici, introdotta tenendo conto delle peculiari disposizioni e dell’indole dei popoli ("ex peculiari populorum ingenio atque indole"), non solo non ripugna all’unità della santa fede e del culto divino, ma, al contrario contribuisce al suo apprezzamento e alla sua lode». 

Ancora, Gherardini è persuaso che il Vaticano II, parlando a proposito della liturgia di «una parte immutabile perché d’istituzione divina, e di parti soggette al cambiamento (...) qualora vi si fossero insinuati elementi meno rispondenti all’intima natura della Liturgia o si fossero resi meno adatti», abbia fatto «di qualunque innovazione un gioco da ragazzi»: ma né i Papi né gli organismi competenti della Sede Apostolica mi pare si siano comportati da ragazzi, ammettendo, in applicazione del Concilio, «qualsiasi» innovazione, anche se più deplorevoli dei ragazzi furono – e sono – gli autori delle «vistose aberrazioni», come le chiamava il cardinale Biffi. 

Può essere comunque pertinente notare che ancora la "Mediator Dei" asserisce: «La sacra Liturgia, consta di elementi umani e di elementi divini: questi, essendo stati istituiti dal Divin Redentore, non possono, evidentemente, esser mutati dagli uomini; quelli, invece, possono subire varie modifiche, approvate dalla sacra Gerarchia assistita dallo Spirito Santo, secondo le esigenze dei tempi, delle cose e delle anime». 

È proprio sicuro Gherardini che, dopo la promulgazione della Sacrosanctum concilium, nel tempo delle varie riforme, lo Spirito Santo abbia sonnecchiato o sia andato in ferie, lasciando la stessa sacra Gerarchia, rappresentata da Paolo VI o da Giovanni Paolo II, affatto sprovveduta della sua assistenza e in preda alla loro "cupiditas rerum novarum"? 

E forse è il caso di tornare alla "Mediator Dei" per leggervi che «la Gerarchia Ecclesiastica ha sempre usato di questo suo diritto in materia liturgica, allestendo e ordinando il culto divino e arricchendolo di sempre nuovo splendore e decoro a gloria di Dio e per il vantaggio dei fedeli», e che essa «inoltre non dubitò – salva la sostanza del Sacrificio Eucaristico e dei Sacramenti – di mutare ciò che non riteneva adatto, di aggiungere ciò che meglio sembrava contribuire all’onore di Gesù Cristo e della Trinità augusta alla istruzione e a stimolo salutare del popolo cristiano», altresì riportando in uso e rinnovando ("in usum revocare, iterumque renovare") «pie istituzioni venute meno col tempo» ("pia instituta temporis decursu obliterata").

Gherardini poi eccepisce sul proposito conciliare di una «riforma generale nel modo più accurato della Liturgia»: questo «generale» sarebbe in contrasto con l’affermazione della "Sacrosanctum concilium" sopra citata che distingueva nella liturgia «una parte immutabile perché d’istituzione divina». Non ci vuol molto a capire che, fatta questa asserzione, la «generalità» non potrebbe che riguardare le parti per loro natura «soggette al cambiamento», a meno di attribuire alla Costituzione una mirabile e singolare sprovvedutezza logica.  

Non vedo proprio come ai "rerum novarum cupidi" il sostegno sia venuto dal «dettato conciliare», dal suo linguaggio e dalle «porte ch’esso andava dischiudendo». Addirittura si giunge ad affermare che «sì, la porta è proprio aperta» e «se qualcuno è passato attraverso di essa per introdurre (...) una liturgia eversiva della sua stessa natura e delle sue finalità primarie, in ultima analisi responsabile è proprio il testo conciliare»; sono quindi i Padri con i loro criteri conciliari «interpretati alla luce di quell’aperturismo nel quale il Concilio stesso li aveva affogati». Lo sbaglio fu dunque quello dell’«atteggiamento acritico a favore dei documenti conciliari», che non si sono voluti correggere. 

Un’attenzione speciale è riservata da Gherardini alla questione del latino liturgico. È affatto incontestabile e attuale il suo valore. Né vanno taciuti i risultati scadenti e persino gli errori – qualcuno di carattere teologico – di certe versioni in italiano, giustamente rilevate da Gherardini; ecco perché, come scrive il cardinale Biffi, si deve richiamare con vigore «la disposizione a celebrare nelle domeniche e nelle feste, almeno nelle chiese cattedrali, una solenne eucaristia latina (ovviamente secondo il messale di Paolo VI)».  

Mi chiedo però se non siamo, per usare un eufemismo, oltremodo sopra il rigo, ritenere, come fa Gherardini, che «con la sostituzione del volgare al posto del latino» si «intese privilegiare l’uomo, non già elevandolo mediante il sacro rito ai livelli del divino, ma abbassando il rito al livello dell’uomo, della sua condizione storicamente delimitata», quasi che nella liturgia sia la lingua e non la grazia a elevare «ai livelli del divino» o quasi che questi si trovino abbassati, se i fedeli comprendono immediatamente i testi nel loro idioma abituale. Il principio enunziato da Bugnini: «Nessuna parte dell’azione sacra si giustifica in una lingua non compresa dal popolo» è perfettamente accettabile. Dovrebbe essere chiaro che il «mistero» cristiano è ben altra cosa dell’«arcano» profano. 

Abbiamo letto l’illuminato pensiero del cardinale Biffi sulla non sostenibilità a lungo di una licenza soltanto parziale con il risultato di una «liturgia bilingue». E infatti l’uso sempre più ampio della lingua volgare aveva come intenzione, ed ebbe come felice traguardo, quella «partecipazione attiva dei fedeli» «ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa» di cui già parlava nel 1903 Pio X nel motu proprio "Tra le sollecitudini" e fu ininterrottamente richiamata dai Sommi Pontefici successivi, fino a Pio XII, che avviò le prime e decisive riforme liturgiche. 

I grandi imputati di questa introduzione della lingua volgare sono i Papi. Al possibilismo del Vaticano II, sostiene Gherardini, al «suo aprirsi pregiudiziale verso tutto quello che fosse – o apparisse – esigenza dell’uomo», «provvidero gli uomini del postconcilio, papi compresi», che si trovano così equiparati agli sconsiderati, che, indebitamente richiamandosi al Concilio, ne hanno invece tradito e sovvertito i sani principi e le giudiziose direttive.  

Quanto ai singoli Papi, essi furono Paolo VI, complice di aver adottato il volgare per «simpatia per l’uomo», e Giovanni Paolo II, che per un quarto di secolo ebbe per l’uomo «una vera devozione»: l’uno e l’altro rimasti, in ogni modo, come «le stelle a guardare». Siamo sempre nella linea della tesi preconcetta e inaccettabile che orienta e condiziona tutta l’attorcigliata e infelice ricostruzione di Gherardini. 

Qui mi sembra, però, si sia oltrepassata persino la misura del buon gusto. E allora sarebbe perfettamente inutile anche il semplice rilievo che la liturgia non esiste perché Dio renda culto a se stesso, ma perché l’uomo lo possa lodare e glorificare attraverso i sacri riti celebrati «attivamente e in piena consapevolezza», e così ricevere la grazia della salvezza. 

E, di fatto, non hanno mirato ad altro le riforme conciliari che, se hanno avuto dei limiti, che si possono o si devono correggere, soprattutto hanno arrecato immensi benefici. Quello del Vaticano II può essere un opportuno discorso da fare: ma un conto è fare un discorso, un conto è denigrare.

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