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Incontri
internazionali 'Uomini e religioni' -
Aachen, 7-9 settembre 2003 |
I. Lo
scopo ecumenico di uno scambio tra Oriente e Occidente
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“Apri la finestra verso Oriente!”, così
disse, quando stava per morire, il profeta Eliseo al re Ioas (2 Re 13,
17). “Ex oriente lux” [“Da oriente viene la luce”], ad Oriente
sorge il sole, da Oriente viene la luce nell’oscurità della notte.
Per il cristiano è Gesù Cristo il sole di giustizia che sorgerà
(Mal 3, 20) e la luce che sorge dall’alto per rischiarare (Lc 1,
78-79).
Quando nel 1995 il Papa Giovanni Paolo II scrisse
un'enciclica dal titolo “Orientale Lumen”, “La luce
dell’Oriente”, l’immagine dell’Oriente ricevette un altro
significato. Il Papa ricordava che la luce del Vangelo proviene da
Oriente, in particolare da Gerusalemme e che l’Oriente ha lasciato
alla Chiesa una ricca eredità, che è patrimonio dell’intera
Chiesa.
A queste Chiese d’Oriente bisogna aprire la
finestra – non come missionari o per costringerle ad accettare le
nostre concezioni. Il Movimento ecumenico mira all’unità visibile
della Chiesa, ma non all’uniformità della Chiesa. Questo scopo
dell’unità nella molteplicità non può essere raggiunto sulla via
del proselitismo o dell’uniatismo, ma attraverso uno scambio
reciproco. La definizione più breve e pregnante del Movimento
ecumenico suona perciò: “Scambio di doni”.
Dietro questa definizione si trova un approccio per
cui la separazione non determina soltanto una privazione per
l’altro, ma impedisce anche a noi stessi di realizzare pienamente in
concreto la cattolicità propria della Chiesa (Unitatis Redintegratio
4). Il dialogo ecumenico deve aiutare la Chiesa a realizzare
concretamente, attraverso lo “scambio dei doni”, la pienezza del
suo carattere cattolico e – come il Papa ha ripetutamente detto –
a respirare con entrambi i polmoni.
II.
Stazioni e situazione attuale dell’avvicinamento ecumenico
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Le Chiese ortodosse sono entrate nel movimento
ecumenico molto prima della Chiesa cattolica. Il Patriarcato ecumenico
apparteneva ai padri fondatori del movimento ecumenico ed ai membri
fondatori del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Mentre le Chiese
ortodosse hanno partecipato fin dall’inizio, la Chiesa cattolica è
entrata ufficialmente nel movimento ecumenico soltanto a partire dal
Concilio Vaticano II (1962-65), con il decreto conciliare
sull’ecumenismo “Unitatis redintegratio”.
In occasione della visita del Papa in Terra Santa si
giunse il 5 Gennaio 1964 ad uno storico incontro a Gerusalemme tra il
Patriarca ecumenico Atenagora ed il Papa Paolo VI, che portò al
dialogo dell’amore. Da allora vi sono una regolare corrispondenza e
reciproche visite tra il Papa ed i responsabili delle Chiese
autocefale d’Oriente. In tal modo sono già stati ripresi importanti
elementi della comunione della Chiesa antica.
Con la fondazione della “Commissione teologica
comune internazionale” nel 1980 si inaugurò, dopo il dialogo
dell’amore, il dialogo della verità. Dal 1980 la Commissione ha
elaborato tre importanti documenti. Il documento di Valamo prevedeva
che si dovesse parlare successivamente del tema del primato,
soprattutto del primato del vescovo di Roma. La discussione su questo
argomento doveva essere intrapresa nel 1990 a Freising.
Tuttavia, a partire da Freising, il dialogo teologico
internazionale si è purtroppo arrestato, a motivo dei mutamenti
politici nell’Europa orientale dopo il 1989. La riguadagnata libertà
politica ha permesso che, in Ucraina, in Transilvania, in Romania, le
Chiese cattoliche orientali, brutalmente perseguitate da Stalin dopo
il 1945, ritornassero alla vita pubblica. La Chiesa ortodossa perse in
tal modo molti fedeli e parrocchie. Questo salasso costituì per essa
un fenomeno doloroso. Tuttavia non si trattava, per così dire, di un
movimento ordito dal Vaticano, bensì di un movimento popolare, “dal
basso”. La gente voleva vivere in comunione con Roma la sua eredità
vecchia di secoli, la sua tradizione di Chiesa d’Oriente. Chi può
vietarglielo?
Ad aggravare la situazione si aggiunse il fatto che
sette occidentali che non avevano radici storiche in Oriente e qualche
ecclesiastico troppo zelante considerarono la Russia come un deserto
religioso, senza tener conto della secolare tradizione cristiana della
Russia. Così, da allora la questione degli uniati e la riprovazione
del proselitismo si sovrapposero ai contatti ecumenici. Sono convinto
che i problemi si potranno risolvere con una buona volontà da
entrambe le parti. Del resto, come possono trovarsi soluzioni, se non
c’è dialogo?
Nel 1993 la “Commissione teologica comune
internazionale”, riunita a Balamand, poté esprimersi, con un
pronunciamento comune, in questi termini: le Chiese cattoliche
orientali unite a Roma hanno diritto ad esistere, ma il cosiddetto
uniatismo non è più oggi un metodo per raggiungere l’unità della
Chiesa. Oggi ci riconosciamo come Chiese sorelle. Perciò ogni
proselitismo deve essere respinto. Queste dichiarazioni costituirono
un progresso, ma non tutte le Chiese ortodosse erano presenti a
Balamand ed anche in seguito non tutte hanno riconosciuto questo
documento. Le Chiese ortodosse insistevano per ulteriori chiarimenti
in proposito. Dopo una difficile fase intermedia poté di nuovo
tenersi una riunione plenaria della commissione nel luglio 2000 a
Baltimora (USA).
Fu un incontro intenso, ma anche difficile. Le due
parti impararono a capirsi, ma non fu ancora possibile un accordo
sulla questione dello status teologico e canonico delle Chiese
cattoliche orientali. Tuttavia entrambe le parti si dichiararono
favorevoli al proseguimento del dialogo. La Chiesa cattolica non è
solo pronta a ciò: essa spinge in questa direzione; il Patriarcato
ecumenico si impegna con intensità nello sforzo di raggiungere da
parte ortodossa un consenso per la ripresa.
L’esito di Baltimora rivela la carenza
nell’impostazione della discussione a partire dal 1990. Il problema
delle Chiese cattoliche orientali può essere risolto soltanto in un
contesto più ampio. Le Chiese cattoliche orientali vogliono vivere in
comunione con Roma la loro tradizione di Chiese orientali, perché
sono convinte che la comunione con Roma è essenziale per il loro
essere Chiesa. Si può pertanto risolvere il problema solo se si
procede nella questione della comunione con Roma e cioè del primato
di Roma.
Certo non tutti i contatti si sono interrotti. Le
relazioni della Santa Sede con il Patriarcato ecumenico e con il
Patriarcato di Antiochia con sede a Damasco rimangono buone. Negli
ultimi anni il Pontificio Consiglio per l’Unità ha sviluppato e
approfondito soprattutto le relazioni con le Chiese ortodosse di
Grecia, Romania, Serbia e Bulgaria. Con queste Chiese si è giunti
intanto ad intense relazioni amichevoli e ad una fruttuosa
collaborazione pratica, che io appena due anni fa avrei ritenuto
impossibile.
Soprattutto in America del Nord il dialogo ha portato
ad ottimi risultati. Sono anche importanti i contatti tra singole
diocesi e monasteri, i contatti di alcuni movimenti, come i Focolarini
o Sant’Egidio, infine gli incontri e le amicizie personali. Non si
deve dimenticare l’attività di opere caritatevoli come
“Renovabis” e “Kirche in Not”. Nel complesso siamo su una
strada buona.
III.
Prospettive per il futuro
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Se, in conclusione, parliamo delle prospettive per il
futuro, dobbiamo ricordarci che l’ecumenismo non è una strada a
senso unico. Si tratta di uno scambio reciproco. Il Concilio Vaticano
II ha spiegato, e il Papa Giovanni Paolo II lo ha ripreso, che
”determinati aspetti del mistero rivelato sono talvolta percepiti in
modo più adatto e posti in migliore luce dall’uno che non
dall’altro, cosicché si deve dire allora che quelle varie formule
teologiche non di rado si completano, piuttosto che opporsi” (Unitatis
Redintegratio 17). Ciò vale, secondo il nostro convincimento, innanzi
tutto per quanto riguarda la classica questione controversa
sull’aggiunta del Filioque nella professione di fede.
Pertanto ci poniamo in conclusione la domanda: che
cosa possiamo imparare dall’Oriente? Potrei nominare diversi punti:
l’Oriente può renderci nuovamente coscienti del carattere di
mistero della fede; può essere un contrappeso al pericolo dello
scivolamento in un secolarismo teologico; l’Oriente può mostrare
che teologia e mistica, teologia ed esperienza spirituale vanno di
pari passo. Perciò per l’incontro ecumenico con l’Oriente non
sono importanti solo le commissioni teologiche, ma altrettanto lo
scambio spirituale, in particolare lo scambio a livello monastico.
Parimenti importante è il radicamento dell’oriente nella
tradizione, specialmente nella tradizione dei Padri della Chiesa e dei
primi sette concili ecumenici, universalmente riconosciuti. Questa
comprensione della tradizione può essere un contrappeso nei confronti
del pericolo di un oblio della tradizione che molto facilmente si
abbatte su adattamenti modernistici. Potrei ancora nominare
l’accentuazione del ruolo dello Spirito Santo e l’ecclesiologia
eucaristica di comunione. Le Chiese d’Oriente comprendono l’unità
della Chiesa non in termini principalmente giuridici, ma nella comune
partecipazione alle cose sante, specialmente al grande mistero
dell’eucaristia. Per il futuro dell’avvicinamento ecumenico sarà
fondamentale, se e come noi potremo conciliare l’ecclesiologia
universalistica occidentale con l’ecclesiologia di comunione dei
Padri della Chiesa, in modo da assicurare sia l’unità di fondo
della Chiesa che la legittima molteplicità delle Chiese.
In questo contesto posso occuparmi solo di un
aspetto, che costituisce il nocciolo duro delle della nostra
controversia. Dall’ecclesiologia di comunione risulta il principio
della sinodalità. Mediante questa struttura sinodale le Chiese
ortodosse hanno salvaguardato un’antica tradizione. Il Vaticano II
ha cominciato a ripristinare la struttura sinodale. Il futuro incontro
con l’ortodossia dipenderà in maniera decisiva dal modo in cui
colleghiamo il principio gerarchico con il principio di comunione
sinodale.
Nelle Chiese orientali ciò si realizza in tal modo:
da un lato rispettivamente il vescovo o il metropolita o il patriarca
sono legati al Sinodo, dall’altro anche il Sinodo non può fare
niente senza l’approvazione rispettivamente del vescovo o del
metropolita o del patriarca. Il suo primato d’onore (primatus
honoris) è perciò non solo un primato onorifico, ma si poggia su una
posizione giuridica determinante. La questione sarà dunque se e come
questo principio si può assumere a livello di Chiesa universale e
applicare alla posizione del vescovo di Roma, che anche secondo la
convinzione degli Ortodossi è il primo dei vescovi. Un simposio
organizzato dal Pontificio Consiglio per l’Unità nel Maggio 2003
sul ministero petrino ha mostrato che la formulazione di tale domanda
non è un’impresa disperata.
La Chiesa cattolica considera il ministero petrino
come una sua ricchezza, della quale vuole rendere partecipi, in una
forma rinnovata, le altre Chiese. Il ministero petrino è per essa
segno visibile e strumento di unità, come un garante della libertà
della chiesa. D’altra parte l’incontro con la tradizione della
Chiesa d’Oriente può aiutarci a riconoscere di nuovo con maggiore
chiarezza la dimensione sinodale e di comunione della Chiesa, propria
delle Chiese orientali, ed a realizzarla nella pratica, senza
rinunciare ad alcunché di essenziale della nostra fede.
Dopo mille anni di separazione, l’incontro tra
Oriente e Occidente non è semplice. L’Oriente non ce lo facilita,
ma anche noi non sempre glielo rendiamo facile. Da entrambe le parti
sono necessari sia la conversione che il cambiamento delle idee. La
conversione dei cuori può alla fin fine ottenerla solo lo Spirito di
Dio. Perciò la preghiera è l’anima dello sforzo ecumenico.
Soltanto con l’aiuto di Dio possiamo costruire ponti sul fossato
della nostra reciproca ignoranza, dei nostri malintesi e pregiudizi,
possiamo purificare la nostra memoria e giungere ad una piena
comunione, fonte di arricchimento per gli uni e per gli altri. Dopo
l’unità nella diversità del primo millennio, dopo il vicinato e la
contrapposizione del secondo millennio, il terzo millennio appena
iniziato si muterà – così almeno v’è da sperare - in una
riconciliata unità nella diversità.
Aspettative a breve termine sono certo
irrealistiche secondo l’umano giudizio. Abbiamo bisogno di un lungo
respiro. Tuttavia il tempo urge. La necessità di fronteggiare il
secolarismo e le nuove sette, il dialogo con le altre religioni, in
particolare con l’Islam, l’impegno contro la violenza e la fame
nel mondo e in favore della pace, della libertà e della giustizia
sociale, il futuro dell’Europa, tutto ciò esige la nostra comune
testimonianza. Non da ultimo ci obbliga l’incarico affidatoci dal
Signore, di sforzarci per l’unità.
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(*)
Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani