Scontro tra civiltà? Siamo
solo agli inizi
Intervista col vescovo Cesare
Mazzolari di Stefano Lorenzetto
Mentre parla, il vescovo Cesare
Mazzolari tiene gli occhi fissi sulla carta geografica del Sudan, la
sua amatissima e tribolatissima patria adottiva. Una sola volta li
alza, pieni di lacrime, per guardarmi. Ed è quando mi annuncia che
morirà di morte violenta: "Si sta avvicinando il momento del
martirio. Spero che il Signore ci dia la grazia di affrontare questo
spargimento di sangue. C’è bisogno di purificazione. Molti
cristiani saranno uccisi per la loro fede. Ma dal sangue dei martiri
nascerà una nuova cristianità".
Gli avevo chiesto se e quando si esaurirà il vortice infernale in
cui siamo stati risucchiati l’11 settembre 2002: "O Dio ci
manderà una persona di carisma capace di aprire una via nuova
oppure permetterà un castigo, una prova misurata che ci porterà
alla saggezza. È un mondo cieco e sordo. Abbiamo bisogno di uno
scossone tremendo. Non ascoltiamo più i profeti. Quei pochi
rimasti: gli altri li abbiamo fatti fuori".
È uno scoppio di pianto sommesso, impossibile da trattenere. Più
tardi i suoi collaboratori, turbati, mi diranno: "Non abbiamo
mai visto monsignore così". Allora forse qualcosa di tragico
si sta davvero preparando, per lui e per noi. Solo che lui l’ha
messo in conto nel suo stemma episcopale: "Per reconciliationem
et crucem ad unitatem et pacem". Alla pace attraverso la croce.
Di solito i presuli prendono questi motti dal Vangelo. Il vescovo
della diocesi di Rumbek se l’è scritto da solo: qualcosa vorrà
pur dire.
Monsignor Mazzolari, 67 anni, missionario comboniano originario di
Brescia, vive tra i musulmani dal 1981. Li conosce bene.
Ha visto quello che hanno fatto a un anziano confratello dopo che
avevano trovato una bottiglia di whisky mezza vuota dimenticata da
un trasportatore in fondo a un container: "Cinquanta nerbate. A
metà flagellazione, un fratello più giovane li ha supplicati: ‘Basta,
i colpi rimanenti dateli a me’. Ma è stato inutile: hanno
continuato sino alla fine".
Ha visto quello che hanno fatto a Joseph Santino Garang, un ragazzo
cristiano ridotto in schiavitù, crocifisso perché una domenica s’era
fermato a pregare e aveva perso un cammello: "Il padrone gli ha
piantato i chiodi nelle mani, nei piedi e nelle ginocchia, versando
acido sopra le ferite. Adesso è un povero gobbetto, sembra un
poliomielitico. L’ho incontrato in un campo di ex deportati. Per
farli tornare dal nord li hanno costretti a spingere i vagoni del
treno".
Nel sud del Sudan, dove si trova Rumbek, s’è combattuta una
guerra civile che, tra scontri e malattie, in vent’anni ha fatto
dai due ai tre milioni di morti. Monsignor Mazzolari può ancora
predicare il Vangelo perché opera in un territorio controllato dal
Sudan People’s Liberation Army, SPLA, comandato da John Garang, un
ribelle di religione protestante che lotta contro il governo
islamico di Khartoum. La sua diocesi è lunga quanto l’Italia. I
suoi 30 preti devono curare 350mila anime ciascuno. La sua
cattedrale è una capponaia del diametro di 20 metri col tetto di
zinco: "Così non possono bruciarmelo".
Il vescovo dorme in capanne coperte di frasche: "Me ne
preparano una in ogni villaggio". È il buon pastore di un
gregge nomade che vaga in cerca di acqua e di sorgo: "Uno
sfollato su sei, nel mondo, è sudanese. C’è una drammatica
disparità tra profughi e sfollati. Lo sfollato non ha nemmeno una
pentola e deve continuamente spostarsi per sfuggire alla guerra,
alle carestie, alle epidemie". Lui mangia due volte al giorno.
I suoi fedeli due volte la settimana. "Con la differenza che io
potrei mangiare carne mezzogiorno e sera", si vergogna. Invece
tira avanti a fagioli, pane, tonno in scatola, pesce secco. Agli
affamati la polenta deve prepararla sua eccellenza: "Sono
talmente prostati dalla fame che non hanno neppure la forza di
cucinare". Due volte al mese arrivano dal Kenya le verze, ma
non sopravvivono più di un giorno ai 40-50 gradi di temperatura. Da
adesso a ottobre dovrebbe essere stagione di piogge: "Speriamo
che si riesca a coltivare qualcosa". Per il momento la sferza
del sole promette solo siccità. Come l’anno scorso, e l’anno
prima, e l’anno prima ancora.
Un gruppo di benefattori bresciani gli ha donato un telefono
satellitare Thuraya per chiamare in Italia lo 030.2180654, il numero
dell’associazione Cesar, che ha sede a Concesio, paese natale di
Paolo VI. Si sorprende molto quando gli spiego che la Thuraya è una
compagnia degli Emirati Arabi Uniti. Lui credeva che fosse svizzera.
Temo che da oggi lo userà malvolentieri.
D. – Converte molti musulmani?
R. – "Assolutamente no. Avvicinare un islamico
significherebbe condannarlo a morte. Chi si converte spontaneamente
è poi costretto a fuggire. Ma viene raggiunto e punito anche a
mille chilometri di distanza".
D. – E di cattolici che abbracciano l’islam ce ne sono?
R. – "Sì, purtroppo. Almeno tre milioni si sono trasferiti
al nord spinti dalla fame e hanno dovuto pronunciare la shahada, la
professione pubblica di fede, per avere un lavoro. I convertiti
vengono marchiati a fuoco. Li timbrano su un fianco, come le mucche,
per distinguerli dagli infedeli".
D. – Ha rapporti con le autorità islamiche di Khartoum?
R. – "Prima avevo il visto d’ingresso. Ora, se atterrassi
nella capitale, finirei in galera. Direbbero che ho fomentato la
rivolta, nonostante gli indipendentisti armati mi abbiano preso in
ostaggio e poi espulso per sei mesi perché avevo dichiarato che
rubavano il 60 per cento degli aiuti internazionali destinati agli
affamati. Se voglio tornare in Italia devo raggiungere via terra il
Kenya e imbarcarmi da Nairobi".
D. – Il Dio dei cristiani è l’Allah dei musulmani?
R. – "Nooo! E il concetto di Trinità dove lo mettiamo? Il
più grande dei loro profeti non è certo Cristo".
D. – Un musulmano che si comporta bene finirà nello stesso
paradiso dove andrà lei?
R. – "Sì, sono molto sicuro di questo. Dio non giudica come
noi, che siamo di manica stretta. Ci sarà una moltitudine di
creature, in paradiso, perché ciascuno vive secondo quello che il
Signore mette nel suo cuore".
D. – Pensa che dopo gli attentati di New York e di Madrid sia
cominciata la terza guerra mondiale?
R. – "Io penso, anzi pensavo, che dopo quelle stragi le cose
sarebbero cambiate in meglio. Invece ho visto un senso di rivincita
che diventa persino vendetta".
D. – Bush doveva ringraziare Osama Bin Laden?
R. – "L’insicurezza e la povertà possono arrivarti in casa
anche se sei il più ricco del mondo. Il potere non viene né dalla
vendetta né dai soldi. Il presidente degli Stati Uniti non può
andare al microfono e dire: li prenderemo tutti e li ammazzeremo
fino all’ultimo. L’ondata d’odio che ha suscitato nel mondo
islamico si propagherà per anni e anni".
D. – Che cosa avrebbe dovuto dire?
R. – "Oggi il Signore ha visitato anche noi".
D. – Sì, in aereo.
R. – "Più del 90 per cento del pianeta vive nell’insicurezza.
Gli americani in qualche modo l’avevano capito, erano tornati
nelle chiese a pregare. Abbiamo sprecato un segno del cielo, l’abbiamo
usato per dividere ancora di più gli uomini, anziché per unirli
nella compassione".
D. – Belle parole. Ma da vescovo, più che da uomo di stato.
R. – "Il mondo è povero, come è sempre stato. Non è dovere
di Bush giudicare e condannare i quattro quinti dell’umanità.
Altrimenti i più deboli ne ricavano l’impressione che il potere
più grande consista nella vendetta. Io credevo invece che la
vendetta appartenesse alla cultura dei primitivi. Il presidente
della nazione più forte ha disprezzato le autorità più alte della
terra: l’Onu e il papa. Questo incrina la fiducia nell’autorità
a livello planetario, lo capisce? Le conseguenze sono sotto gli
occhi di tutti. I soldati che dovevano compiere la vendetta hanno
perduto la testa, stanno facendo pazzie".
D. – Ma che c’entra la povertà con gli attentatori? Bin Laden
non è certo povero.
R. – "Bush non può vantarsi davanti a nessuno d’essere il
custode del rispetto dei diritti umani. Io ho vissuto 26 anni negli
Stati Uniti. Sono stato ordinato prete a San Diego, in California.
Ho lavorato tra i neri, ho assistito i messicani nelle miniere e so
che i diritti dei poveri e della minoranza di colore negli Usa sono
sistematicamente oltraggiati. Ai miei sudanesi che vanno a cercare
la prosperità oltre l’Atlantico dico sempre: qui sperimentate la
povertà di cibo e di cultura, in America proverete la peggiore
disgrazia che possa capitarvi, capirete che cosa significa essere
schiavi".
D. – Ma se perfino i principali collaboratori del presidente,
Colin Powell e Condoleezza Rice, sono neri!
R. – "Le assicuro che i neri americani, nella stragrande
maggioranza, possono aspirare al massimo a diventare pompieri o
poliziotti".
D. – Insomma, Bush doveva porgere l’altra guancia.
R. – "La Spagna dopo le stragi dell’11 marzo ha reagito in
tutt’altro modo".
D. – Bel modo.
R. – "Che lei voglia o no, io con questa intervista un po’
d’influenza su di lei la sto esercitando. Forse la faccio star
male, forse la faccio star bene, non so. Bush non s’accorge che
spargendo odio in tutte le direzioni sta dividendo ancora di più il
mondo".
D. – Abbia pazienza, non l’ha dichiarata lui questa guerra.
R. – "Ma guardi che patisco il terrorismo islamico anch’io,
sa? Quando un aereo di Khartoum bombarda un altro aereo che
distribuisce aiuti alimentari, lei come me lo chiama? I sudanesi
vivono un 11 settembre quotidiano eppure sui vostri giornali non v’è
traccia di questo martirio. Perché? Subiscono le ingiustizie e le
malattie senza astio. Da loro c’è solo da imparare. Battono il
tamburo e danzano anche se hanno la pancia vuota. Gli occidentali
sono umanamente molto più poveri, mi creda. Le tremila vittime
delle Torri Gemelle le vedo ogni giorno nei volti di chi viene a
chiedermi cibo e non lo trova e mentre muore si sente dire dal suo
vescovo: il Signore ti vuole bene. Allora con l’ultimo fiato che
ha in corpo mi sussurra: ‘Di’ al Signore che siamo stati puniti
abbastanza’".
D. – Mi dispiace. Ma non mi pare giusto incolpare di ciò gli
Stati Uniti.
R. – "Quando sono in gioco i loro interessi, gli americani
diventano prontissimi al dialogo. Che lavorano per Dio, In God We
Trust, l’hanno scritto solo sulle loro banconote. In realtà
credono più nel verde del dollaro che in Dio. A me sono venuti a
chiedere di dialogare con i musulmani. Cioè l’impossibile. Bush s’è
detto addirittura favorevole all’introduzione in tutto il Sudan
della sharia, la legge coranica, purché si faccia la pace tra nord
e sud e possano riprendere a pieno ritmo le estrazioni dell’oceano
di petrolio su cui il Sudan galleggia".
D. – Ci siamo. È il petrolio.
"Gli Usa non vogliono la pace del Sudan, vogliono il petrolio
del Sudan. Ci sono 1.500 chilometri di oleodotto dalla mia diocesi a
Khartoum. Ha cominciato la Chevron nel ’78 a venirsi a prendere le
nostre riserve. Poi sono arrivati tutti gli altri. Oggi il 42 per
cento del greggio ce lo rubano i cinesi, che lo fanno estrarre a un
piccolo esercito di 25mila uomini tra mercenari ed ex galeotti. Il
24 per cento lo porta via la Malaysia. Al Canada è subentrata l’India.
Ma la storia ha le sue vie per rimettere in ordine il mondo. Paolo
VI l’aveva previsto: ‘Se continuate a calpestare il povero,
viene il giorno in cui si ribellerà. E guai a voi quando vedrete la
rivoluzione del povero’. Sono le parole di un profeta che aveva
intuito dove ci avrebbe condotto il terrorismo, tanto da essere
pronto a sacrificare la sua stessa vita per salvare l’amico Aldo
Moro sequestrato dalle Brigate Rosse. Perché sapeva che l’unica
via è quella di Cristo: la misericordia".
D. – Ha visto il video della decapitazione dell’ebreo americano
Nick Berg?
R. – "No, ma l’ho sentito descrivere con una tale ricchezza
di particolari che è come se l’avessi visto. Abbiamo superato il
limite dell’umanità. Siamo tornati barbari".
D. – È ipotizzabile che un giorno si possa vedere un filmato in
cui alcuni cristiani mozzano la testa a un uomo inneggiando a Gesù?
R. – "Dovrebbero essere matti che per caso un tempo erano
cristiani".
D. – Anche la Chiesa, nei secoli bui, ha mandato al rogo dei
poveri innocenti recitando giaculatorie.
R. – "Ha sbagliato. Giovanni Paolo II ha chiesto scusa per
questo. Il libro della storia contiene nella pagina di sinistra i
peccati degli uomini e in quella di destra il perdono di Dio".
D. – Esagera chi sta parlando di scontro fra civiltà a proposito
di occidente e islam?
R. – "No. Siamo solo agli inizi. La Chiesa ha abbattuto il
comunismo, ma sta appena percependo la sfida dell’islamismo, che
è ben peggiore. Il Santo Padre non ha potuto raccogliere questa
sfida per motivi di età. Ma il prossimo papa si troverà ad
affrontarla. E la via d’uscita non è che noi abbiamo ragione e
loro torto. Ci vantiamo di una tradizione cristiana che non viviamo
nei fatti. Il musulmano ha una costanza di pratica, di proselitismo
superiore alla nostra. Già quando ti insegna a dire ‘sukran’,
grazie, per lui è missionarietà, perché l’arabo è la lingua
del Corano".
D. – Eppure suoi confratelli vescovi in Italia hanno concesso
cappelle da adibire a moschee.
R. – "Saranno i musulmani a convertire noi, non il contrario.
Ovunque s’insediano, prima o poi diventano una forza politica
egemone. Gli italiani intendono l’accoglienza da bonaccioni.
Presto si accorgeranno che i musulmani hanno abusato di questa
bontà, facendo arrivare un numero di persone dieci volte più alto
di quello che gli era stato concesso. Sono molto più furbi di noi.
A me buttano giù le scuole e voi gli spalancate le porte delle
chiese. Se uno è ladro, non gli dai una stanza dentro il tuo
appartamento, perché presto o tardi non troverai più i
mobili".
D. – Da una recente statistica risulta che solo il 20 per cento
dei musulmani presenti in Italia rispetta i precetti del Corano,
così come solo il 20 per cento dei cattolici va a messa tutte le
domeniche. Insomma, sono musulmani per modo di dire.
R. – "Ma la cultura islamica rimane. La religione è solo una
parte della loro civiltà. L’appartenenza alla umma, la comunità
dei credenti musulmani, nessuno la cancella".
D. – Ha senso esportare la nostra democrazia in società
agropastorali che non fanno alcuna distinzione fra politica e
religione?
R. – "No. È da ignoranti. Gli islamici basano le loro
decisioni solo ed esclusivamente sulla umma. I diritti dell’individuo
non sanno neppure che cosa siano. È assurdo pretendere di
inculcargli il primo emendamento della costituzione americana, nel
quale è previsto che il congresso non potrà fare alcuna legge per
proibire il libero culto, o per limitare la libertà di parola o di
stampa. Non lo capiscono proprio".
D. – In Sudan vige la sharia integrale?
R. – "Il governo fondamentalista sostiene che la applicherà
solo agli islamici. Che cosa capiterà a un imputato cristiano non
si sa, visto che non esiste il diritto alla difesa legale".
D. – Roberto Hamza Piccardo, segretario dell’UCOII, Unione delle
Comunità Islamiche in Italia, mi ha detto che in Sudan le
flagellazioni sono simboliche, perché "il fustigatore tiene il
Corano sotto il braccio, per alleggerire i colpi dello
scudiscio".
R. – "Ho conosciuto questo signore. Se lei lo sta ad
ascoltare, gliene racconta altre mille di menzogne analoghe".
D. – Però anche san Benedetto prevedeva la fustigazione per
"i malvagi, gli ostinati, i superbi e i disobbedienti".
R. – "Non è diventato santo per questo, ma nonostante
questo. Sono le piccolezze dei grandi uomini".
D. – Mi ha detto Piccardo che alcuni pezzi di sharia applicati in
Sudan, come il taglio della mano, rappresentano "rarissime
malvagità di boss locali che vessano la povera gente".
R. – "Non è vero. È lo stato che più applica la legge
coranica, che taglia mani e piedi pure ai non musulmani, e che
arresta senza prove".
D. – Piccardo mi ha anche detto che il leader islamista sudanese
Hassan Al Turabi, "giurista insigne", è contrario all’applicazione
della pena capitale agli apostati, cioè ai musulmani che passano
con gli infedeli, come invece prescriverebbe il Corano.
R. – "Al Turabi è la persona più scaltra di questo mondo.
È intelligentissimo, è avvocato, parla l’inglese meglio degli
inglesi e il francese meglio dei francesi. Ha una lingua biforcuta.
Ci metterà sempre nel sacco. Le faccio un esempio concreto. Nella
versione in lingua inglese della costituzione sudanese si afferma
che la religione di stato è l’islam e che gli altri culti sono
tollerati. Nella versione in lingua araba però non v’è traccia
di questa garanzia".
D. – Però nel novembre scorso Al Turabi è andato a
complimentarsi con Gabriel Zubeir Wako, arcivescovo di Khartoum,
primo cardinale sudanese, fresco di porpora. Anche lei sta da 23
anni in Sudan e nessuno le ha mai torto un capello.
R. – "Dovrebbe osservare anche i capelli che sono diventati
bianchi. La punizione più grande che l’arabo sa infliggere è l’oppressione,
il senso di falsità. Se può ingannarti, lo fa con tutto il cuore.
Si vanta della sua capacità di imbrogliarti, dargli del bugiardo è
fargli un complimento. Uno come Bush, Al Turabi lo mena per il naso
dove e quando vuole, per non dire di peggio. Io, piuttosto che
essere deriso e fatto fesso, preferisco prendere uno schiaffo. I
musulmani ti incutono paura, ti tengono in uno stato permanente di
insicurezza. È un’afflizione psichica continua, peggio di una
tortura".
D. – Esiste lo schiavismo in Sudan?
R. – "Loro giurano di no. Sono andati a dirlo anche a
Ginevra, all’Onu. Eppure le mie missioni sono piene di ex schiavi.
Nel ’90 ne ho riscattati personalmente 150, pagandoli meno di un
cane di razza: 50 dollari le femmine, 100 i maschi. Poi non l’ho
più fatto, perché mi sono accorto che poteva diventare un circolo
vizioso. Li usano come pastori oppure li mandano a servizio dalle
famiglie arabe benestanti di Khartoum. Li obbligano a frequentare le
scuole coraniche".
D. – Perché s’è fatto missionario?
R. – "Forse perché vedevo mio padre, un ortolano, portare la
minestra ai carcerati. Non ho mai pensato di fare altro. A 8 anni
ero chierichetto nel santuario del Sacro Cuore a Brescia, retto dai
padri comboniani. A 9 sono andato a visitare il loro seminario di
Crema. A 10 ci sono entrato".
D. – Ha paura?
R. – "Non farei il mestiere che faccio se ne avessi. Con la
paura non si sopravvive. Quando mi accorgo che un mio sacerdote ha
paura, lo tolgo dalla missione. È una malattia contagiosa. Il
giorno che diventassi pauroso, prego Dio di prendermi".
D. – Tornerà mai in Italia?
R. – "La mia patria è il Sudan. Ho promesso ai miei fedeli
che non li abbandonerò neanche da morto. Loro sanno già dove mi
devono seppellire".
D. – Crede che cristiani e musulmani potranno mai vivere in pace
fra loro?
R. – "Il rispetto verrà dopo che ci saremo conosciuti. Per
il momento condividiamo solo la terra che calpestiamo".
D. – C’è qualcosa che i miei lettori e io possiamo fare per
lei, padre?
R. – "Pregate tanto".
D. – Solo questo?
R. – "Non dimenticateci".
D. – Non la dimenticherò.
R. – "Lo farà. I poveri si dimenticano in fretta".
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[Ampio stralcio dell'Intervista a cura di Camillo Ballin e Francesco
Strazzari pubblicata da "Il Regno"/sett.2003]
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