La classe islamica di Milano: 
gli autosegregati nella scuola di tutti
Claudio Magris, su Corriere della sera del 12 luglio 2004

Il pluralismo è incontro, non tanti mini-mondi chiusi in se stessi.

A differenza che nei regimi totalitari, in democrazia si può e si deve mettere in discussione quasi tutto; essa anzi consiste nell’insieme di regole che consentono a ognuno - a ogni individuo e a ogni gruppo - di esprimere liberamente le proprie opinioni e di battersi per i propri valori, rispettando, ascoltando e valutando quelli degli altri e magari alla fine accettandoli, se nel dialogo risultano più convincenti. Per rendere possibile questo civile confronto, la democrazia deve escludere e vietare ciò che lo impedirebbe, proibire ad esempio di far valere le proprie ragioni con la violenza e così via. Alla base della libertà ci sono alcuni principi fondamentali che non vengono più messi in discussione. L’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, senza distinzione di sesso, nazionalità o religione, è per esempio uno di tali principi non negoziabili. Non siamo disposti a discutere con chi volesse negare il diritto di voto alle donne o ai neri o ai cattolici o agli atei. Anche nelle scelte morali, intellettuali o semplicemente pratiche della nostra vita quotidiana ci comportiamo in tal modo: discutiamo con chi afferma o nega un credo religioso, ma non con chi giustifica l’omicidio; cerchiamo di valutare l’opportunità o meno di assumere un certo farmaco, ma non prendiamo in considerazione l’idea di curare il mal di gola mettendoci in bocca la coda del gatto, come suggeriva, quand’ero bambino, una nostra vicina di casa. Questa messa al bando di alcune opinioni è sempre dolorosa, perché anche chi fa proposte aberranti o strampalate è un essere umano, ma è inevitabile.

La richiesta, avanzata da venti scolari o meglio dai loro genitori, di costituire al liceo di Scienze sociali «Agnesi», a Milano, una classe formata esclusivamente da alunne e alunni musulmani, è una richiesta irricevibile, che non avrebbe dovuto esser nemmeno presa in considerazione bensì lasciata cadere nel cestino. Non è in questione l’Islam, una delle grandi religioni monoteiste ossia uno dei fondamenti dell’umanità e della spiritualità umana, la civiltà che ha dato al mondo i fregi dell’Alhambra o la poesia di Rumi, non meno abissali degli affreschi della Sistina o dei versi di Lucrezio, e che anche oggi è ricca di creatività artistica, religiosa, culturale. Questa richiesta di chiudersi in un ghetto, che avrebbe potuto essere avanzata da un razzista invasato da odio antimusulmano, è un’offesa a tutti, anche e in primo luogo all’Islam, che rischia così, ancora una volta, di essere identificato con le sue più basse degenerazioni, che non risparmiano peraltro alcuna Chiesa. L’unico punto che può essere ragionevole di quella richiesta è l’ora separata di ginnastica per le ragazze, che tiene conto di una mentalità discutibile ma radicata in quelle famiglie e dunque può evitar loro qualche inutile turbamento.

La scuola non forma né ha da formare cattolici, protestanti o agnostici. È un fondamentale servizio pubblico, che deve fornire a tutti, senza alcuna discriminazione, gli strumenti e le conoscenze per orientarsi nel mondo e trovare in esso una propria strada dignitosa, dalla sopravvivenza materiale all’esplicazione della propria persona. Essa è un servizio pubblico, perché interessa e riguarda l’intera comunità di uno Stato, così come è un servizio pubblico la difesa, che protegge quella comunità dalle aggressioni. La scuola non ha da insegnare a credere in Cristo o in Maometto, ma dovrebbe contribuire a formare un individuo capace di accostarsi liberamente e spiritualmente ai grandi interrogativi dell’esistenza e alle risposte date loro dalle grandi religioni e filosofie. La scuola non può non essere laica, perché laico non significa, come tanti ignoranti continuano a ripetere, non-credente o non-praticante, bensì indica colui che, credente o ateo, sa distinguere ciò che compete alla fede e ciò che compete alla ragione, ciò che riguarda la Chiesa e ciò che riguarda lo Stato.

Uno dei più grandi laici che ho conosciuto era il cattolicissimo Arturo Carlo Jemolo, intransigente avversario di ogni scuola privata
e confessionale indebitamente sovvenzionata dallo Stato. La scuola non è e non può essere né una sagrestia né un seminario teologico; naturalmente essa si inserisce nella civiltà a cui appartiene e nelle sue tradizioni; solo una mente ottusa può scandalizzarsi che in una scuola del nostro Paese ci sia un crocefisso, perché il cristianesimo - come diceva un non credente quale Benedetto Croce - fa parte della nostra civiltà, a prescindere dalle nostre opinioni. Sarebbe un intollerabile sopruso costringere gli scolari alla devozione nei confronti di quel crocefisso, ma lì, appeso al muro, esso non fa male a nessuno, come non lo farebbero, nella scuola di un Paese islamico o buddhista, un segno o un’immagine che ricordassero il ruolo avuto da quelle religioni nei loro Paesi.

La scuola è scuola di tutti, portino essi uno zucchetto, una croce o un velo, che non offendono nessuno, purché il velo non impedisca all’insegnante che chiede alla studentessa di risolvere un’equazione alla lavagna di identificarla, onde non accada quello che accadeva nella scuola elementare in cui insegnava mia madre, in cui c’erano due indistinguibili gemelli che si facevano interrogare, a seconda dei casi, l’uno al posto dell’altro. All’«Agnesi» quelle 17 ragazze e quei 3 ragazzi islamici dovranno studiare non le sure del Corano che approfondiranno altrove, né i misteri del Rosario, bensì geografia e matematica, storia, francese e diritto; dovranno sapere il triangolo di Tartaglia e i verbi irregolari, la rivoluzione industriale e il movimento operaio, l’influsso della politica sull’ambiente e sul clima, cos’è una norma e cos’è un contratto.

Perché deve essere terribile, scandaloso, pericoloso, ripugnante per essi avere un compagno - o compagna - di banco cattolico, valdese, ebreo o né battezzato né circonciso? È così debole, la fede loro o dei loro genitori, da temere che far copiare un tema a un compagno avventista faccia vacillare la parola di Allah? Se, ahimè molti anni fa, quando ho iscritto i miei figli al liceo, avessi preteso che venissero assegnati a una classe formata solo da cattolici purosangue e non contaminata da ebrei, protestanti, musulmani o miscredenti, il preside mi avrebbe fatto sbattere fuori dal bidello e non avrebbe scomodato il consiglio di classe per la mia richiesta, considerandola odiosa o scervellata. Chi non tollera accanto a sé la presenza di un essere umano d’altra religione o che non ne professa alcuna, è un razzista intollerante.

La società multietnica, cui ci stiamo inevitabilmente avviando e che potrà rinnovare e arricchire grandemente la nostra creatività e la nostra cultura, esige dialogo, confronto, discussione e la scuola dovrebbe esserne il vivo crogiolo, non un convitto militare a compartimenti stagni. Le diversità sono manifestazioni distinte ma solidali della comune universalità umana, non diversità selvagge e irrelate, come predicava negli anni Settanta una pseudocultura che esaltava le sgrammaticature e le visceralità, credendosi di sinistra e preparando in realtà la strada all’odierna brutalità anarco-liberista che inneggia alla diseguaglianza; non è un caso che molti ex squartatori di libri («Feticci della cultura borghese», si diceva) siano oggi yuppies giulivi. Ma ben più gravi sono stati e sono l’assalto crescente alla scuola pubblica e il sostegno alla scuola privata, condotti da un governo di centro-destra che è tutto tranne laico e liberale e che privilegia la scuola privata e confessionale per mendicare l’appoggio della Chiesa cattolica e solleticare i gretti particolarismi e localismi che non vedono più in là del loro cordone ombelicale non ancora reciso e andato a male come carne guasta e hanno perso del tutto il senso dello Stato e dell’Italia, e sognano una scuola in cui si legga El Moroso de la nona di Giacinto Gallina anziché L’infinito di Leopardi. La Prima Repubblica, governata dai democristiani, ha difeso la scuola pubblica molto di più della Seconda Repubblica. Ma De Gasperi era un cattolico liberale e laico, a differenza del suo attuale successore al quale i tre termini si addicono ben poco, e aveva al suo fianco piccoli ma gloriosi partiti laici, ora scomparsi, come il Partito Liberale o il mio Partito Repubblicano.

Il pluralismo - sale della vita, della democrazia e della cultura - non consiste in una serie di mini mondi chiusi in se stessi e ignari l’uno dell’altro, bensì nell’incontro, nel dialogo e nel confronto; l’endogamia - fisica, culturale, religiosa - produce facilmente il cretinismo e altri fenomeni degenerativi. Una grande religione, poi, è chiamata a parlare al mondo. Gesù non ha fondato una loggia esclusiva ma ha mandato gli apostoli ad annunciare, senza imporla, la Buona Novella. Quegli alunni autosegregazionisti dell’«Agnesi» dovrebbero sapere che quell’uomo crocifisso, che essi hanno fatto togliere, per la loro religione è un grande profeta da venerare.
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Fonte: ilcorriere.it del 12 luglio 2004]
 

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