IL VATICANO II: UN CONCILIO ECUMENICO DELLA CHIESA CATTOLICA PERCHÉ TANTI ABUSI POST-CONCILIARI?
di P. Serafino M. Lanzetta, FI
Editoriale di Fides Catholica, 1/2011
L'editoriale è una riflessione sul Vaticano II quale concilio pastorale. Tiene conto delle problematiche che in
questo tema si intrecciano, ed echeggia anche le riflessioni e gli sviluppi
successivi ai recenti lavori del convegno
sul Vaticano II, organizzato a Roma dai Francescani dell'Immacolata (16-18
dicembre 2010).
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La situazione della Chiesa oggi. La Chiesa oggi vive una situazione più
dolorosa di quella del tempo del modernismo. Non si mettono in discussione le
verità della fede, ma semplicemente le si ignora, non le si predica più, né le
si insegna. Sembrano superate, a volte da una “nouvelle théologie nouvelle”, una
novità della novità per così dire, una teologia rinnovata ma senza più il suo
centro nella Divina Rivelazione, quale dono dall’alto da accogliere nella fede e
spiegare (il recente Memorandum dei teologi tedeschi, 3 febbraio 2011, ne è un
esempio) rimanendo nel solco della Tradizione in cui quella fede è germinata.
Verità come la Santissima Trinità, Cristo Dio e Uomo, il sacrificio
dell’Eucaristia, il peccato originale e quello attuale, la distinzione tra
peccato mortale e peccato veniale, l’escatologia nei suoi stadi luoghi
ultraterreni: inferno, purgatorio, paradiso, che sono la fede della Chiesa, oggi
sembrano non aver più cittadinanza nell’universo della fede cattolica. Non
perché sono negate ma perché sono ignorate o trascurate. C’è una fede che si può
benissimo accontentare di altro, di un nuovo divertissement, perché la dottrina
della fede cattolica, segnerebbe una certa cesura tra il mondo di oggi e la
Chiesa (di prima) – come in questo contesto generale viene definita la Chiesa,
che necessariamente deve essere rinnovata con un “dopo”–: dunque la si tace, la
si mette in un cantuccio, e per altre vie si cerca un dialogo col mondo; una
Chiesa che dialoghi e che non sia poi estranea alla cultura del “non-senso” e
del “senza-fondamento” che il mondo d’oggi offre.
Motivi di dissapore dopo circa un cinquantennio di ricezione conciliare.
Tante delusioni presto si affacciarono; in primis all’uscio di coloro che furono
protagonisti ed artefici del Concilio Vaticano II. Lo stesso Paolo VI si vide
amareggiato, lui che aveva confidato nel Concilio fino alla fine, conducendolo
con grande patema d’animo e caricandosi giornalmente dei suoi progressi e, a
volte, dei suoi compromessi. Ne venne un inverno che mise in fuga quegli incerti
bagliori del mattino: i raggi di sole non mancarono ma la notte presto portò
ogni cosa al suo muto dolore. La Chiesa si vide come scissa nel suo intimo tra
una schiera di sostenitori del progresso dogmatico a scapito della fede,
cavalcando talune dottrine, rese volutamente equivoche dagli interpreti, e una
schiera di pavidi difensori, in fondo, della Chiesa che non poteva semplicemente
adattarsi al mondo: era il mondo che doveva adattarsi a Cristo. Tra le dottrine
che emersero per il loro portato di svolta epocale, ma che a ben guardare erano
già presenti nella riflessione teologico-sistematica, e nel magistero precedente
furono annoverate, ad esempio, il sacerdozio comune dei fedeli.
Per dire che il sacerdote era uno come gli altri, che tutti celebravano e la
Messa era un ritrovarsi insieme per la “santa cena”.
L’ecumenismo, che avrebbe ormai inaugurato l’ingresso della Chiesa cattolica
nell’arena delle chiese e delle comunità cristiane per disputare insieme un
nuovo modello ecclesiale, una sorta di nuova veste che stesse comoda un po’ a
tutti. Si disse che anche la Chiesa era in cammino. Il Concilio fu visto come
una via al dialogo, sarebbe stato pastoralmente il Concilio del dialogo – la
Chiesa prima non aveva mai dialogato? – per arrivare ad un soluzione che non
offendesse certo il dato dogmatico ma che non promanasse univocamente da esso,
che lo lasciasse per il momento al di fuori, altrimenti avrebbe trovato sempre
la strada sbarrata. Küng esultò in questo Concilio, ma quando il Magistero
successivo ne confermò unicamente la sua cattolicità (non poteva essere
altrimenti), se ne amareggiò anch’egli, divenendo poi l’intrepido difensore
dell’eterodossia.
Il dialogo interreligioso che muoveva dal riconoscimento di alcuni elementi
di verità presenti nelle religioni per sviluppare da essi un annuncio improntato
alla missione, fu in larga parte visto come il momento dell’ingresso del divino
nella storia religiosa mediante il Concilio e l’opportunità, quindi, di lasciare
le religioni nel loro status perché in qualche modo vie di salvezza possibili.
Ancor più in ribasso per la religione stessa fu quella visione etico-mondiale
della religiosità, che vedeva nei valori condivisibili il legame per un dialogo
rispettoso e umano. La salvezza era divenuta irrilevante.
Il Vaticano secondo visto da due angolature: il mondo moderno e la
pastoralità
a) Quale modernità?
Una prima domanda per verificare le intenzioni del Concilio ed analizzarle
alla luce della storia del pensiero, va mossa dal punto di vista più
strettamente filosofico. Il Vaticano II vuole il dialogo con il mondo moderno e
necessariamente con la filosofia che lo aveva inaugurato. Il mondo moderno o
meglio la modernità, però non era un unicum: si delinea in modo preponderante
come problematica gnoseologica, «la quale a sua volta è incentrata sul come
interpretare la fede (certezza dell’invisibile): e questo è l’elemento
assolutamente nuovo della filosofia moderna rispetto all’antica (non rispetto a
quella medioevale). La novità della modernità sta nel suo carattere cristiano e
allo stesso tempo critico».(1) Ma in sé non si presentava come fenomeno unitario. Lo scetticismo fontale
di Cartesio, seguito dagli empiristi britannici (Hume, Locke, Berkeley) non lo
si ritrova ad esempio in Pascal, C. Buffier e in Giambattista Vico, che invece
erano suoi forti oppositori. Non c’era un confronto moderno tra cristiani e
atei, ma tra un modo trascendente di conoscere e un modo immanente, entrambi
radicati nella fede, ma in quest’ultimo caso, cancellando l’apporto di un Dio
creatore e di una metafisica dell’essere per ripiegarsi solo sul fenomeno.
L’errore teologico è consistito nel ridurre la modernità ad un razionalismo e ad
un volontarismo, in contrasto con la cristianità, cercando vie parallele o
alternative di dialogo. Emblematico fu il caso Rahner, che si sforzava di
trovare una via per unire Kant con Heidegger attraverso Hegel, fino a
ricondurli, in ultima analisi, a dei san Tommaso vestiti con i panni nuovi della
modernità. Questo non ha funzionato. Infatti, «l’aver immaginato – scrive Livi –
un interlocutore del dialogo effettivamente inesistente – la “filosofia moderna”
come costitutiva del “mondo”, in opposizione dialettica del cristianesimo – è
stato l’errore propriamente teologico di quei pensatori e di quelle scuole di
pensiero che derivano dal modernismo cattolico di fine Ottocento e riprendono
vigore nella seconda metà del Novecento».(2)
b) Pastorale e aggiornamento. Una pastorale per l’ecumenismo?
I due termini si richiamano a vicenda: il concilio fu voluto come pastorale e
la parola “aggiornamento”, in realtà impiegata da Giovanni XXIII per il
rinnovamento del Codice di Diritto Canonico (allocuzione del 25 gennaio 1959) fu
in qualche modo l’anima dello stesso Concilio. Il Vaticano II non volle definire
nuovi dogmi, ma esporre la dottrina di sempre per raggiungere gli uomini di
oggi. Aggiornamento fu inteso presto come avanzamento della dottrina e sua nuova
comprensione ma con un linguaggio nuovo, pastorale e non dogmatico o
definitorio. Pastorale in realtà, inaugurò un nuovo porsi dello stesso Magistero
solenne della Chiesa per annunciare la dottrina senza necessarie denuncie degli
errori e senza condanne; un annuncio che presto diventerà nel sentire di molti
conciliante (come per la Scuola di Bologna), inaugurante una nuova conciliarità
e quindi una nuova epoca della Chiesa: quella del confronto e dell’andare verso
l’altro non cattolico. Pastorale avrebbe fatto progredire la dottrina della fede
ma evidentemente senza troppe preoccupazioni riguardanti il dogma. Così si
delinearono visioni pastorali equivoche e contraddittorie: ma fu questo ambito
teologico, risultante dal rifiuto degli schemi scolastici preparatori, che
lasciato in una sorta di genericità, causò poi, dissapori ed abusi. Diversi
autori si espressero sulla pastoralità del Concilio. Riportiamo le posizioni più
rappresentative e più emblematiche per notare la complessità del lemma e il suo prestar il fianco alla equivocità:
1. Y. Congar: «Il pastorale non è meno dottrinale, ma lo è in un modo che non
si limita a concettualizzare, definire, dedurre e anatomizzare: esso vuole
esprimere la verità salvifica in modo da saper raggiungere gli uomini d’oggi,
assumere le loro difficoltà e rispondere alle loro domande».(3) É. Mahieu, su
questo passaggio appena citato, annota: «Su questo Congar si scontrerà ben
presto con uomini come il cardinale Ottaviani o padre Tromp, per i quali la
pastorale è, come l’ecumenismo, una questione puramente pratica, riservata ad
altri organismi».(4)
2. K. Rahner: «Se la prassi è vista solo come concretizzazione di certe
“idee” in un materiale spazio-temporale, che rimane indifferente, allora anche
la T. P. può essere compresa come la direttiva per l’esecuzione dei contenuti
della rivelazione, cioè della teologia dogmatica e della teologia morale, dati
appunto come idee. Ma se questa concezione di fondo viene contestata da
un’antropologia profana e da una migliore comprensione della rivelazione, intesa
come storia, allora la teologia pratica, anche se teorica, non sarà più vista
come originata dalla teoria teologica».(5) Per Rahner la pastorale sarà il metro
della teologia e il pertugio per l’ingresso della categoria “storia” nel dato
rivelato: così la fede sarà meglio comprensibile con la storia, o meglio sarà la
storia a far comprendere meglio la fede in quanto originante la riflessione
teologico-pastorale.
3. Card. G. Siri: «I concetti di pastoralità e di ecumenicità, che hanno un
significato chiaro ed eccellente esprimendo qualità e finalità degne, sono stati
usati in modo da costituire: a) l’equivoco ombra del Concilio; b) Lo strumento
probabilmente sleale per eliminare o spingere schemi a seconda di determinate
posizioni teologiche, le quali nulla avevano a che fare con la pastorale e colla
volontà di unione (ecumenismo)». (6)
4. Scuola bolognese: Alberigo non nasconde che la categoria “pastoralità”
poteva essere fraintesa. Scrive: «Il gesuita Tromp fu particolarmente perentorio
affermando che si parla di un uomo moderno che non esiste. Si vuole essere
“pastorali”. Ma il primo dovere pastorale è la “dottrina”. Marcel Lefèbvre non
negava che la caratteristica di questo concilio fosse proprio quella pastorale.
Questa sarà un’idea di cui progressivamente si impadronirà anche la minoranza, ma per negare dignità dottrinale al Vaticano II, interpretando
quindi la pastoralità in un senso molto diverso da quello inteso da Giovanni
XXIII».(7) Ma sarà lo stesso che dirà: «La “pastoralità” ha messo in discussione
anche l’ecumenismo “dottrinale”, sollecitando un’impostazione globale della
ricerca dell’unità. È la concezione stessa dell’unità che trova nella visione
pastorale del cristianesimo un impulso a disegnarsi in termini articolati e
flessibili. Il superamento dell’egemonia della “teologia” appare oggi
equivalente al superamento dell’egemonia del “giuridismo”, e come quella gravida
di complesse e ricche conseguenze».(8)
5. Card. G. Biffi: «La ragione sorgiva e sintetica di questi indirizzi era il
proposito dichiarato di mirare a un “concilio pastorale”. Tutti, dentro e fuori
l’aula vaticana, si mostravano contenti e compiaciuti di tale qualifica. Io
però, nel mio angolino, periferico, sentivo nascere in me, mio malgrado, qualche
difficoltà. Il concetto mi pareva ambiguo, e un po’ sospetta l’enfasi con cui la pastoralità era attribuita al Concilio in atto: si voleva forse dire
implicitamente che i precedenti concili non intendevano essere “pastorali” o non
lo erano stati abbastanza? Non aveva avuto rilevanza pastorale il mettere in
chiaro che Gesù di Nazaret era Dio e consostanziale al Padre, come si era
definito a Nicea? Non aveva avuto rilevanza pastorale precisare il realismo
della presenza eucaristica e la natura sacrificale della Messa, come era
avvenuto a Trento? Non aveva avuto rilevanza pastorale presentare in tutto il
suo valore e in tutte le sue implicanze il primato di Pietro, come aveva
insegnato il Concilio Vaticano I? […] c’era il pericolo di non ricordare più che
la prima ed insostituibile “misericordia” per l’umanità smarrita è, secondo
l’insegnamento chiaro della Rivelazione, la “misericordia della verità”;
misericordia che non può essere esercitata senza la condanna esplicita, ferma,
costante di ogni travisamento e di ogni alterazione del “deposito” della fede,
che va custodito».(9)
Come si vede, questo lemma “pastoralità”, che designò la natura e il fine del
Concilio, non trovò una strada univoca nella sua esecuzione e nella seguente
interpretazione dei teologi. Le buone intenzioni e gli auspici di Giovanni XXIII
dovettero fare i conti con un Concilio che nel suo interno fremeva per un
cambiamento significativo. Non si può pertanto trascurare questo dato per
rendersi conto della posta in gioco: la dottrina è divenuta pastorale col
Concilio? Il Concilio avallava il progresso pastorale della dottrina?
No, non lo poteva. Se la dottrina, molto spesso, si è allontanata dalla retta
fede e questo in nome del Concilio, ciò non è imputabile al Concilio stesso, ma
al lemma “pastorale”, lasciato in una sorta di ondeggiamento, letto in modo
volutamente ambiguo e surrettizio rispetto alla perenne Tradizione della Chiesa.
Ora, se pastorale significa applicazione pratica dei principi di fede,
dobbiamo leggere il Concilio, nel suo insieme, come una proposta omiletica per
il tempo nuovo, già però diverso da quello presente al Concilio. Se pastorale,
invece, significa progresso della dottrina della fede senza il grattacapo di
pronunciamenti dogmatici definitivi, allora possiamo sempre obiettare che ci si
trova dinanzi ad un errore metodologico d’approccio: la pastorale promana dalla
dogmatica e mai viceversa, altrimenti si corre il rischio – in alcuni autori lo
si è già corso – di introdurre la categoria “storia” nell’impianto
soprannaturale e misterico della fede. Tutto allora diverrebbe. Anche la fede. E
la misericordia verso l’errante si trasformerebbe – già purtroppo si è
verificato – in una misericordia verso l’errore, senza più il coraggio e la
forza di denunciarlo.
c) Un Concilio pastorale: né dogmatizzazione, né liquidazione. Ma
distinzione. Il Vaticano II è un concilio legato soprattutto al tempo, in
ragione della sua richiesta fontale d’apertura e di dialogo con la cultura, col
mondo in quanto tale, con i cristiani, con le altre religioni. Pastorale,
ancora, fu letto da diversi teologi come “svolta epocale”: si pensi soprattutto
a Chenu a Congar e a Rahner. “Pastorale” sarebbe assurto a cerniera tra storia
(nuova) e dialogo nella fede. La definizione che il Vaticano II dà di se stesso,
soprattutto grazie a Giovanni XXIII, è emblematica e ci preserva da due eccessi:
una dogmatizzazione del Concilio perché concilio ecumenico, e di conseguenza
un’infallibilità attribuitagli in toto in quanto concilio, e dall’altra, il
rigetto sic et simpliciter delle sue “dottrine nuove” perché scostantesi dalla
Tradizione viva della Chiesa. Le sue dottrine vanno inquadrate in un contesto
più ampio, che è la natura e il fine stesso dell’Assise, i quali
caratterizzeranno il tenore dei documenti, anche lì dove il Concilio insegna una
dottrina che effettivamente segna uno sviluppo dogmatico (si pensi alla
sacramentalità dell’episcopato: LG 21) o quando reitera il Magistero
appellandosi ai Concili precedenti o alla stessa Tradizione della Chiesa, o
quando insegna una dottrina nuova (o una prassi, soprattutto in materia di
ecumenismo, di libertà religiosa e di dialogo interreligioso). Si pensi al
problema della duplicità delle fonti, la Sacra Scrittura e la Sacra Tradizione.
Il Magistero precedente aveva indicato le due fonti con un et-et, superando
la proposta del partim. Il Vaticano II non lo nega, ma tenta una sintesi per
ovvi motivi ecumenici, che rientravano nel suo disegno pastorale generale. Dei verbum 9 tenta l’unificazione quando dice: «esse (Scrittura e Tradizione)
formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine», ma a
conclusione dello stesso numero riprende il Concilio di Trento e afferma la
venerazione di entrambe con pari sentimenti di pietà (dunque la distinzione). Si
potrebbe però chiedere: è affermato chiaramente che la Tradizione è anche
costitutiva della fede e non solo interpretativa? La Tradizione del Vaticano II
è solo la predicazione apostolica? Altrimenti, si corre sempre il rischio di
fare delle due una sola cosa, come risulta da diversi manuali post-conciliari,
che hanno semplicemente inglobato la Tradizione nella trasmissione delle
Scritture. Qui il Concilio lascia la questione aperta (particolarmente quanto
all’insufficienza materiale della Scrittura: non sono contenute in essa tutte le
verità rivelate da Dio) e fa solo un riferimento alla precedenza della
Tradizione sulla Scrittura quanto al Canone dei Libri sacri (cf. DV 8).
Evidentemente, si richiede l’ausilio dei Concili dogmatici precedenti e non si
può far iniziare l’insegnamento sulla divina Rivelazione partendo dal Vaticano
II (anche perché qui fu rifiutato in modo compatto lo schema De fontibus).
Per Congar si potrebbe solo dire, lasciando aperta la questione della Traditio
costitutiva, che «non tutto nella dottrina cattolica si può provare in modo
sufficiente con la Scrittura» (Nota, De habitudine inter Traditionem
[apostolicam] et S. Scriptura).
Questa sarà la visione ufficiale che si imporrà nella discussione conciliare,
seguita anche dal P. U. Betti, uno dei protagonisti principali nella redazione
della Dei Verbum. In sintesi, ecco il pensiero del Betti, circa il valore
dommatico della Tradizione, portatrice della Rivelazione e potenzialmente
inerente ad ogni sua manifestazione, ma effettivo solo quando la Chiesa,
fondandosi su di essa, propone una verità come divinamente rivelata: «Il
Concilio indica – dice – soltanto due casi del genere: il canone dei libri sacri
e l’interpretazione della Scrittura. Pur non escludendo che possano esserci
anche altri casi, si è deliberatamente astenuto dallo stabilire un principio
generale al riguardo»(10)
. Qui si potrebbe ancora chiedere: non sarebbe stato più agile se il
Concilio si fosse pronunciato proprio su questo, dirimendo l’annosa questione
dell’insufficienza materiale della Scrittura? Il Concilio accantonò la questione
per motivi pastorali? Non ci troviamo però di fronte ad un certo
ridimensionamento del dato già acquisito dalla fede cattolica?
Il problema ermeneutico del Vaticano II. Il Vaticano II non è pertanto un
unicum. Bisogna in esso distinguere il tenore magisteriale fontale che è
pastorale, dai documenti stessi, che sono 16 e sono tripartiti in costituzioni,
dichiarazioni e decreti, con valore magisteriale differente. Una dichiarazione
non ha valore dogmatico pari ad una costituzione e le stesse costituzioni non
sono magisterialmente omogenee: una costituzione pastorale non può essere
equiparata ad una dogmatica. Nel Concilio perciò bisogna distinguere
frequentemente e leggere i nuovi insegnamenti non come un’assoluta novitas
– il Concilio stesso non lo desiderava – ma come uno sviluppo della dottrina
della Chiesa, il quale prima di ascendere al grado dell’infallibilità, quando
non definitivo, passa necessariamente per gli stadi intermedi della proposta
ordinaria: infallibile solo quando reiterata, agganciata perciò al patrimonio
perenne della Fede.
Il problema del Vaticano II non sono principalmente le sue dottrine nuove, ma
il modo di leggerle e di capirle. Si esige perciò, a priori, un giusto criterio
ermeneutico, in ragione del fatto che il Concilio sposa un metodo discorsivo e
dialogico e non definitorio.
Non è sempre facile distinguere quando il Concilio dichiara una dottrina
definitiva, quando invece si esprime a modo di allocuzione o di semplice
insegnamento omiletico. Una scarsa chiarezza espositiva – ciò che da alcuni
teologi sarà letto come una certa compromissione del testo stesso – e la stessa
assenza di canoni con cui viene formulata la dottrina, ci spingono ad essere
cauti nella lettura del Concilio. Solo la perenne Tradizione della Chiesa è la
chiave giusta d’approccio: una Tradizione viva perché principiante dagli
Apostoli e perché dinamica secondo uno sviluppo omogeneo.
La Tradizione è presente anche nel Concilio a cui si fa ripetutamente
riferimento, ma non è abrogata, perché il Concilio stesso non ne era capace: la
Chiesa, con la sua vita, è prima del Concilio, di ogni concilio.
Conclusione. Il “Vaticano II” è un tema scottante e molto delicato.
L’approccio richiede che si parta da un presupposto forse ancora previo a quello
sopra enunciato: un grande amore alla Chiesa. L’amore ci fa capire meglio e ci
fa distinguere, ma mai calpestare o rigettare quanto è cattolico ed apostolico.
Ciò che è da rifiutare nettamente è la conciliarità che, al dire della Scuola
bolognese, il Vaticano II avrebbe inaugurato. Una sorta di precedenza del
Concilio sulla Chiesa e sulla stessa fede: un neoconciliarismo, un modo nuovo di
dirsi Chiesa oggi, rinnegando la Chiesa di prima, chiusa e inetta dinanzi alle
sfide del mondo. Se Alberigo avesse ragione allora dovremmo dire che il Vaticano
II ha segnato un fallimento: dopo più di quarant’anni la Chiesa non è diventata
più bella e più splendente, si è invece mondanizzata, secolarizzata. Il mondo
l’ha in parte trasformata in una logica del mondo. Probabilmente il concetto di
“mondo” assunto da Gaudium et spes era stato epurato dei connotati più
fastidiosi, ma ancora presenti nel Vangelo di Giovanni. Cristo è ancora segno di
contraddizione.
Quello che non può non stare a cuore ad ogni figlio della “Cattolica”, come
direbbe sant’Agostino, è il ritrovarsi figli, umili e devoti, intorno all’unica
mensa della Madre Chiesa e dei suoi 21 Concili. Dobbiamo necessariamente trovare
una via per realizzare l’unità e questa via non può che passare attraverso una
vera ermeneutica del Vaticano II.
NOTE
1 A. LIVI, Teologia, filosofia e magistero nella dottrina e nelle iniziative
pastorale di Giuseppe Siri, in P. Gheda (a cura di) Siri, la Chiesa, l’Italia,
Genova 2009, p. 312.
2 Ivi, p. 311.
3 Y. CONGAR, Le Concile du Vatican II. Son Église peuple de Dieu et corps du
Christ, in Théologie historique, 71 (1984) 64, cit. in Idem, Diario del
Concilio, I, Cinisello Balsamo 2005, p. 46.
4 Introduzione, in Ibidem. P. SERAFINO M. LANZETTA
5 K. RAHNER, Teologia pastorale, in Dizionario di pastorale, a cura di K. Rahner – F. Klostermann – H. Schild – T. Goffi [per l’edizione italiana,
riveduta e ampliata], Queriniana, Brescia 1979, p. 796.
6 Testo dattiloscritto, cit. da A. Tornielli, in P. Gheda (a cura di) Siri,
la Chiesa, l’Italia, op. cit., p. 274.
7 G. Alberigo, Le ragioni dell’opzione pastorale del Vaticano II, in Synaxis,
3 (2002) 503.
8 Ivi, p. 508.
9 G. BIFFI, Memorie e digressioni di un italiano cardinale, Siena 2010, pp. 183-184.
10 U. BETTI, La Rivelazione divina nella Chiesa, Roma 1970, p. 237.