Nonostante il momento delicato c'è una
possibilità di dialogo?
«Tra Islam e Occidente i rapporti di scambio sono
stati di ogni genere. Soprattutto nel mondo mediterraneo questo è
evidentissimo: ne sono rimasti segni e tracce ovunque. Le differenze
esistono e vanno apprezzate in quanto tali, ma va anche detto che
queste differenze hanno già dialogato. Tra le nostre culture c' è già
stato il dialogo e c'è già stata la guerra. Questi scambi, queste
relazioni non dobbiamo inventarcele ora, dobbiamo studiarle e
conoscerle. Quando il presidente del consiglio dice che l'islam è
fermo da 1400 anni dimostra una ignoranza che non è solo sua, ma è
degli occidentali in genere. Questa ignoranza ritiene l'islam un
monolite immobile e non conosce tutti gli
intrecci che ci sono stati tra le nostre civiltà.
Lo ripeto: siamo già nel dialogo con
l'islam; dobbiamo ricordare le forme di questo dialogo e vedere come
svilupparle oggi».
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Il S. Padre in dialogo col Rabbino
Israel Mei e lo Sceicco Taimi,
a Gerusalemme, nel 2000
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Si è parlato, oltre che di Scontro delle civiltà, anche di
conflitto religioso. Cosa ne pensa?
«Le guerre in corso non c'entrano nulla con le religioni.
Queste contraddizioni che sono emerse in modo drammatico l'11 settembre non
hanno radici religiose. La religione è usata come un instrumentum regni,
un meccanismo, una forma di mobilitazione politica. Bin Laden è un
politico, un politico estremista, un politico terrorista, non un testimone
religioso. Dobbiamo capire che non ci sono più crociati ne da una parte ne
dall'altra».
Però si fa riferimento alla guerra santa. Come lo spiega?
«Da un punto di vista coranico la jihad come la
predica Bin Laden è vaniloquio. Sarebbe come se io proclamassi dei dogmi e
gli altri dicessero: "Guarda come sono i cattolici: Massimo Cacciari
proclama dei dogmi e si dice infallibile". Cosa c'entra? Sarei un
politico che dice di essere infallibile, e che mobilita le masse attraverso un
linguaggio che allude a una tradizione religiosa. Ma le contraddizioni restano
politiche. Attenzione: le azioni di questi signori sono politiche, anche se si
usano miti e simboli che hanno aspetto e dimensione religiosa. Non c'è niente
di cui stupirsi: è sempre stato fatto nella storia. Ricordiamo Napoleone,
Mussolini, Hitler. Il tono profetico religioso è sempre stato usato da
posizioni estremistiche politiche per mobilitare e fanatizzare le masse. Ma
questo non ha nulla a che vedere con la vera essenza di quelle tradizioni.
Niente è più politico che l'uso politico della religione».
In passato ci sono state comunque guerre
che avevano alla base motivazioni religiose.
Ai tempi delle crociate, almeno nel loro sorgere, c'era
una fortissima motivazione propriamente religiosa. Così come c'era nel VII e
nell'VIII secolo al momento dell'espansione dell'islam. Ma la crisi di oggi
non ha nulla a che vedere con quei periodi. Le motivazioni sono politiche».
Che ruolo hanno, in questa crisi, i Paesi arabi moderati?
Penso che alcuni di loro, tipo l'Iran, siano veramente
interessati alla sconfitta di questo terrorismo, così come lo è la Siria. L'Iraq è tutta
un'altra questione. Ma non credo che l'lraq oggi abbia la forza
di pensare a
organizzare un'azione come quella a
cui abbiamo assistito. Quindi penso che se gli Stati Uniti si muovono politicamente in modo efficace, questa unione con i Paesi arabi,
in questa fase, possa tenere. Però, più in là, è chiaro che si potrebbe
riprodurre tutto e anche peggio. È chiaro che o questi Paesi arabi, insieme
a noi, costruiscono una relazione, dei rapporti duraturi e fondati oppure le
loro frustrazioni, il loro senso di sudditanza verrà accresciuto. Con
conseguenze disastrose. I Paesi arabi sono un magma incandescente, un mix
di culture e di fondamentalismi religiosi che si legano a estremismi politici.
Se si continua a subordinare all'Occidente una grande cultura come l'islam si
continua a tenere il vulcano in ebollizione. E questo vulcano è in grado di
destabilizzare il pianeta. Bisogna cercare di disinnescare questa bomba».
Affrontando innanzitutto la questione mediorientale?
«Quella è una questione fondamentale. Nessuno lo dice, ma
l'uni-co che aveva l'autorità necessaria per imporre la pace, anche con certi costi e sacrifici per Israele, era
Rabin ed è stato ucciso da un israeliani, non da Arafat. In modo assolutamente misterioso come tutti questi grandi attentati politici, da
Kennedy a Moro. Da lì bisogna partire, altro che Bin
Laden. Oggi Sharon non è l'uomo adatto a condurre questa difficilissima trattativa, questa azione di pace; ammesso che sia
ancora possibile arrivarci, perché quando tra due popoli passano fiumi di sangue, fare la pace non è così semplice. Con Rabin si era arrivati a un passo dalla soluzione e un atto terroristico ben mirato ha fatto
saltare il banco»./font>
L'azione statunitense può risolvere la questione?
«Temo che questo enorme dispiegamento di forze nasconda una
volontà di occupazione permanente dell'area. Questo dal punto di vista
militare. Dal punto di vista politico mi preoccupa capire se la politica e la
diplomazia americana hanno il know how per affrontare la situazione. E
non credo che ce l'abbiano; anzi, penso che se la politica e la diplomazia
americana non hanno risolto queste questioni in passato ciò non sia avvenuto
per caso: non le hanno risolte perché l'impostazione culturale è un'altra. Gli
Stati Uniti ritengono che il mondo vada ordinato secondo il loro modello. Da
quando sono sorti, gli Usa ritengono che, per essere in ordine, il mondo deve
essere ordinato come lo sono loro. Il pensiero della differenza, temo sia
fisiologicamente alieno dalla loro mentalità, o almeno dalla mentalità delle
loro leadership da due secoli a questa parte».
L'Europa può intervenire in questa direzione?
«L 'Europa potrebbe contare moltissimo, perché ha questo
pensiero della differenza nel suo dna. In questo senso potrebbe davvero essere
una buona alleata degli Stati Uniti in quanto fa comprendere agli Usa come
affrontare questi problemi in modo costruttivo. L'Europa potrebbe avere una
grande funzione, ma sinora non l'ha avuta: è mancata totalmente in Medio
Oriente, nei Balcani. C'è l'auspicio che possa diventare qualcosa che finora
non è stata. Bisogna anche comprendere però che l'Europa fino a 60 anni fa si
massacrava. Non è semplice passare da un'Europa in guerra civile permanente a
un'Europa come spazio politico unificato in grado di interloquire autonomamente
con gli Stati Uniti. Probabilmente ci vorranno altri 60 anni. E nel frattempo
cosa succede? La situazione è davvero drammatica.
E il ruolo dei cristiani?
«Mi sembrano importanti le parole del Papa, quando richiama
alla pace senza aggiungere altro. I preti devono predicare il Vangelo. Quando
dicono "la pace sì, però" e si avventurano in affermazioni che
distinguono tra rappresaglie giuste e non giuste parlano da politici. È invece
necessario che ci sia ancora chi richiama alla pace nuda».
Annachiara
Valle
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[Fonte: Vita Pastorale -
Novembre 2001]
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