Pubblichiamo le riflessioni di Sandro
Magister su l'Espresso e l'intervista da lui citata pubblicata su
«Mondo e Missione» di novembre, dalla quale è estratta questa frase
emblematica: «Sono combattenti arabi entrati in Iraq, pagati dai movimenti
integralisti di paesi vicini o forse addirittura dai rispettivi
governi».
ROMA - In Iraq la Chiesa cattolica caldea non ha ancora eletto il suo
nuovo patriarca, successore del defunto
Raphael I Bidawid.
Giovanni Paolo II ha convocato a Roma i vescovi caldei per il 2-3
dicembre, affinché trovino un accordo.
Intanto, però, sono avvenuti importanti avvicendamenti alla testa di
alcune diocesi.
Bidawid era molto contestato dentro la sua stessa Chiesa. Era accusato
di governarla con modi autoritari e di
intrattenere col regime baathista e con Saddam Hussein un rapporto
esageratamente succube.
Caduto Saddam, la Chiesa caldea ha temuto di pagare duramente il legame
col passato regime. Ma i fatti hanno smentito questi timori. Oggi il
pericolo che incombe sui cristiani iracheni è lo stesso che minaccia
l'intero paese: è il terrorismo, che colpisce senza distinzione non
solo gli occupanti americani ma anche l'Onu, la Croce Rossa, le
ambasciate straniere, i corpi di polizia, le autorità locali, i leader
religiosi e la stessa popolazione irachena nelle sue varie componenti.
Anche la Chiesa caldea è partecipe del processo di democratizzazione
faticosamente avviato. Il Vaticano segue con apprensione questo processo
e lo stillicidio degli attentati terroristici, astenendosi da ogni
commento pubblico.
Si è pronunciato apertamente, invece, uno dei vescovi caldei di fresca
nomina: Louis Sako, nominato il 28 settembre vescovo di Kirkuk. L'ha
fatto tra l'altro con un'intervista - riprodotta qui sotto - al mensile
del Pontificio istituto missioni
estere di Milano, "Mondo e Missione".
Sako, 55 anni, figura di spicco della comunità caldea, è stato fino a
ieri parroco a Mosul e prima ancora rettore del seminario di Baghdad.
Conosce dodici lingue, ha studiato a Roma e a Parigi, è esperto in
letteratura cristiana antica e ha un master in storia islamica. È
consultore del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso ed è
stato spesso ospite in Italia di "Pax Christi".
Mosul, la sua città, erede dell'antica Ninive, è stata la prima in
Iraq a dotarsi di un consiglio provinciale provvisorio, poco dopo la
fine della guerra. E Sako ne è stato eletto vicepresidente. Il modello
Mosul è stato poi riprodotto a Kirkuk e in altre province.
Al quotidiano italiano "Il Foglio" del 21 ottobre Sako ha
detto che "un Iraq locomotiva democratica dell'area non piace ad
Arabia Saudita, Iran, Siria, Egitto e altri vicini", perché
"i diritti civili alle minoranze non arabe, la libertà religiosa e
la riforma della giustizia metterebbero in discussione il potere su cui
si appoggiano tirannie ataviche e collaudati sistemi di
repressione".
Ha messo in guardia da certi imam musulmani "che non sono così
moderati come vogliono farci credere. Sono loro
`radio islam', più capillari di Al Jazeera". Ma si è detto
fiducioso che "il new deal iracheno può diventare realtà". E
grazie a chi? "Agli americani. Il papa si era opposto e aveva le
sue ragioni, ma per tutti gli iracheni aver annientato la dittatura è
stata una liberazione. Da soli non ci saremmo mai riusciti".
Ecco qui di seguito l'intervista di Sako a "Mondo e Missione",
apparsa nel numero di novembre 2003:
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Una luce in fondo al tunnel
Le notizie parlano di un dopoguerra interminabile. Come si vive oggi in
Iraq?
"Come in un paese che esce da trentacinque anni di dittatura,
durante i quali la gente è stata privata di tutto: del petrolio ma
anche dell'aria per respirare. Saddam Hussein aveva trasformato l'Iraq
in una enorme caserma. Due guerre, prima quella con l'Iran e poi quella
del Golfo, e dodici anni di embargo hanno prodotto un esodo massiccio di
iracheni all'estero e un milione di morti. Ebbene, a fronte di tale
situazione disastrosa, oggi la gente è contenta del cambiamento, della
rinata possibilità di libertà. In pochi mesi sono sorti ottanta nuovi
partiti, cinque dei quali cristiani, la libertà di stampa ha prodotto
un fiorire di decine di nuove testate, sei delle quali cristiane. E
cristiane sono pure alcune tv sorte nella zona di Mosul. Tutto questo
con Saddam non c'era. Anche dal punto di vista economico tutto è
cambiato: prima non si poteva pianificare nulla, adesso si possono fare
progetti, pur piccoli, per il futuro.
Un esempio: gli impiegati dello stato ricevono 150-200 dollari al mese,
prima solo 3 o 4".
Tutto questo, però, è stato pagato con una guerra.
"Sì, ma l'obiettivo non erano i civili. Gli americani hanno
bombardato, specialmente a Baghdad, colpendo gli edifici del governo, e
le bombe erano in genere precise".
Difende l'operato degli americani?
"Non voglio dire che siano angeli! Hanno i loro interessi, sono
venuti in Iraq per quello, non per liberare gli iracheni. Ma, di fatto,
il frutto è la libertà. Errori ne hanno fatti, ad esempio eliminando
dalla scena tutta la vecchia guarda del partito Baath e smantellando
l'esercito: lì dentro c'era anche gente perbene".
Temete gli uomini di Saddam ancora in circolazione?
"Di persone legate al dittatore non ne sono rimaste più. Ci sono
piuttosto combattenti arabi entrati in Iraq, pagati
dai movimenti integralisti di paesi vicini o forse addirittura dai
rispettivi governi. C'è chi non vuole un Iraq aperto e libero. I
responsabili dello stillicidio di scontri sono schegge impazzite, senza
alcun sostegno popolare".
È soddisfatto delle prove di democrazia in corso, ad esempio, a Mosul e
Kirkuk?
"Sì. La gente apprezza la libertà. A volte critica le scelte
degli americani, ma il processo in atto è efficace. Io stesso ero stato
eletto dalla popolazione vicepresidente del consiglio ad interim di
Mosul. Avevo lasciato la carica, tuttavia ero rimasto nel consiglio.
Stiamo lavorando con gli americani dal maggio scorso e sono ottimista.
Piano piano si stanno realizzando strade, ospedali; mi chiedo: perché
dovremmo fare resistenza? Non serve a nulla! Certo, gli Stati Uniti
hanno commesso errori".
Può dirne qualcuno?
"Sono lenti ad agire e soprattutto non hanno capito la mentalità e
le abitudini irachene, la storia del paese. Ma indubbiamente hanno fatto
anche cose buone. Il guaio è che non sapendo di chi possono fidarsi
vivono in uno stato di perenne diffidenza; i soldati tendono a sparare
alla prima avvisaglia di pericolo".
Perché pensa che gli americani non capiscano gli iracheni?
"Noi siamo moderati di natura, gli estremismi in atto sono
alimentati dall'esterno. È ovvio che, se nasce una democrazia in Iraq,
i paesi attorno si preoccupano".
Spera in un effetto domino? Ossia pensa che una soluzione democratica
per l'Iraq porterà conseguenze positive
sull'intera regione?
"Non saprei. Il popolo iracheno è tra i più istruiti dell'area;
l'embargo ha pesato molto anche sull'istruzione, ma la tradizione
culturale e accademica irachena è di buon livello, anche gli americani
l'hanno riconosciuto. Non dappertutto c'è lo stesso grado di
istruzione. Di certo questo è il momento in cui abbiamo più bisogno di
voi europei: l'Europa deve fare pressioni sui paesi confinanti con
l'Iraq. E noi abbiamo bisogno di imparare; la democrazia statunitense
non è l'unico modello, l'Europa ha un patrimonio prezioso. Il punto,
oggi, è realizzare una democrazia con connotati iracheni".
Come procede la scrittura della nuova costituzione?
"Il comitato nazionale è al lavoro, tra i suoi 200 membri vi sono
5 cristiani [uno dei quali è Sako - ndr]. Ma ci vuole tempo. Il futuro
si prepara a piccoli passi, bisogna formare la gente a una mentalità
nuova".
Che ruolo vede per i cristiani?
"I cristiani hanno un grande compito, pur essendo relativamente
pochi. Ma la nostra non è la forza dei numeri, bensì quella della
cultura, dei valori, dell'apertura, della fraternità, della possibilità
di critica amichevole".
Quanto ha influito il papa nell'evitare che il conflitto fosse letto
come una guerra di religione?
"Molto. I musulmani hanno tentato di dipingere la guerra come una
crociata contro l'islam; ma ben presto si sono
accorti che i bombardamenti toccavano tutti, cristiani compresi, e hanno
capito che gli Stati Uniti intervenivano
in Iraq per motivi economici e politici, non religiosi. Da parte nostra,
abbiamo formato gruppi misti, di cristiani e
musulmani insieme, per difendere le chiese e le moschee prima e durante
la guerra. Abbiamo inoltre promosso
conferenze per far conoscere il cristianesimo e l'islam; sono nate tante
amicizie e alcuni tra i musulmani hanno
recepito il nostro appello all'unità nazionale. Infine: gli aiuti che
abbiamo distribuito anche ai musulmani si sono rivelati una
testimonianza di carità, che non ha suscitato accuse di
proselitismo".
Questa è più che mai l'ora del dialogo?
"Nel consiglio municipale [di Mosul], dove sedevo, come prete ho
potuto fare molto per aiutare i musulmani a lavorare per la pace e il
dialogo, rinunciando alle armi della violenza. Io parlo sempre di
riconciliazione e di perdono, anche in tv. Mi è capitato di farlo con
al fianco un imam".
Cosa chiede alla comunità internazionale e alle Chiese d'occidente?
"Non dimenticateci! In Iraq ci sono 700 mila cristiani e fra un
anno, spentasi l'enfasi sull'Iraq, chi si ricorderà di loro? È già
capitato con la guerra del Golfo e l'embargo. Lancio un appello a tutte
le congregazioni religiose: venite in Iraq a dare una mano, specie per
la formazione, e non solo dei cristiani. Qui c'è da ricostruire l'uomo
iracheno, da soli non siamo capaci. L'Iraq è ricco di potenzialità
economiche, ma servono anche le risorse spirituali".
Quale futuro immagina per l'Iraq? E quale ruolo vede per l'Onu?
"L'Onu è finita, occorre pensare a un altro strumento. L'Europa
deve avere un ruolo cruciale. Prima della guerra l'appoggio è stato
forte, oggi ci manca il sostegno politico. Un errore: l'Europa non lasci
gli americani soli nella ricostruzione del paese".
Eccellenza, come va interpretata la sua nomina a vescovo?
"Nel contesto della fase delicata in corso, di transizione, i
cattolici - soprattutto quanti hanno responsabilità - devono mettersi
in gioco. Hanno più coraggio e una formazione culturale adeguata:
possono contribuire ad aprire gli orizzonti, forti dello sguardo
universale della Chiesa".
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(Intervista a cura di Gerolamo Fazzini)
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