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Sempre più
difficile la sopravvivenza per i cristiani dell'Iraq
Mons. Louis Sako, su AsiaNews 13
ottobre 2006
L’arcivescovo di Kirkuk
racconta ad AsiaNews che dai tempi della guerra con l’Iran la situazione dei
cristiani si è fatta sempre più complicata, ma esorta ad avere forza e
pazienza. L’importanza del dialogo espressa con una cena durante il Ramadan
con esponenti religiosi e politici musulmani.
È dalla guerra iraniana-irachena
che l’emigrazione ha cominciato a corrodere la comunità ecclesiale ed è
aumentata durante gli anni dell’embargo. Con la caduta del regime, abbiamo
auspicato tempi nuovi, sperando nell’instaurazione di uno Stato fatto di leggi
e di istituzioni, di rispetto della libertà e del pluralismo, che incoraggiasse
così molti emigrati a fare ritorno per cooperare alla ricostruzione e al
benessere. Ma la realtà è stata differente: la sicurezza si è deteriorata,
con il sorgere di cerchi infernali di morte, rapimenti e minacce, che hanno dato
luogo a uno stato di apprensione e di inquietudine. L’esodo tra la nostra
gente è aumentato ancora, gettando un’ombra sulla presenza cristiana in Iraq.
L'emigrazione ha disperso l'unica famiglia e ha raffreddato la determinazione di
chi è rimasto.
I nostri partiti nazionali e religiosi non hanno cooperato per tranquillizzare
la gente, esortandola a rimanere. La causa è nell’insieme dei nostri partiti
e nella loro chiusura in un orizzonte ristretto; sta nella mancanza di una
prospettiva futura nel clero, con la perdita di un piano pastorale aggiornato e
attivo anche nelle zone sicure.
La situazione oggi è peggiore. A Bagdad e Mosul i cristiani vivono nella paura.
Le famiglie non sanno dove andare: sono isolate, senza nessun protezione.
Nonostante questa situazione, esorto i cristiani, e specialmente i giovani, ad
avere pazienza e a rimanere, senza farsi scoraggiare; ad avere responsabilità
patriottica ed ecclesiale, partecipando all'opera politica per ricostruire il
Paese, a rafforzare la vita comune, promuovere la civiltà della vita, della
pace e della sicurezza degna dell'essere umano.
Per salvare il nostro popolo serve: una riunione generale di capi religiosi,
politici cristiani ed intellettuali per studiare l’avvenire della nostra
comunità; presentare un piano ai responsabili; un discorso politico equilibrato
e compiere gesti di riconciliazione. Il 9 ottobre ho offerto una cena per i capi
musulmani in occasione del Ramadan. Erano presenti oltre al sindaco, i membri
del consiglio municipale, tanti imam e mullah, sunniti e sciiti,
curdi, arabi, turcomanni ed il clero cristiano locale: in tutto, 100 invitati. A
loro ho rivolto queste parole: ‘Vi saluto cordialmente questa sera di Ramadan
con un saluto distinto che esce della stessa fede in Dio creatore e padre. Noi,
cristiani e musulmani, ci confrontiamo con grandi sfide come quelle poste dalla
confusione dei valori religiosi e morali, con conflitti e guerre. Non basta
condannare, bisogna reagire insieme, in maniera positiva per costruire una
società migliore in cui domini la giustizia e il rispetto reciproco per la
dignità umana, altrimenti perderemo tutto. Bisogna collaborare insieme per
riformare il cuore dell’uomo e seminarvi i valori dell’autenticità,
fedeltà, onestà e il bene comune. Una reazione di vendetta e posizioni
estremiste rovinano tutto e seminano la cultura della morte. Il dialogo e la
buona volontà, un cuore aperto e tollerante, una mano aperta per l’amicizia e
la solidarietà sono capaci di cambiare il mondo, perciò bisogna stare attenti
a coloro che vogliono sfruttare la religione per bassa politica e far uscire la
religione della sua nobile missione! I nostri rapporti non sono nati oggi, ma 14
secoli fa. È una relazione basata sulla fede in un solo Dio, ma anche nella
stessa madre umanità, in cui siamo fratelli e abbiamo lo stesso destino. Questa
cena fraterna di Ramadan è una agape in termini cristiani e traduce la
solidarietà, l’armonia, la tolleranza e il pluralismo in Kirkuk. Spero che
ormai diventerà una tradizione annuale, seguita anche da altre città.
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