Ringrazio Riscossa Cristiana
per avere ospitato la mia seguente lettera aperta al teologo Don Florian
Kolfhaus, della Segreteria di Stato, il quale è stato relatore al convegno del
dicembre scorso organizzato a Roma dai Francescani dell'immacolata sul problema
dell'Interpretazione del Concilio Vaticano II. P. Giovanni Cavalcoli
Caro Don Kolfhaus,
ho letto con interesse la
conferenza che Lei ha tenuto al convegno del dicembre scorso a Roma sul Concilio
organizzato dai Francescani dell’Immacolata. Sono stato anch’io dal 1982 al 1990
officiale della Segreteria di Stato ed attualmente insegno teologia sistematica
alla Facoltà Teologica di Bologna.
Mi complimento per la sua dotta
esposizione, che mostra un approfondimento della questione circa la continuità,
pur nella novità, degli insegnamenti del Concilio Vaticano II rispetto al
Magistero precedente e si interroga circa l’autorevolezza dottrinale di detti
insegnamenti.
Naturalmente accolgo insieme
con Lei l’esortazione del Santo Padre ad evitare, nell’interpretare gli
insegnamenti del Concilio, un’esegesi di “rottura” con il precedente Magistero
della Chiesa ed a praticare un’esegesi di “continuità nella riforma” o,
potremmo dire, nel progresso dottrinale; ossia il Concilio ci fa conoscere
meglio e più approfonditamente le verità di sempre, né altrimenti potrebbe
essere, atteso che la Chiesa non può mai mutare o smentire il messaggio
evangelico che Cristo le ha affidato da predicare immutato nei secoli fino alla
fine del mondo.
Nel contempo lo Spirito Santo,
che “rinnova tutte le cose”, la conduce alla “pienezza della verità”, non nel
senso di insegnarle verità nuove - non nova sed nove -, ma nel senso di
conoscere sempre meglio quelle medesime verità, quella medesima Parola che non
passa e che lo Sposo ha affidato alla Sposa.
Per questo, insieme con Lei,
respingo l’interpretazione sia dei lefevriani che dei rahneriani, i quali vedono
nelle dottrine del Concilio una novità che rompe col Magistero precedente, come
se il dogma non fosse immutabile, ma soggetto ad un’evoluzione o a mutamento
alla maniera modernista, i lefevriani per sdegnarsi di questa supposta rottura,
i rahneriani invece per rallegrarsene.
Il Concilio è considerato un
“superdogma” dai modernisti, i quali peraltro, spregiatori come sono del vero
dogma, si riservano di prendere dal Concilio solo quel che pare a loro o di
falsificarne il vero significato, infischiandosi dell’interpretazione del
Magistero, esattamente come fanno i protestanti.
I lefevriani, dal canto loro,
si sono irrigiditi ad uno stadio della Tradizione superato (anche se sempre
valido), precedente a quello del Vaticano II (al 1962, come ha detto
scherzosamente, ma non troppo, il Papa), senza rendersi conto che proprio il
Vaticano II è testimone infallibile dello stadio più avanzato della Tradizione.
In particolare poi Lei
s’interroga circa la questione di come qualificare il linguaggio del Concilio,
linguaggio - peraltro non sempre chiaro - che si scosta da una certa forma
tradizionale scolastica, che fu propria, per esempio, del Concilio di Trento o
del Vaticano I. Sarei d’accordo con Lei nel qualificare tale linguaggio come
“omiletico” o “kerigmatico” (predicativo); esso assomiglia anche al modo di
esporre la dottrina proprio dei Padri e, al limite, della stessa Sacra
Scrittura.
Oggi tutti convengono nel
qualificarlo come linguaggio “pastorale”. Sono d’accordo anche nel ritenere che
tutto il linguaggio del Concilio, anche quello dei documenti dottrinali e
dogmatici, sia pastorale, nel senso in cui intese questa parola Giovanni XXIII
nel discorso d’apertura indicando quelle che dovevano essere le finalità del
Concilio: esporre la dottrina tradizionale in un linguaggio nuovo, moderno,
efficace, adatto, attraente e comprensibile agli uomini del nostro tempo.
Dove invece non mi sento di
concordare è nella sua tesi, più volte ripetuta, secondo la quale il Concilio,
non avendo definito nessun nuovo dogma, non conterrebbe dottrine nuove
infallibili. Ora Lei stesso riconosce che il Concilio “si pronuncia in questioni
di fede e di morale con autorità”. E allora – mi chiedo – come qui non sarebbe
infallibile?
Inoltre non è chiaro se Lei
sostiene o nega che il Concilio contiene documenti dottrinali, perché, ora lo
afferma, ora lo nega. Per esempio, a un certo punto Lei parla del Concilio come
“puramente pastorale”, ma poi più avanti parla della costituzione sulla Chiesa
come “documento dottrinale centrale del Concilio”; più oltre afferma che esso
contiene “asserzioni dottrinali che vogliono difendere e mettere in chiaro delle
verità”, mentre ancora più avanti dice che si tratta di un “magistero non
dottrinale”. Ma poi ritorna sui suoi passi: “Si tratta anzitutto di chiarire
questioni dottrinali”. Si rimane piuttosto perplessi. E’ dottrinale o non è
dottrinale?
A me pare evidente e necessario
dire con semplicità e chiarezza che il Concilio contiene e documenti pastorali
(ossia direttive pratiche) e documenti dottrinali (ossia proposizioni
infallibili di tipo speculativo o dogmatico), senza che sia necessario cercare
una “terza categoria” tra le due, della quale non si comprende il senso, così
come non esiste una terza facoltà oltre l’intelletto (teoria) e la volontà
(prassi). Si tratta inoltre di rifarsi alla classica divisione tra teologia
dogmatica (sistematica) e teologia morale, comprendente anche la pastorale.
E’ vero che soprattutto oggi è
emersa alla ribalta, proprio in seguito al Concilio, la teologia pastorale, ma
non dovrebbe esser difficile ricondurla alla teologia morale, anche se certo c’è
una distinzione: la prima insegna ai pastori come pascere il gregge, la seconda
insegna i comandamenti di Dio, le virtù cristiane e a farsi santi.
Come Lei saprà bene, il Santo
Padre, in vista e nella speranza di accogliere nella pienezza della comunione
ecclesiale la Fraternità S.Pio X (i cosiddetti “lefevriani”), ha posto ad essi
come condizione l’accoglienza delle “dottrine” del Concilio, ed evidentemente le
dottrine nuove, perché i lefevriani non hanno alcuna difficoltà ad accogliere le
verità di fede già definite che si ritrovano negli insegnamenti conciliari.
Dunque non vedo nessuna
difficoltà, ma anzi vedo un preciso dovere il parlare di presenza, nel Concilio,
di insegnamenti dottrinali. E del resto i Papi del postconcilio hanno più volte
detto che il Concilio non è stato solo pastorale ma anche dottrinale.
Quanto al il termine
“pastorale”, esso fa pensare, oltre che alla morale, al compito del governo, al
compito del pastore (pensiamo alla Regola pastorale di S.Gregorio Magno); ma in
ogni caso qui la pastorale può esser ricondotta alla prassi. Quindi si torna
alla divisione fondamentale tradizionale, corrispondente, se vuole, anche a
quella tra pensiero ed azione o, come si dice nel linguaggio ecclesiastico,
de fide et moribus. Quale altra categoria dunque dobbiamo cercare o
inventare? Invece di far chiarezza, rischiamo di complicare, far confusione ed
arrampicarci sugli specchi. Con quali risultati pastorali?
Un altro punto dove mi pare si
dia un equivoco è la questione più volte da Lei sollevata delle “definizioni
dottrinali”, le quali, a suo dire, sarebbero assenti. Ora mi pare che quando si
parla di definizioni dottrinali, bisogni distinguere: un conto è il definire in
senso generale l’essenza di qualcosa – prenda la definizione aristotelica della
definizione: oratio faciens scire, ossia quella proposizione che ci fa
sapere che cosa una cosa è - e un conto è la “definizione dogmatica”, della
quale, in linea con la tradizione teologica, ancora parla con ulteriori
chiarificazioni l’Istruzione Ad tuendam fidem del 1998.
Questo tipo di definizione,
come insegna il detto documento, è quella per la quale e con la quale il
Magistero dichiara espressamente che una data proposizione è di fede o è
contenuta nella divina rivelazione. Queste sono le proposizioni che il documento
chiama “di primo grado” – i dogmi nel senso stretto della parola.
Ma perché di fatto una
proposizione del Magistero sia di fede o prossima alla fede, non è necessario
che ci sia questa dichiarazione, ma basta che la materia sia di fede o prossima
alla fede o necessariamente connessa con la fede (proxima fidei). Son
queste le proposizioni “di secondo grado”. E il Concilio contiene, qua e là,
tali proposizioni.
Indubbiamente resta il problema
di sapere con certezza quali sono e dove sono. Qui indubbiamente il Concilio non
ce lo dice espressamente e non è neppure sempre chiaro, e qualche volta dà
l’impressione di mutare o smentire dottrine di fede già definite. Ovviamente
questo è impossibile. Tuttavia qui è bene se non doveroso, per il teologo,
dimostrare la continuità. Fanno male e vorrei dire danno scandalo quelli che la
mettono in dubbio.
Oppure, come ha fatto
l’eminente teologo Mons.Brunero Gherardini, ci si potrebbe rivolgere al Papa
stesso perché ci dica con chiarezza, magari in forma di canoni, come è sempre
usato nei concili, quali sono queste proposizioni.
Inoltre mi pare opportuna anche
la proposta che S.E.Mons.Atanasio Schneider ha fatto al convegno che la S.Sede
emani un nuovo “sillabo” contente gli errori di interpretazione (lefevriani o
modernisti) dei documenti soprattutto dottrinali del Concilio. Infatti ciò che
ci deve stare a cuore, ancor più della pastorale, è la dottrina.
Io credo che si dovrà
addivenire a questa chiarezza, sia per fermare una buona volta la
strumentalizzazione che i modernisti, da troppo tempo ed indisturbati, fanno
delle dottrine del Concilio, con gravissimo danno per la Chiesa, e sia per
accontentare, come diceva Mons.Pozzo, presidente della commissione che tratta
con i lefevriani, la loro legittima richiesta che si spieghi loro con chiarezza
quali sono queste dottrine che essi devono accettare.
Infatti i lefevriani hanno per
certi aspetti delle corte vedute, ma spesso sono logici rigorosi e tomisti
provetti, ai quali non piace per nulla giocare sull’equivoco ed accettare la
minima ombra di discontinuità nelle dottrine della Tradizione. Essi si rifanno
al motto del grande card. Alfredo Ottaviani, tanto umiliato dai modernisti
all’epoca del Concilio: “Semper idem”.
Ora, non si può negare che il
Concilio dia delle definizioni dottrinali di secondo grado, e con accenti nuovi
rispetto alle precedenti, come quando ci dice che cosa è la liturgia, che cosa è
la Rivelazione, che cosa è la Chiesa, che cosa è la Tradizione, che cosa è la
Sacra Scrittura, che cosa è la collegialità episcopale, che cosa sono i
sacramenti, che cosa sono l’episcopato, il presbiterato, il diaconato, che cosa
sono il laicato e la vita religiosa, quali sono i valori del mondo moderno, in
cosa consiste il dialogo con esso, quali sono le prerogative della Beata Vergine
Maria, quali sono le realtà escatologiche, cosa c’è di vero nei fratelli
ortodossi o nei fratelli separati o nell’ebraismo e nell’islamismo, o che cosa è
la libertà religiosa e così via.
Non sono queste tutte
definizioni? Certo non sono domi “definiti”; ma questo forse toglie il loro
valore di definizioni? E trattandosi di materia di fede o prossima alla fede, si
potrà dubitare che si tratti – per usare il linguaggio dell’Ad tuendam fidem
– di dottrine “definitive”, ossia infallibili, ossia assolutamente vere?
Questo infatti è un punto molto
delicato, sul quale mi permetto di dissentire: la questione dell’infallibilità.
Lei insiste nel dire che, non essendovi dottrine dogmaticamente “definite”, non
ci sarebbero dottrine infallibili. Ora anche qui mi permetto di ricordarLe l’Ad
tuendam fidem, la quale viceversa parla di “dottrine che riguardano la fede e i
costumi”, le quali, pur non essendo dogmi definiti, sono tuttavia dottrine
“infallibili” (nn.6,9). E queste dottrine non mancano nel Concilio.
Il Concilio non contiene quindi
nuove dottrine infallibili nel senso che non contiene nuovi dogmi solennemente
definiti, come avvenne per esempio per l’Immacolata o l’Assunzione di Maria, ma,
poiché di fatto contiene esplicitazioni, spiegazioni, sviluppi ed
approfondimenti di verità di fede e di morale già definite, anche queste
dottrine, stando al criterio fornito dall’Ad tuendam fidem, sono
infallibili.
Negare a tali dottrine il
carattere dell’infallibilità mi pare molto pericoloso, giacché, se una
proposizione non è infallibile, sarà necessariamente fallibile, non si sfugge.
Tra il sì e il no non c’è una via di mezzo, tertium non datur, si dice in
buona logica. Cristo è molto esigente su questo punto: “Il vostro linguaggio
sia: sì, sì, no, no. Il resto appartiene al diavolo”.
Dunque non ha senso accantonare
la suddetta opposizione e cercare una terza categoria. Il risultato sarà solo o
l’ambiguità, il terreno sdrucciolevole o, peggio, che si dirà che il Concilio
erra in campo dottrinale e ci troveremo con i lefevriani e i rahneriani
sostenitori dell’esegesi di rottura.
Nessuno si sogna di considerare
infallibili tutti gli insegnamenti del Concilio; da parte mia, sostengo
modestamente che certe direttive pastorali o disciplinari sono addirittura
errate e causa di parte di un certo grave disagio che oggi prova la Chiesa in
campo pastorale.
Ma non bisogna neppure
prendere a pretesto il fatto che non c’è l’infallibilità di primo grado per
negare l’infallibilità di secondo grado (quella che il card.Ratzinger, da Lei
citato, chiamò “livello inferiore”). Mi pare che Lei confonda questo livello col
terzo (vedi sempre il citato documento): è solo qui che non c’è l’infallibilità,
perché trattandosi di indicazioni pratiche contingenti e mutevoli, per quanto
autorevoli e vincolanti, qui la Chiesa può sbagliare, e non son rari i casi
nella storia nei quali ha sbagliato e ha dovuto correggersi. Si pensi solo alle
famose richieste di perdono pronunciate da Giovanni Paolo II. Non ammetteva
forse in passato la Chiesa la tortura per i supposti eretici? Tanto per dirne
una.
Dunque dottrine nuove?
Certamente, in quanto però esplicitazione o sviluppo omogeneo, nella continuità,
di dogmi già definiti o comunque di dottrine definitive del precedente
Magistero; si potrebbe dire: non dogmi definiti, ma dogmi definibili, come
ancora la suddetta Istruzione dice delle dottrine “definitive”.
Così, direi, accogliamo in
pieno, con franchezza e senza tentennamenti, equivoci o contraddizioni il grande
novum - il “fuoco nuovo”, come diceva Maritain - che lo Spirito Santo ha
ispirato al Concilio nella continuità della Parola di Colui che ha detto: “cielo
e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”.
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