Card. Walter Kasper (*)  


Incontri internazionali 'Uomini e religioni' - 
Aachen, 7-9 settembre 2003
I - Lo scopo ecumenico di uno scambio tra Oriente e Occidente

II - Stazioni e situazione attuale dell'avvicinamento ecumenico

III - Prospettive per il futuro
 


I. Lo scopo ecumenico di uno scambio tra Oriente e Occidente                                                                                        torna su

 “Apri la finestra verso Oriente!”, così disse, quando stava per morire, il profeta Eliseo al re Ioas (2 Re 13, 17). “Ex oriente lux” [“Da oriente viene la luce”], ad Oriente sorge il sole, da Oriente viene la luce nell’oscurità della notte. Per il cristiano è Gesù Cristo il sole di giustizia che sorgerà (Mal 3, 20) e la luce che sorge dall’alto per rischiarare (Lc 1, 78-79).

Quando nel 1995 il Papa Giovanni Paolo II scrisse un'enciclica dal titolo “Orientale Lumen”, “La luce dell’Oriente”, l’immagine dell’Oriente ricevette un altro significato. Il Papa ricordava che la luce del Vangelo proviene da Oriente, in particolare da Gerusalemme e che l’Oriente ha lasciato alla Chiesa una ricca eredità, che è patrimonio dell’intera Chiesa.

A queste Chiese d’Oriente bisogna aprire la finestra – non come missionari o per costringerle ad accettare le nostre concezioni. Il Movimento ecumenico mira all’unità visibile della Chiesa, ma non all’uniformità della Chiesa. Questo scopo dell’unità nella molteplicità non può essere raggiunto sulla via del proselitismo o dell’uniatismo, ma attraverso uno scambio reciproco. La definizione più breve e pregnante del Movimento ecumenico suona perciò: “Scambio di doni”.

Dietro questa definizione si trova un approccio per cui la separazione non determina soltanto una privazione per l’altro, ma impedisce anche a noi stessi di realizzare pienamente in concreto la cattolicità propria della Chiesa (Unitatis Redintegratio 4). Il dialogo ecumenico deve aiutare la Chiesa a realizzare concretamente, attraverso lo “scambio dei doni”, la pienezza del suo carattere cattolico e – come il Papa ha ripetutamente detto – a respirare con entrambi i polmoni.

 II. Stazioni e situazione attuale dell’avvicinamento ecumenico                                                                      torna su

Le Chiese ortodosse sono entrate nel movimento ecumenico molto prima della Chiesa cattolica. Il Patriarcato ecumenico apparteneva ai padri fondatori del movimento ecumenico ed ai membri fondatori del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Mentre le Chiese ortodosse hanno partecipato fin dall’inizio, la Chiesa cattolica è entrata ufficialmente nel movimento ecumenico soltanto a partire dal Concilio Vaticano II (1962-65), con il decreto conciliare sull’ecumenismo “Unitatis redintegratio”.

In occasione della visita del Papa in Terra Santa si giunse il 5 Gennaio 1964 ad uno storico incontro a Gerusalemme tra il Patriarca ecumenico Atenagora ed il Papa Paolo VI, che portò al dialogo dell’amore. Da allora vi sono una regolare corrispondenza e reciproche visite tra il Papa ed i responsabili delle Chiese autocefale d’Oriente. In tal modo sono già stati ripresi importanti elementi della comunione della Chiesa antica.

Con la fondazione della “Commissione teologica comune internazionale” nel 1980 si inaugurò, dopo il dialogo dell’amore, il dialogo della verità. Dal 1980 la Commissione ha elaborato tre importanti documenti. Il documento di Valamo prevedeva che si dovesse parlare successivamente del tema del primato, soprattutto del primato del vescovo di Roma. La discussione su questo argomento doveva essere intrapresa nel 1990 a Freising.

Tuttavia, a partire da Freising, il dialogo teologico internazionale si è purtroppo arrestato, a motivo dei mutamenti politici nell’Europa orientale dopo il 1989. La riguadagnata libertà politica ha permesso che, in Ucraina, in Transilvania, in Romania, le Chiese cattoliche orientali, brutalmente perseguitate da Stalin dopo il 1945, ritornassero alla vita pubblica. La Chiesa ortodossa perse in tal modo molti fedeli e parrocchie. Questo salasso costituì per essa un fenomeno doloroso. Tuttavia non si trattava, per così dire, di un movimento ordito dal Vaticano, bensì di un movimento popolare, “dal basso”. La gente voleva vivere in comunione con Roma la sua eredità vecchia di secoli, la sua tradizione di Chiesa d’Oriente. Chi può vietarglielo?

Ad aggravare la situazione si aggiunse il fatto che sette occidentali che non avevano radici storiche in Oriente e qualche ecclesiastico troppo zelante considerarono la Russia come un deserto religioso, senza tener conto della secolare tradizione cristiana della Russia. Così, da allora la questione degli uniati e la riprovazione del proselitismo si sovrapposero ai contatti ecumenici. Sono convinto che i problemi si potranno risolvere con una buona volontà da entrambe le parti. Del resto, come possono trovarsi soluzioni, se non c’è dialogo?

Nel 1993 la “Commissione teologica comune internazionale”, riunita a Balamand, poté esprimersi, con un pronunciamento comune, in questi termini: le Chiese cattoliche orientali unite a Roma hanno diritto ad esistere, ma il cosiddetto uniatismo non è più oggi un metodo per raggiungere l’unità della Chiesa. Oggi ci riconosciamo come Chiese sorelle. Perciò ogni proselitismo deve essere respinto. Queste dichiarazioni costituirono un progresso, ma non tutte le Chiese ortodosse erano presenti a Balamand ed anche in seguito non tutte hanno riconosciuto questo documento. Le Chiese ortodosse insistevano per ulteriori chiarimenti in proposito. Dopo una difficile fase intermedia poté di nuovo tenersi una riunione plenaria della commissione nel luglio 2000 a Baltimora (USA).

Fu un incontro intenso, ma anche difficile. Le due parti impararono a capirsi, ma non fu ancora possibile un accordo sulla questione dello status teologico e canonico delle Chiese cattoliche orientali. Tuttavia entrambe le parti si dichiararono favorevoli al proseguimento del dialogo. La Chiesa cattolica non è solo pronta a ciò: essa spinge in questa direzione; il Patriarcato ecumenico si impegna con intensità nello sforzo di raggiungere da parte ortodossa un consenso per la ripresa.

L’esito di Baltimora rivela la carenza nell’impostazione della discussione a partire dal 1990. Il problema delle Chiese cattoliche orientali può essere risolto soltanto in un contesto più ampio. Le Chiese cattoliche orientali vogliono vivere in comunione con Roma la loro tradizione di Chiese orientali, perché sono convinte che la comunione con Roma è essenziale per il loro essere Chiesa. Si può pertanto risolvere il problema solo se si procede nella questione della comunione con Roma e cioè del primato di Roma.

Certo non tutti i contatti si sono interrotti. Le relazioni della Santa Sede con il Patriarcato ecumenico e con il Patriarcato di Antiochia con sede a Damasco rimangono buone. Negli ultimi anni il Pontificio Consiglio per l’Unità ha sviluppato e approfondito soprattutto le relazioni con le Chiese ortodosse di Grecia, Romania, Serbia e Bulgaria. Con queste Chiese si è giunti intanto ad intense relazioni amichevoli e ad una fruttuosa collaborazione pratica, che io appena due anni fa avrei ritenuto impossibile.

Soprattutto in America del Nord il dialogo ha portato ad ottimi risultati. Sono anche importanti i contatti tra singole diocesi e monasteri, i contatti di alcuni movimenti, come i Focolarini o Sant’Egidio, infine gli incontri e le amicizie personali. Non si deve dimenticare l’attività di opere caritatevoli come “Renovabis” e “Kirche in Not”. Nel complesso siamo su una strada buona. 


III. Prospettive per il futuro             torna su

Se, in conclusione, parliamo delle prospettive per il futuro, dobbiamo ricordarci che l’ecumenismo non è una strada a senso unico. Si tratta di uno scambio reciproco. Il Concilio Vaticano II ha spiegato, e il Papa Giovanni Paolo II lo ha ripreso, che ”determinati aspetti del mistero rivelato sono talvolta percepiti in modo più adatto e posti in migliore luce dall’uno che non dall’altro, cosicché si deve dire allora che quelle varie formule teologiche non di rado si completano, piuttosto che opporsi” (Unitatis Redintegratio 17). Ciò vale, secondo il nostro convincimento, innanzi tutto per quanto riguarda la classica questione controversa sull’aggiunta del Filioque nella professione di fede.

Pertanto ci poniamo in conclusione la domanda: che cosa possiamo imparare dall’Oriente? Potrei nominare diversi punti: l’Oriente può renderci nuovamente coscienti del carattere di mistero della fede; può essere un contrappeso al pericolo dello scivolamento in un secolarismo teologico; l’Oriente può mostrare che teologia e mistica, teologia ed esperienza spirituale vanno di pari passo. Perciò per l’incontro ecumenico con l’Oriente non sono importanti solo le commissioni teologiche, ma altrettanto lo scambio spirituale, in particolare lo scambio a livello monastico. Parimenti importante è il radicamento dell’oriente nella tradizione, specialmente nella tradizione dei Padri della Chiesa e dei primi sette concili ecumenici, universalmente riconosciuti. Questa comprensione della tradizione può essere un contrappeso nei confronti del pericolo di un oblio della tradizione che molto facilmente si abbatte su adattamenti modernistici. Potrei ancora nominare l’accentuazione del ruolo dello Spirito Santo e l’ecclesiologia eucaristica di comunione. Le Chiese d’Oriente comprendono l’unità della Chiesa non in termini principalmente giuridici, ma nella comune partecipazione alle cose sante, specialmente al grande mistero dell’eucaristia. Per il futuro dell’avvicinamento ecumenico sarà fondamentale, se e come noi potremo conciliare l’ecclesiologia universalistica occidentale con l’ecclesiologia di comunione dei Padri della Chiesa, in modo da assicurare sia l’unità di fondo della Chiesa che la legittima molteplicità delle Chiese.

In questo contesto posso occuparmi solo di un aspetto, che costituisce il nocciolo duro delle della nostra controversia. Dall’ecclesiologia di comunione risulta il principio della sinodalità. Mediante questa struttura sinodale le Chiese ortodosse hanno salvaguardato un’antica tradizione. Il Vaticano II ha cominciato a ripristinare la struttura sinodale. Il futuro incontro con l’ortodossia dipenderà in maniera decisiva dal modo in cui colleghiamo il principio gerarchico con il principio di comunione sinodale.

Nelle Chiese orientali ciò si realizza in tal modo: da un lato rispettivamente il vescovo o il metropolita o il patriarca sono legati al Sinodo, dall’altro anche il Sinodo non può fare niente senza l’approvazione rispettivamente del vescovo o del metropolita o del patriarca. Il suo primato d’onore (primatus honoris) è perciò non solo un primato onorifico, ma si poggia su una posizione giuridica determinante. La questione sarà dunque se e come questo principio si può assumere a livello di Chiesa universale e applicare alla posizione del vescovo di Roma, che anche secondo la convinzione degli Ortodossi è il primo dei vescovi. Un simposio organizzato dal Pontificio Consiglio per l’Unità nel Maggio 2003 sul ministero petrino ha mostrato che la formulazione di tale domanda non è un’impresa disperata.

La Chiesa cattolica considera il ministero petrino come una sua ricchezza, della quale vuole rendere partecipi, in una forma rinnovata, le altre Chiese. Il ministero petrino è per essa segno visibile e strumento di unità, come un garante della libertà della chiesa. D’altra parte l’incontro con la tradizione della Chiesa d’Oriente può aiutarci a riconoscere di nuovo con maggiore chiarezza la dimensione sinodale e di comunione della Chiesa, propria delle Chiese orientali, ed a realizzarla nella pratica, senza rinunciare ad alcunché di essenziale della nostra fede.

Dopo mille anni di separazione, l’incontro tra Oriente e Occidente non è semplice. L’Oriente non ce lo facilita, ma anche noi non sempre glielo rendiamo facile. Da entrambe le parti sono necessari sia la conversione che il cambiamento delle idee. La conversione dei cuori può alla fin fine ottenerla solo lo Spirito di Dio. Perciò la preghiera è l’anima dello sforzo ecumenico. Soltanto con l’aiuto di Dio possiamo costruire ponti sul fossato della nostra reciproca ignoranza, dei nostri malintesi e pregiudizi, possiamo purificare la nostra memoria e giungere ad una piena comunione, fonte di arricchimento per gli uni e per gli altri. Dopo l’unità nella diversità del primo millennio, dopo il vicinato e la contrapposizione del secondo millennio, il terzo millennio appena iniziato si muterà – così almeno v’è da sperare - in una riconciliata unità nella diversità.

Aspettative a breve termine sono certo irrealistiche secondo l’umano giudizio. Abbiamo bisogno di un lungo respiro. Tuttavia il tempo urge. La necessità di fronteggiare il secolarismo e le nuove sette, il dialogo con le altre religioni, in particolare con l’Islam, l’impegno contro la violenza e la fame nel mondo e in favore della pace, della libertà e della giustizia sociale, il futuro dell’Europa, tutto ciò esige la nostra comune testimonianza. Non da ultimo ci obbliga l’incarico affidatoci dal Signore, di sforzarci per l’unità. 
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(*) Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani

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