Interpretazione e ricezione del Vaticano II.
Un Concilio ancora in cammino
12 aprile 2013
(Walter Kasper) Era l’epoca della guerra fredda; l’anno
prima dell’inizio del concilio era stato costruito il Muro
di Berlino e, durante il periodo della prima sessione, il
mondo, a causa della crisi di Cuba, si ritrovò sull’orlo del
baratro della guerra atomica. Oggi, cinquant’anni dopo,
viviamo in un mondo globalizzato, completamente diverso e in
rapido cambiamento, con nuove questioni e nuove sfide.
La fede ottimistica nel progresso e lo spirito
dell’incamminarsi verso nuovi confini sono volati via da
tempo. Per la maggior parte dei cattolici, gli sviluppi,
messi in moto dal concilio, fanno parte della vita
quotidiana della Chiesa. Ma ciò che vi sperimentano non è il
grande avvio e non è la primavera della Chiesa che ci
aspettavamo allora, ma è, piuttosto, una Chiesa dall’aspetto
invernale, che mostra segni chiari di crisi.
Per chi conosca la storia dei venti concili riconosciuti
come ecumenici, questo non costituirà una sorpresa. I tempi
postconciliari furono quasi sempre turbolenti. Il Vaticano
II, però, rappresenta un caso particolare. Diversamente dai
concili precedenti, non fu convocato per estromettere
dottrine eretiche o per comporre uno scisma; non proclamò
alcun dogma formale e non prese nemmeno deliberazioni
disciplinari formali. Giovanni XXIII aveva una prospettiva
più ampia. Vide profilarsi un’epoca nuova, cui andò incontro
con ottimismo, nella fiducia incrollabile in Dio. Parlò di
un obiettivo pastorale del concilio, intendendo un
aggiornamento, un “diventare oggi” della Chiesa. Non
s’intendeva un adattamento banale allo spirito dei tempi, ma
l’appello a far parlare la fede trasmessa nell’oggi.
La larga maggioranza dei padri conciliari colse l’idea.
Volle cogliere le richieste dei movimenti di rinnovamento
biblico, liturgico, patristico, pastorale ed ecumenico,
sorti tra le due guerre mondiali; cominciare una nuova
pagina della storia con l’ebraismo, carica di gravami, ed
entrare in dialogo con la cultura moderna. Fu il progetto di
una modernizzazione che non voleva e neanche poteva essere
modernismo.
Una minoranza influente oppose resistenza pervicace a
questo tentativo della maggioranza. Il successore di
Giovanni XXIII, Papa Paolo VI, era fondamentalmente dalla
parte della maggioranza, ma cercò di coinvolgere la
minoranza e, in linea con l’antica tradizione conciliare, di
raggiungere un’approvazione, per quanto possibile
all’unanimità, dei documenti conciliari, che in totale
furono sedici. Ci riuscì; ma si pagò un prezzo. In molti
punti, si dovettero trovare formule di compromesso, in cui,
spesso, le posizioni della maggioranza si trovano
immediatamente accanto a quelle della minoranza, pensate per
delimitarle.
Così, i testi conciliari hanno in sé un enorme potenziale
conflittuale; aprono la porta a una ricezione selettiva
nell’una o nell’altra direzione. Quale direzione indica la
bussola del concilio e dove conduce il cammino della Chiesa
cattolica, nell’ancor giovane XXI secolo? Resta nella
fiducia credente di Giovanni XXIII o fa il cammino a
ritroso, verso sterili atteggiamenti di difesa?
Si possono distinguere tre fasi della ricezione, fino ai
giorni nostri. Anzitutto, la prima fase della ricezione
entusiastica. Karl Rahner, subito dopo essere ritornato dal
concilio, in una conferenza a Monaco parlò di “inizio
dell’inizio”. Ma Rahner restò cautamente scettico in ciò che
riguardava il futuro. Altri si spinsero oltre e vollero
lasciare in disparte ciò che considerarono elementi della
tradizione trascinati nel concilio come accessori, frutto di
compromesso, e, come Hans Küng, effettuando un salto di
quasi duemila anni di storia della Chiesa, interpretarono la
dottrina della Chiesa in modo del tutto nuovo, partendo
dalla Sacra Scrittura.
La reazione non si fece attendere a lungo. Venne non solo
dall’arcivescovo Lefebvre e dalla Fraternità Sacerdotale San
Pio X, da lui fondata, ma anche da teologi che, durante il
concilio, erano stati annoverati tra i progressisti (Jacques
Maritain, Louis Bouyer, Henri de Lubac). Diversamente da
Lefebvre, loro non criticarono il concilio in sé, ma
criticarono la sua ricezione. Di fatto, nei primi due
decenni dopo il concilio, si ebbe un esodo di molti
sacerdoti e religiosi; in molti ambiti si ebbero uno
scadimento della prassi ecclesiastica e movimenti di
protesta di sacerdoti, religiosi e laici. Papa Paolo VI
parlò di «fumo di Satana», entrato da qualche fessura nel
tempio di Dio.
Ancora oggi, alcuni critici considerano il Vaticano II,
nel contesto della storia della Chiesa, come una sciagura e
come la maggiore calamità in tempi recenti. Ma rappresenta
un cortocircuito ritenere che tutto quel che avvenne dopo il
concilio sia accaduto anche a causa del concilio. I critici
misconoscono i trend di lungo respiro che agirono già prima
del concilio e che conobbero una notevole accelerazione nei
rivolgimenti sociali connessi con la protesta dei giovani e
degli studenti nel 1968. Dopo il 1968 le tendenze
emancipatrici ebbero effetti anche in ambiti ecclesiastici.
Durante il concilio, furono i progressisti a essere i veri
conservatori, che volevano rinnovare la tradizione antica;
dopo, presero la parola progressisti di nuovo genere, che
non si orientavano tanto alla tradizione più antica, quanto
invece ai “segni dei tempi” e che volevano interpretare il
Vangelo in base alla mutata situazione sociale.
Il Sinodo episcopale straordinario del 1985, venti anni
dopo la fine del concilio, iniziò la terza fase della
recezione. Il Sinodo ebbe il compito di fare un bilancio.
Consapevole della crisi, non volle però unirsi al diffuso
coro di lamenti. Parlò di situazione ambivalente, in cui,
oltre ad aspetti negativi, c’erano anche buoni frutti: il
rinnovamento liturgico, che portò a una maggiore
sottolineatura della Parola di Dio e a una partecipazione
più forte dell’intera comunità celebrante; la partecipazione
e cooperazione rafforzate dei laici alla vita della Chiesa;
gli avvicinamenti ecumenici; le aperture al mondo moderno e
alla sua cultura e molti altri ancora.
Fondamentalmente, il Sinodo sottolineò che la Chiesa, in
tutti i concili, è sempre la stessa e che l’ultimo concilio
debba quindi essere interpretato in rapporto a tutti gli
altri. Con questa regola ermeneutica, il Sinodo divenne il
punto di cristallizzazione della terza fase della ricezione,
quella magistrale. Il primo passo ufficiale della ricezione
fu la riforma liturgica; soprattutto, fu l’introduzione del
nuovo Messale, entrato in vigore la prima Domenica d’Avvento
del 1970. Questa riforma fu accolta con gratitudine dalla
larga maggioranza, ma incontrò anche critiche, in parte per
ragioni teologiche e, in parte, anche perché alcuni avevano
nostalgia della sacralità e dell’estetica del rito in uso
fino ad allora.
I documenti conciliari non sono rimasti lettera morta.
Hanno dato l’impronta alla vita in diocesi, parrocchie e
comunità religiose, mediante il rinnovamento della liturgia,
una spiritualità caratterizzata da un più forte connotato
biblico e la partecipazione dei laici e stimolato il dialogo
ecumenico e interreligioso. Il concilio è stato accolto
positivamente in particolare dai nuovi movimenti spirituali,
sorti negli anni Settanta, che hanno portato alla luce, in
modo nuovo, la molteplicità dei carismi e la vocazione
universale alla santità.
Neanche la ricezione ufficiale è rimasta ferma. In parte,
è passata dal concilio nelle riforme liturgiche, in cui il
concilio si atteneva ancora al latino come lingua normale
liturgica e non si parlava di una celebrazione orientata
verso il popolo. Lo stesso vale per le indicazioni sociali
ed etiche di Papa Giovanni Paolo II per l’attuazione della
libertà religiosa mediante la rescissione di concordati che
collidevano contro di essa e, infine, riguardo alla
“politica” dei diritti umani, con cui Giovanni Paolo II ha
fornito un contributo essenziale alla sconfitta delle
dittature comuniste dell’Europa Orientale. Vale anche
accennare alla sua enciclica sull’ecumenismo, Ut unum sint
(1995), che ha approfondito le enunciazioni ecumeniche del
concilio portandole avanti con energia. Tutto questo ha
trasformato positivamente, sotto molti aspetti, il volto
della Chiesa tanto all’interno quanto all’esterno.
L’ecumenismo, altro tema importante, ha dato molti buoni
frutti, più di quanti ci si aspettasse al tempo del
concilio.
Una Chiesa che si appoggi al mainstream sociale diventa,
in ultimo, superflua. Non diventa interessante se si orna
con piume non sue, ma se fa valere la propria causa in modo
credibile e convincente e se compare come contrafforte
all’opinione pubblica dominante. Cinquant’anni dopo la sua
apertura, c’è occasione di occuparsi ancora,
approfonditamente, dei testi conciliari, per trarne i
tesori, non ancora esauriti, che vi si trovano.
Naturalmente, non si può mitizzare il concilio o ridurlo a
un paio di frasi a effetto. Non si può nemmeno usarlo come
cava di pietra da cui prendere il materiale per singole tesi
desiderate. È necessaria un’ermeneutica conciliare, cioè
un’interpretazione meditata.
Punto di partenza devono essere i testi conciliari, la
cui interpretazione va fatta secondo le regole e i criteri
universalmente riconosciuti per l’interpretazione dei
concili. Bisogna trarre il senso di ogni affermazione, con
cautela, dalla storia della redazione, spesso complessa;
poi, bisogna collocarla nel complesso, articolato e ricco di
tensioni, di tutte le affermazioni conciliari; di nuovo,
bisogna intendere ciò nel complesso della intera Tradizione
e del suo sviluppo storico, come pure della ricezione avuta
nel frattempo. Infine, ogni singola affermazione va
interpretata, nel quadro della gerarchia delle verità,
partendo dal suo centro cristologico. La ricezione, sotto la
direzione e moderazione del Magistero, è questione
dell’intero popolo di Dio.
Un ulteriore, importante indizio l’ha dato Papa Benedetto
XVI, in un discorso ai cardinali e ai collaboratori della
Curia romana, tenuto il 22 dicembre 2005, in occasione del
quarantesimo anniversario della chiusura del concilio. Così
ha introdotto la fase più recente del dibattito
sull’interpretazione del concilio. Ha chiarito che il
consenso non deve essere solo sincronico (riguardante la
Chiesa attuale) ma anche diacronico (riguardante la Chiesa
in ogni epoca). Ha contrapposto due ermeneutiche: quella
della discontinuità e della rottura, che respinse, e quella
«della riforma, del rinnovamento». Le parole del Papa sono
state, spesso, interpretate in modo unilaterale,
tralasciando di considerare che non ha contrapposto, come
molti affermano, l’ermeneutica della discontinuità
all’ermeneutica della continuità. Il Papa parlò di
un’ermeneutica della riforma e del «rinnovamento nella
continuità» della Chiesa.
Quello della riforma è, nel complesso della Tradizione
medioevale, un termine fondamentale e una sfida che si
ripropone di continuo. Riforma non significa solo necessario
adattamento pratico di singoli paragrafi a circostanze
nuove. Chi parla di riforma, presuppone che sussistano
deficit e disfunzioni che rendono necessario rifarsi a
tradizioni più antiche, dimenticate, in particolare
all’inizio apostolico, rinnovandole creativamente.
Il discorso del Papa sulla riforma e il rinnovamento
nella continuità, riflette una concezione viva della
Tradizione, che, se alle argomentazioni fondamentali seguono
conseguenze pratiche, potrebbe riaccendere nuovamente il
fuoco del concilio, cioè potrebbe, nella continuità, portare
di nuovo l’impulso innovatore del concilio.
Domandiamo: Come può apparire tale rinnovamento e verso
dove può andare il cammino ulteriore? Come applicare la
eredità dei Papi Giovanni XXIII e Paolo VI oggi? Non ho un
programma complessivo. Posso, accennare solo ad alcuni,
pochi, punti di vista. Innanzitutto, il concilio ha accolto,
in modo critico-costruttivo, richieste importanti della
modernità. Oggi, mezzo secolo dopo, dall’età moderna siamo
passati a quella postmoderna. Molte vecchie questioni si
pongono in modo nuovo; anche molti ideali dell’illuminismo
vengono oggi messi in discussione. La fede nel progresso,
che c’era allora, come pure la fiducia nella ragione, sono
scosse. Ciò non significa che il concilio non sia più
attuale. La Chiesa deve prendere sul serio le richiese
legittime dell’età moderna. Deve difendere la fede sia
contro il pluralismo e il relativismo postmoderni sia contro
le tendenze fondamentaliste che rifuggono dalla ragione.
Seconda sfida: Nell’era postmoderna, è quella che viene
non solo dal nostro mondo occidentale secolarizzato e
relativista ma dall’emisfero Sud, cioè la sfida della
povertà della grande maggioranza degli uomini. Papa
Francesco con la sua opzione per una Chiesa povera per i
poveri lo ha ricordato. Lo ha fatto in continuità con il
Vaticano II, che nella Lumen gentium in una sezione spesso
dimenticata parla della sequela del Gesù diventato per noi
povero e della povertà e semplicità apostolica della Chiesa.
In questo senso Papa Francesco sin dal primo giorno del suo
pontificato ha dato la sua interpretazione direi profetica
del concilio e ha dato avvio a una nuova fase della sua
recezione. Lui ha cambiato l’agenda: in testa adesso ci sono
i problemi dell’emisfero Sud. Ciò porta a un terzo punto:
dobbiamo prendere atto che la situazione della Chiesa è
cambiata dai tempi del concilio. All’inizio del secolo
scorso solo un quarto dei cattolici si trovava fuori
d’Europa; oggi solo un quarto vive in Europa e oltre due
terzi dei cattolici vivono nell’emisfero Sud, dove la Chiesa
cresce. Nel nostro mondo globalizzato la Chiesa è diventata
Chiesa mondiale e universale, in modo nuovo. Il problema
dell’unità e della molteplicità si pone, quindi, in modo
affatto nuovo.
Il concilio ha concepito la Chiesa come communio, cioè
partecipazione alla comunione trinitaria e come unità nella
molteplicità. Certo, l’unità nel ministero petrino è un bene
alto e un vero dono del Signore alla sua Chiesa; una
ricaduta nella mentalità da Chiesa nazionale sarebbe, nel
nostro mondo globalizzato, tutt’altro che capace d’indicare
la via verso il futuro. Ma accettare un centro non significa
accettare un centralismo debordante. Già nel 1963, Joseph
Ratzinger ha richiamato l’attenzione sul fatto che l’unità
nel ministero petrino non dev’essere necessariamente intesa
come unità amministrativa, ma lascia spazio a una
molteplicità di forme amministrative, disciplinari e
liturgiche. Giovanni Paolo II, nell’enciclica Ut unum sint
(1995), ha sollecitato a meditare su nuove forme di
esercizio del primato. Benedetto XVI almeno due volte ha
ripreso questa frase. Pertanto è stato molto significativo,
che Papa Francesco abbia fatto riferimento al vescovo di
Roma che presiede nella carità, famosa affermazione di
Ignazio di Antiochia. Essa è d’importanza fondamentale non
solo per il proseguimento del dialogo ecumenico soprattutto
con le Chiese ortodosse, ma anche per la Chiesa cattolica
stessa.
Quarto punto di vista. Il problema dell’unità nella
molteplicità si acuisce nella questione della libertà del
singolo essere umano e del singolo cristiano. Oggi, si parla
molto dell’individualizzazione della nostra società. Il
problema si pone anche nella Chiesa. I problemi si pongono
per molti cristiani e pastori, soprattutto nelle questioni
etiche.
L’ultimo punto è il più importante: la questione di Dio.
Già il concilio ha annoverato l’ateismo, nelle sue varie
modulazioni, tra le questioni serie di quest’epoca. Tale
situazione, da allora, si è acuita in modo drammatico. Il
problema di oggi è, che Dio per molti non è più un problema,
ovvero sembra che non sia più un problema e che la sua
esistenza non interessi più. Il problema è l’indifferenza.
In tale situazione non possiamo preoccuparci soltanto
degli effetti sociali, culturali e politici della fede,
considerando la fede in Dio come premessa ovvia. Non basta
neanche avere cura soltanto delle questioni di riforma
interne alla nostra Chiesa; queste sono interessanti solo
per gli insider. Le persone lì fuori, nell’“atrio delle
genti”, hanno altre domande: da dove vengo e dove vado?
Perché e per quale fine esisto? Perché il male, perché la
sofferenza del mondo? Perché devo soffrire? Come posso
trovare felicità, dove trovare uno che mi sia vicino, mi
capisca, mi conforta, mi dia un po’ di speranza?
Non dobbiamo parlare di una trascendenza vaga, ma,
dobbiamo parlare concretamente, del Dio che, in Gesù Cristo,
si è rivelato come Dio con noi e per noi, del Dio
infinitamente misericordioso, che ci aspetta, che in ogni
situazione ci dà una nuova chance e a cui noi, nella
preghiera, possiamo dire «Abbà, Padre». Dobbiamo parlare
della misericordia di Dio, quella misericordia, che è — come
ha detto Papa Francesco — il nome del nostro Dio.
Il cammino avviato dal concilio non è finito. La eredità
ricca che i due Papi Giovanni XXIII e Paolo VI ci hanno
lasciata ancora non è esaurita. Dobbiamo percorrerlo, con
pazienza ma anche con determinazione e coraggio e,
nonostante tutto, con hilaritas, gioia interiore. Come disse
il profeta: «La gioia per Dio è la nostra forza» (Neemia, 8,
10). Il concilio ha destato la gioia per Dio, per la fede,
per la Chiesa. Bisogna anzitutto riaccenderla di nuovo in
noi, affinché possa entusiasmare anche gli altri. La gioia è
contagiosa. Certo, ognuno di noi è solo una piccola luce.
Anche il movimento di rinnovamento preconciliare cominciò
con singoli individui e piccoli gruppi. Nel rinnovamento
postconciliare, non andrà diversamente. Però, se non ci
facciamo rovinare la gioia, allora, un giorno, essa potrà
passare agli altri. Può contribuire a far sì che la Chiesa,
in un mondo che cambia velocemente ed è profondamente
insicuro, diventi, in modo nuovo, bussola e segno
d’incoraggiamento.
L'Osservatore Romano, 12 aprile 2013.