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«Dal
summit di Roma parte un segnale forte contro i ricatti Hezbollah»
Dalla conferenza di Roma ci aspettiamo un piano
economico per il Libano, un pacchetto di aiuti, magari e soprattutto il
segnale che la situazione è cambiata, che il mondo non accetterà più
un governo libanese debole, ricattato da un'Hezbollah armata di missili.
Non tocca ame dire ad americani, russi ed europei cosa decidere, ma
tocca a noi proteggere la vita dei nostri cittadini». Tzipi Livni, 47
anni, avvocato, due figli, prima donna ministro degli Esteri di Israele
dopo la mitica Golda Meir, ravvia la ciocca bionda con la mano, al polso
un orologio d'oro e al dito un anello di smalto blu, e conclude,
affranta per le due settimane di lavoro no stop tra bombardamenti,
vittime e telefonate con i leader del mondo: «E lo faremo senz'altro».
A Tzipi Livni il premier Ariel Sharon aveva affidato il ministero della
Giustizia, il suo successore Ehud Olmert il più prestigioso portafoglio
diplomatico, anche perché la Livni non s'era battuta contro di lui per
la successione ad «Arik» moribondo.
«Avrei perso» confida lei agli amici, con realismo. I critici malevoli, immancabili quando va al potere una donna bellissima, occhi chiari capaci di smontare ogni interlocutore furbo con un sopracciglio inarcato, spettegolano «Esteri? Tzipi non sa neppure l'inglese!». Lo sa invece, manell'intervista concessa poco primadell'incontro con la collega segretario di Stato americana Condoleezza Rice, la Livni esibisce l'accento come un accessorio di lusso, a suggerire: io resto israeliana. L'effetto è di sottile fascino. «So che tanti nel mondo vogliono farci passare per i teppisti del quartiere— dice la Livni nel suo ministero di pietra e vetro, il prato riflesso dalle torce d'argento in ricordo dei diplomatici uccisi e un verso di Isaia "Piangerà lacrime amare l'ambasciatore di pace..." —. Ma chiediamo solo quello che chiedono l'Onu, il G8 e la comunità internazionale. Applicare la risoluzione 1559 delle Nazioni Unite, disarmo delle milizie libanesi. Ce n'erano una trentina, tutte a casa, solo Hezbollah ha arricchito l'arsenale. La 1559 impone che l'esercito libanese sia dislocato al confine con Israele. Non abbiamo ostilità per Beirut. Hezbollah però ci bombarda da mesi, da rampe e bunker in territorio libanese. Dobbiamo reagire. Un'Hezbollah meno feroce, al cessate il fuoco dopo i nostri raid, aiuterà il premier libanese Siniora a riprendere il governo del Paese». Tzipi Livni è elegante, giacca e pantaloni neri, il pullover dolce vita bianco fasciante, taglio di capelli sapiente, ma negli occhi segnati, nel trucco applicato più per le telecamere che per seduzione, affiora la tensione di milioni di donne professioniste: inventarsi una divisa che si possa indossare nei tre minuti di corsa preparando la colazione per i figli e che resista, senza disfarsi, ai rigori della metropoli. Tradita solo da un'ombra sul viso luminoso, Tzipi Livni, madre e capo della diplomazia di un Paese in guerra, vive in diretta mondiale l'odissea femminile della sua generazione. Sguardo e taglio della mano negano ogni spazio a simili argomenti. Meglio chiedere, che fine farà Hezbollah? «C'è chi pensa possa diventare un partito politico, senza più armi. Vedremo. Meglio sarebbe intanto se anche dall'incontro di Roma, e da voi europei, venisse la denuncia che si tratta di un gruppo di terroristi jihadisti, come ritengono gli Usa. Spero se ne parli a Roma. Non dimenticate che Hezbollah è parte del governo a Beirut!». I Paesi ospiti del nostro governo, al summit di domani, discuteranno, a microfoni spenti, di forza multinazionale di pace. Voi chiedete per ora l'esercito libanese, che però è in gran parte composto da sciiti. Ieri il ministro della difesa Peretz ha lasciato intendere che la Nato potrebbe essere invitata, il vicepremier Peres s'è detto scettico. La sua posizione? Tzipi Livni alza lo sguardo al cielo, sgrana gli occhi e sbuffa appena a sentire dei colleghi rivali, «Israele è una democrazia. I ministri discutono in libertà, specialmente alla vigilia di un meeting come quello di Roma. Al segretario Rice ho detto che siamo disposti a un immediato cessate il fuoco, a patto di concludere lo smantellamento delle postazioni Hezbollah e che la 1559 dell’Onu ristabilisca il confine. Ne riparleremo quando la Rice torna qui, la prossima settimana. Ma un cessate il fuoco che permetta a Siria e Iran di riarmare lemilizie, a Nasrallah di spostare le rampe e riaprire la violenza, non ha senso. Il network di tunnel, bunker, armi nascoste in case, moschee, scuole, ospedali, deve essere distrutto. Non possiamo tornare a una forza di pace come l'Unifil, che si tira da parte quando rapiscono i nostri soldati». Il mondo però vede in tv l'effetto dei raid aerei, le bare libanesi numerate con la vernice spray, i profughi e si chiede, è giusto? «Lei è stato al Nord? Ha visto i nostri bambini nei rifugi, le case abbattute, la gente uccisa in automobile mentre va al lavoro? Il figlio del mio portavoce, alla colonia estiva, ha tanti compagni nuovi, scolari evacuati dal Nord. Io lamento ogni vittima, israeliana e libanese. Ma noi abbiamo fatto quanto la comunità internazionale ci ha chiesto, ci siamo ritirati dal Libano, adesso chiediamo di vivere in pace, senza missili puntati contro. Perché Hezbollah attacca ora, distruggendo la stagione turistica libanese che si annunciava fantastica per l'economia? Perché Nasrallah si oppone al rilascio dei militari rapiti? Ecco che cosa voi europei dovete condividere: non reagiamo alla provocazione che abbiamo ricevuto, gravissima, pioggia di razzi e soldati sequestrati in territorio sovrano. Reagiamo alla minaccia che questo nemico ci porta. Nasrallah prende in ostaggio i civili del Libano per farsi campione della causa islamica, della causa palestinese. Pagano i civili, con morti e feriti, ma non sono il nostro bersaglio. La rappresaglia non ci appartiene, non è un valore che riconosciamo». La battaglia di luglio in Libano apre un nuovo fronte. Dal 1973 in avanti Israele s'è mossa senza troppo curarsi dell'opinione pubblica mondiale, persuasa che fosse meglio difendere gli interessi nazionali che vincere l'operazione consenso. Ma da quando Ariel Sharon, il leader più indifferente alla simpatia altrui, ha ordinato di lasciare Gaza, c'è più attenzione per le ragioni di Gerusalemme e Tzipi Livni fatica su questa trincea: «Gli europei vedono in tv lo sgombero dei loro compatrioti, i libanesi che lasciano le case e si può immaginare Israele aggressore, prepotente. I leader possono capirci, ma l'opinione pubblica li pressa, "come fate ad appoggiare simili brutalità?". Rispondo che noi non abbiamo attaccato nessuno, abbiamo a lungo sopportato, ma che nessun Paese europeo resterebbe con le mani in mano se le sue città venissero bombardate senza ragione. Vogliamo che il governo libanese sia responsabile e stiamo provando a metterlo in condizione di agire. Il vertice di Roma può fare altrettanto. È un test per la comunità internazionale». Il ministro scuote il bracciale al polso destro e dà un'occhiata discreta all'orologio al polso sinistro. La Rice è qui. Tanta moderazione, tanta cura per la coscienza internazionale non è tradizionale per «Tzipi», vezzeggiativo dal biblico Tziporah. Suo padre Eitan era il capo militare dell'Irgun, l'organizzazione clandestina protagonista degli attentati contro gli inglesi prima dell'indipendenza, persuaso che Israele abbia diritto ai confini biblici, compresa la Cisgiordania palestinese, al punto da far incidere la sagoma del Paese sognato sulla pietra tombale. Sua madre Sarah, anche lei combattente, ha ispirato le ballate più popolari dell'Irgun. Da bambina Tzipi andava ogni week end dal futuro premier Menachem Begin, amico dei genitori, ad ascoltare la lezione politica del Likud, nessuna concessione agli arabi, niente terra in cambio di pace. Ma quando Sharon capisce che si deve spezzare il circolo e lasciare Gaza, la carismatica Tzipi lo segue. La rottura con i compagni di sempre è forte, perfino
mamma Sarah dirà: «Sentire mia figli Tzipi che in tv parla di due
Stati per due popoli, noi e gli arabi, mi addolora, non riuscivo a
guardarla, finché non è venuta a dirmi "Mamma, fa male anche a
me. Ma non c'è scelta, dobbiamo fare il nostro dovere per le
generazioni future"». Agli alleati Tzipi Livni spiega senza
rancore: «Israele è una democrazia fondata dagli ebrei. Se perdiamo le
radici ebraiche siamo finiti, ma se perdiamo la democrazia, tenendo i
palestinesi nell'apartheid, siamo finiti. Dobbiamo restare israeliani e
democratici». A questa donna il Paese affida ora la diplomazia. Diventi
o no, come dicono in tanti, la nuova GoldaMeir, donna premier
aGerusalemme, è certo che Tzipi Livni governerà la crisi, e la sua
faticosa giornata di mamma professionista, con l'occhio alle nuove
generazioni. Ripete spesso: «Ogni volta che guardo i miei figli
teenager, Omri e Yuval, penso all'Olocausto, e mi chiedo, sono già
grandi abbastanza per sopravvivere al forno crematorio dei bambini?». | indietro | | inizio pagina | |
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