È senza dubbio possibile, e
anche auspicabile, una lettura critica del concilio Vaticano II, che miri a
un’esauriente analisi delle fonti, nella loro diversa tipologia, a una compiuta
ricostruzione storica della sua preparazione e del suo svolgimento e, infine,
all’interpretazione dei suoi contenuti dottrinali valutati secondo i criteri
metodologici noti alla teologia. Impegno, quest’ultimo, non facile a motivo del
genere letterario dei testi conciliari, molto effusi e simili a trattati
teologici, a differenza del dettato sintetico che contrassegnava gli atti dei
concili passati.
Si tratta, in realtà, di un
lavoro già intrapreso anche con ampia prospettiva, ma non senza ragione
recensito negativamente per le ideologie di segno opposto che lo hanno guidato e
che hanno portato a una medesima conclusione: quella di un Vaticano II
«rivoluzionario», che avrebbe rappresentato una spaccatura con la Tradizione, o
per un aggiornamento di rottura promosso da Giovanni XXIII, conciliare fin dal
grembo materno, o per un riflusso di «modernismo», dovuto all’inavvedutezza dei
Papi succeduti a Pio X.
L’implausibilità di una tale
conclusione dovrebbe apparire già dall’approvazione e promulgazione dei
documenti conciliari da parte del successore di Pietro e del collegio episcopale
raccolto in concilio e in comunione con lui. L’ipotesi che essi abbiano proposto
un corpo dottrinale discorde rispetto alla Tradizione si risolverebbe
inevitabilmente nell’affermazione che nella Chiesa si è infranto il Magistero e
si è smarrita la sicurezza della fede.
D’altronde, e l’uno e l’altro
esito sopra ricordati sono inevitabili, quando, più o meno consapevolmente, alla
base della rilettura operi non l’intenzione di rilevare e considerare i dati, ma
il proposito di comprovare una tesi. Rimosse, invece, le pregiudiziali destinate
a comprometterne un’intelligenza oggettiva, è certamente legittimo e anche
opportuno riesaminare il concilio e rilevarne, a diversi livelli, i limiti o
quelli che sembrano tali.
Penso alle sintetiche ma
penetranti riflessioni del cardinale Giacomo Biffi nelle "Memorie e digressioni
di un italiano cardinale" (Siena, Cantagalli, 2010). Egli ritiene, per esempio,
l’espressione giovannea «rinnovamento interno della Chiesa» «più pertinente del
vocabolo “aggiornamento (esso pure giovanneo)”»; fu questa, però, ad avere
«un’immeritata fortuna», solo che – di là dall’intenzione del Papa – «includeva
l’idea che la “nazione santa” si proponesse di ricercare la sua migliore
conformità non al disegno eterno del Padre e alla sua salvezza (...), ma alla
“giornata” (alla storia temporale e mondana)». Lo stesso cardinale non manca di
manifestare le sue riserve sul proposito vagheggiato da Giovanni XXIII di
astenersi dalle condanne, per ricorrere alla «medicina della misericordia»,
evitando così di «formulare insegnamenti definitivi, vincolanti per tutti»
secondo l’intenzione dichiarata di «mirare a un “concilio pastorale”»,
suscitando la compiacenza di tutti «dentro e fuori l’aula vaticana».
Commenta Giacomo Biffi: «Il
concetto mi pareva ambiguo, e un po’ sospetta l’enfasi con cui la “pastoralità”
era attribuita al Concilio in atto: non si voleva forse dire implicitamente che
i precedenti concili non intendevano essere “pastorali” o non lo erano stati
abbastanza? Non aveva avuto rilevanza pastorale il mettere in chiaro che Gesù di
Nazaret era Dio e consostanziale al padre, come si era definito a Nicea? Non
aveva avuto rilevanza pastorale precisare il realismo della presenza eucaristica
e la natura sacrificale della messa, come era avvenuto a Trento?». E prosegue:
«C’era il pericolo di non ricordare più che la prima e insostituibile
“misericordia” per l’umanità smarrita è, secondo l’insegnamento chiaro della
Rivelazione, la “misericordia della verità”, misericordia che non può essere
esercitata senza la condanna esplicita, ferma, costante di ogni travisamento e
di ogni alterazione del “deposito” della fede, che va custodito». Lo notava san
Tommaso nella "Summa contra Gentiles" (I, 2): il compito della teologia è quello
di «manifestare la verità professata dalla fede cattolica, eliminando gli errori
ad essa contrari».
Riguardo alla "Gaudium et spes"
Giacomo Biffi ricorda tre giudizi autorevoli.
Il primo è quello di Hubert
Jedin, per il quale «questa costituzione fu salutata con entusiasmo, ma la sua
storia posteriore ha già dimostrato che allora il suo significato e la sua
importanza erano stati largamente sopravvalutati e che non si era capito quanto
profondamente quel “mondo” che si voleva guadagnare a Cristo fosse penetrato
nella Chiesa».
Il secondo giudizio è quello di
un teologo protestante molto apprezzato da Giacomo Biffi, Karl Barth, secondo il
quale il concetto di «mondo» della Gaudium et spes non era quello del Nuovo
Testamento: un giudizio che Giacomo Biffi ritiene «forse troppo severo se
riferito al documento stesso», ma «ineccepibile, se lo si estende a buona parte
della mentalità del postconcilio».
Il terzo giudizio evocato è
quello del cardinale Giovanni Colombo, «acuto e libero come sempre», che
affermava: «Quel testo ha tutte le parole giuste; sono gli accenti a essere
sbagliati», e «purtroppo – sono ancora parole di Biffi – il postconcilio è stato
influenzato e ammaliato più dagli accenti che dalle parole».
In particolare le "Memorie e
digressioni di un italiano cardinale" si soffermano sulla costituzione liturgica
"Sacrosanctum concilium". Alla sua apparizione, ricorda il cardinale, «mi sono
molto rallegrato. Tutto il più intelligente ed equilibrato movimento liturgico –
che negli anni precedenti avevo seguito con passione – trovava qui la sua
massima accoglienza e il suo coronamento. Di qui è partita, provvidenziale e
inarrestabile, la riforma che tanto avevamo auspicato». Indubbiamente «di qui la
più sconcertante insipienza ecclesiastica ha preso arbitrariamente le mosse per
le sue vistose aberrazioni (...) Ma di ciò questa Costituzione è incolpevole».
Continuando, Giacomo Biffi
mette in luce le provvide riforme intese a rendere effettivamente possibile una
«pia e attiva partecipazione dei fedeli» alla celebrazione, per cui «un totale e
perfetto ritorno alle forme che prima del Concilio erano normali per le
celebrazioni meno solenni sarebbe in esplicito contrasto con l’insegnamento e
con la volontà del Vaticano II». Il cardinale non manca poi di osservare che, se
«il Concilio non aveva né voluto né previsto la totale scomparsa del latino
dalle nostre celebrazioni», già nei "Praenotanda" del nuovo messale riformato
«la Santa Sede era addivenuta a una concessione generale».
E, infatti, dopo la menzione
del testo conciliare: «L’uso della lingua parlata può riuscire spesso di grande
utilità per il popolo» (36), si afferma: «L’entusiasmo con cui questa decisione
è stata dappertutto accolta, ha portato, sotto la guida dei vescovi e della
stessa Sede apostolica, alla concessione che tutte le celebrazioni con la
partecipazione di popolo si possano fare in lingua viva, per rendere più facile
l’intelligenza piena del mistero celebrato» (Proemio, 12). A parere del
cardinale: «Una licenza soltanto parziale, con il risultato di avere una
“liturgia bilingue”, non poteva sostenersi a lungo; ed è quindi a mio parere
giustificato che si sia oltrepassato il dettato conciliare».
Mi sembra dissenta affatto da
questa valutazione della "Sacrosanctum concilium" il teologo Brunero Gherardini,
che le riserva una serie di accuse a mio avviso non fondate e non condivisibili
("Concilio Vaticano II. Il discorso mancato", Torino, Lindau, 2011, pagine 111,
euro 12). A essere inaccettabile è anzitutto la non distinzione tra il dettato
del Concilio, i successivi interventi applicativi autorevolmente promossi e
guidati, da un lato, e, dall’altro, gli sconsiderati arbitrî del postconcilio,
di cui, tuttavia – come osservava il cardinale Giacomo Biffi – la «Costituzione
è incolpevole».
Del tutto condivisibile quanto
è detto da Gherardini sulle «assurdità antiliturgiche compiute in nome del
Vaticano II» e sulla «rozza situazione d’anarchia liturgica ch’è sotto gli occhi
di tutti»; non credo però che se ne possa attribuire la responsabilità diretta o
indiretta al Concilio stesso. Veramente anche Gherardini riconosce la validità e
la precisione dei principi di riforma enunciati dalla "Sacrosanctum concilium",
che «nel loro insieme ed ognuno per se stesso, son di cristallina chiarezza, di
tempestiva puntualità e di prudente equilibrio», ma alla fine questo non gli
vieta di imputare alla medesima costituzione di essere la causa delle rovinose
derive succedute, e in particolare dell’antropocentrismo e orizzontalismo
liturgico, di cui conteneva i germi e l’inclinazione.
Del resto, secondo Gherardini,
l’antropocentrismo, il naturalismo, l’orizzontalismo erano state «le note
dominanti», dell’«incauto movimento liturgico», per esempio quello rappresentato
da Beauduin, Parsch e Casel, obiettivamente responsabili, di là dalla loro
«rettitudine d’intenzione», «d’aver almen in parte invertito la marcia del
movimento liturgico, incentrandolo sull’uomo». Un’affermazione del genere non mi
pare proprio sostenibile nei confronti né di Casel, per il quale, in sintonia
con la concezione patristica, la liturgia ripresenta nella forma del sacramento
l’opera della salvezza, né di Beauduin, impegnato a rendere attivamente orante
la comunità cristiana, né di Parsch, meritevole di aver iniziato il più
possibile il popolo all’intelligenza della liturgia. A meno di ritenere che
l’opera pastorale consistente a favorire la partecipazione sempre più attiva dei
fedeli all’azione liturgica sia segno di antropocentrismo e orizzontalismo.
Del resto, Pio XII nella "Mediator
Dei" (1947) non esitava a scrivere: «Verso la fine del secolo scorso ed agli
inizi del presente, si ebbe un singolare fervore di studi liturgici, cosicché si
sviluppò una encomiabile ed utile gara, le cui benefiche conseguenze furono
visibili sia nel campo delle sacre discipline sia nella vita spirituale e
privata di molti cristiani», con questi esiti: una «partecipazione ai Sacramenti
più larga e frequente», «le preghiere liturgiche più soavemente gustate», e «il
culto eucaristico considerato come veramente è il centro e la fonte della vera
pietà cristiana».
Se, per un verso, Gherardini
riconosce al Concilio una «visione soprannaturale della sacra liturgia» – la si
definisce, infatti, in accordo con la Mediator Dei, «opera di Cristo sacerdote e
del suo Corpo, che è la Chiesa, azione sacra per eccellenza» (7), e la
concezione non potrebbe essere più teocentrica e “verticalista” – per l’altro
verso non esita ad asserire che «l’orizzontalismo vi faceva capolino», anzi si
giunge a dire che esso si rivelava «il punto focale inteso e prefissato»: in
poche parole, un Concilio schizofrenico, che pensa una cosa e ne fa un’altra. Da
qui, sempre per Gherardini, «l’entusiastica disponibilità per ogni proposta di
novità e correlative concessioni entro l’orbita dell’ormai diffuso
orizzontalismo» ed è come definire i Padri conciliari degli spensierati, senza
criterio. La prova sarebbe «il no alla “rigida uniformità”, “il rispetto e la
valorizzazione delle qualità e delle doti d’animo delle varie razze e dei vari
popoli”». Senonché, questa stessa espressione la troviamo nel motu proprio
"Sancta Dei Ecclesia" del 1938, dove si dice, che, secondo con il pensiero (mens)
dei Romani Pontefici, «la varietà degli elementi liturgici, introdotta tenendo
conto delle peculiari disposizioni e dell’indole dei popoli ("ex peculiari
populorum ingenio atque indole"), non solo non ripugna all’unità della santa
fede e del culto divino, ma, al contrario contribuisce al suo apprezzamento e
alla sua lode».
Ancora, Gherardini è persuaso
che il Vaticano II, parlando a proposito della liturgia di «una parte immutabile
perché d’istituzione divina, e di parti soggette al cambiamento (...) qualora vi
si fossero insinuati elementi meno rispondenti all’intima natura della Liturgia
o si fossero resi meno adatti», abbia fatto «di qualunque innovazione un gioco
da ragazzi»: ma né i Papi né gli organismi competenti della Sede Apostolica mi
pare si siano comportati da ragazzi, ammettendo, in applicazione del Concilio,
«qualsiasi» innovazione, anche se più deplorevoli dei ragazzi furono – e sono –
gli autori delle «vistose aberrazioni», come le chiamava il cardinale Biffi.
Può essere comunque pertinente
notare che ancora la "Mediator Dei" asserisce: «La sacra Liturgia, consta di
elementi umani e di elementi divini: questi, essendo stati istituiti dal Divin
Redentore, non possono, evidentemente, esser mutati dagli uomini; quelli,
invece, possono subire varie modifiche, approvate dalla sacra Gerarchia
assistita dallo Spirito Santo, secondo le esigenze dei tempi, delle cose e delle
anime».
È proprio sicuro Gherardini
che, dopo la promulgazione della Sacrosanctum concilium, nel tempo delle varie
riforme, lo Spirito Santo abbia sonnecchiato o sia andato in ferie, lasciando la
stessa sacra Gerarchia, rappresentata da Paolo VI o da Giovanni Paolo II,
affatto sprovveduta della sua assistenza e in preda alla loro "cupiditas rerum
novarum"?
E forse è il caso di tornare
alla "Mediator Dei" per leggervi che «la Gerarchia Ecclesiastica ha sempre usato
di questo suo diritto in materia liturgica, allestendo e ordinando il culto
divino e arricchendolo di sempre nuovo splendore e decoro a gloria di Dio e per
il vantaggio dei fedeli», e che essa «inoltre non dubitò – salva la sostanza del
Sacrificio Eucaristico e dei Sacramenti – di mutare ciò che non riteneva adatto,
di aggiungere ciò che meglio sembrava contribuire all’onore di Gesù Cristo e
della Trinità augusta alla istruzione e a stimolo salutare del popolo
cristiano», altresì riportando in uso e rinnovando ("in usum revocare, iterumque
renovare") «pie istituzioni venute meno col tempo» ("pia instituta temporis
decursu obliterata").
Gherardini poi eccepisce sul
proposito conciliare di una «riforma generale nel modo più accurato della
Liturgia»: questo «generale» sarebbe in contrasto con l’affermazione della "Sacrosanctum
concilium" sopra citata che distingueva nella liturgia «una parte immutabile
perché d’istituzione divina». Non ci vuol molto a capire che, fatta questa
asserzione, la «generalità» non potrebbe che riguardare le parti per loro natura
«soggette al cambiamento», a meno di attribuire alla Costituzione una mirabile e
singolare sprovvedutezza logica.
Non vedo proprio come ai "rerum
novarum cupidi" il sostegno sia venuto dal «dettato conciliare», dal suo
linguaggio e dalle «porte ch’esso andava dischiudendo». Addirittura si giunge ad
affermare che «sì, la porta è proprio aperta» e «se qualcuno è passato
attraverso di essa per introdurre (...) una liturgia eversiva della sua stessa
natura e delle sue finalità primarie, in ultima analisi responsabile è proprio
il testo conciliare»; sono quindi i Padri con i loro criteri conciliari
«interpretati alla luce di quell’aperturismo nel quale il Concilio stesso li
aveva affogati». Lo sbaglio fu dunque quello dell’«atteggiamento acritico a
favore dei documenti conciliari», che non si sono voluti correggere.
Un’attenzione speciale è
riservata da Gherardini alla questione del latino liturgico. È affatto
incontestabile e attuale il suo valore. Né vanno taciuti i risultati scadenti e
persino gli errori – qualcuno di carattere teologico – di certe versioni in
italiano, giustamente rilevate da Gherardini; ecco perché, come scrive il
cardinale Biffi, si deve richiamare con vigore «la disposizione a celebrare
nelle domeniche e nelle feste, almeno nelle chiese cattedrali, una solenne
eucaristia latina (ovviamente secondo il messale di Paolo VI)».
Mi chiedo però se non siamo,
per usare un eufemismo, oltremodo sopra il rigo, ritenere, come fa Gherardini,
che «con la sostituzione del volgare al posto del latino» si «intese
privilegiare l’uomo, non già elevandolo mediante il sacro rito ai livelli del
divino, ma abbassando il rito al livello dell’uomo, della sua condizione
storicamente delimitata», quasi che nella liturgia sia la lingua e non la grazia
a elevare «ai livelli del divino» o quasi che questi si trovino abbassati, se i
fedeli comprendono immediatamente i testi nel loro idioma abituale. Il principio
enunziato da Bugnini: «Nessuna parte dell’azione sacra si giustifica in una
lingua non compresa dal popolo» è perfettamente accettabile. Dovrebbe essere
chiaro che il «mistero» cristiano è ben altra cosa dell’«arcano» profano.
Abbiamo letto l’illuminato
pensiero del cardinale Biffi sulla non sostenibilità a lungo di una licenza
soltanto parziale con il risultato di una «liturgia bilingue». E infatti l’uso
sempre più ampio della lingua volgare aveva come intenzione, ed ebbe come felice
traguardo, quella «partecipazione attiva dei fedeli» «ai sacrosanti misteri e
alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa» di cui già parlava nel 1903 Pio
X nel motu proprio "Tra le sollecitudini" e fu ininterrottamente richiamata dai
Sommi Pontefici successivi, fino a Pio XII, che avviò le prime e decisive
riforme liturgiche.
I grandi imputati di questa
introduzione della lingua volgare sono i Papi. Al possibilismo del Vaticano II,
sostiene Gherardini, al «suo aprirsi pregiudiziale verso tutto quello che fosse
– o apparisse – esigenza dell’uomo», «provvidero gli uomini del postconcilio,
papi compresi», che si trovano così equiparati agli sconsiderati, che,
indebitamente richiamandosi al Concilio, ne hanno invece tradito e sovvertito i
sani principi e le giudiziose direttive.
Quanto ai singoli Papi, essi
furono Paolo VI, complice di aver adottato il volgare per «simpatia per l’uomo»,
e Giovanni Paolo II, che per un quarto di secolo ebbe per l’uomo «una vera
devozione»: l’uno e l’altro rimasti, in ogni modo, come «le stelle a guardare».
Siamo sempre nella linea della tesi preconcetta e inaccettabile che orienta e
condiziona tutta l’attorcigliata e infelice ricostruzione di Gherardini.
Qui mi sembra, però, si sia
oltrepassata persino la misura del buon gusto. E allora sarebbe perfettamente
inutile anche il semplice rilievo che la liturgia non esiste perché Dio renda
culto a se stesso, ma perché l’uomo lo possa lodare e glorificare attraverso i
sacri riti celebrati «attivamente e in piena consapevolezza», e così ricevere la
grazia della salvezza.
E, di fatto, non hanno mirato
ad altro le riforme conciliari che, se hanno avuto dei limiti, che si possono o
si devono correggere, soprattutto hanno arrecato immensi benefici. Quello del
Vaticano II può essere un opportuno discorso da fare: ma un conto è fare un
discorso, un conto è denigrare.