Carissimo P.Serafino,
quanto è stato detto al
vostro convegno, e che tu riferisci nella recensione
recentemente pubblicata su questo sito, mi trova in gran parte d’accordo:
la necessità di non fare del Concilio Vaticano II una specie di assoluto,
salvo poi ad interpretarlo di proprio arbitrio alla maniera modernista, come se
esso avesse inaugurato un modello di Chiesa assolutamente nuovo in rottura con
la concezione magisteriale precedente; la situazione di grave disagio che stiamo
vivendo da molti anni noi cattolici, intralciati ed ostacolati da questa forte
presenza modernistica all’interno della Chiesa stessa; il dubbio che non tutto
quello che ha detto il Concilio sia veramente saggio e in linea con la
Tradizione; la necessità di fare una buona volta chiarezza circa i suoi
insegnamenti, onde conoscere veramente il loro valore vincolante e porre termine
alle strumentalizzazioni e al doppio gioco dei modernisti.
Detto questo, vorrei però esprimere anche un certo dissenso da quanto è stato
detto, continuando un fraterno dibattito che da tempo stiamo conducendo fra noi
privatamente e pubblicamente.
Innanzitutto la questione della novità del Concilio. Non c’è dubbio che il
Concilio contiene delle novità sia dottrinali che pastorali. Lo riconosci
tranquillamente anche tu riprendendo quanto ha detto Mons.Gherardini:
“caratteristica del Vaticano II fu quella di trasmettere un insegnamento
rinnovato (o forse innovato per certi accenti), in ambito dogmatico e
soprattutto in ambito pastorale”.
Il problema è quello di come concepire queste “novità”: rompono col passato o
sono in continuità col passato? “I teologi, - tu dici - soprattutto i periti al
Concilio, ci dicono che il problema della rottura s’impernia nello stesso
Concilio: è lì che hanno fondato la “nuova dogmatica”, la “nuova morale”, che ha
avuto successo nel post-concilio, come è lì che hanno radicato, nel solco della
Tradizione, il progresso teologico delle dottrine nuove del Vaticano II”.
Tu qui riferisci due tesi opposte. Una che dice che la “rottura” l’avrebbe
fatta lo stesso Concilio; l’altra, che dice che il Concilio, nel solco della
Tradizione, ha elaborato nuove dottrine stimolando il progresso teologico. La
verità è certamente nella seconda tesi, non certo nella prima.
In secondo luogo mi sembra che il convegno non sia stato capace di dimostrare
l’asserto del Papa. “continuità nella riforma”. In particolare non avete
dimostrato come la novità non è stata una novità di rottura, come sostiene
Alberigo, ma una novità nella continuità e nel rispetto della Tradizione.
In terzo luogo il convegno avrebbe dato un contributo più efficace alla
questione dell’interpretazione del Concilio e del postconcilio, se si fosse
distinto chiaramente l’aspetto pastorale da quello dottrinale. La teoria diffusa
secondo la quale il Concilio sarebbe stato solo pastorale non corrisponde a
verità. Come hanno detto invece i Papi del postconcilio, esso è stato anche
dottrinale e come tale infallibile. La tesi di Don Kolfhaus, secondo cui il
Concilio non conterrebbe dottrine infallibili, è molto pericolosa, perché può
ingenerare il sospetto che contenga degli errori, cosa per un cattolico
assolutamente inammissibile.
E non basta dire con Mons.Gherardini che “il Vaticano II è infallibile nella
misura in cui si appella ai precedenti concili dogmatici e a definizioni
dogmatiche o quando reitera una dottrina di fede definitiva“, ma bisogna
riconoscere con franchezza che anche le dottrine nuove del Concilio sono
infallibili, in quanto esplicitazione o sviluppo di dottrine dogmatiche già
definite, anche se è vero, come disse Paolo VI, che il Concilio non contiene
nuovi dogmi solennemente definiti, come avvenne per esempio con la proclamazione
del dogma dell’Assunta o dell’Immacolata.
Ma “infallibilità” non vuol dire altro che assoluta verità in materia di
fede; per cui negare questa nelle dottrine di un Concilio ecumenico non è
affatto conforme al dovere e al sentire del cattolico. Perché ci sia
infallibilità non è necessaria la definizione solenne, ma basta semplicemente
l’enunciato dottrinale in materia di fede del Magistero della Chiesa, specie poi
se si tratta del Magistero solenne di un Concilio Ecumenico.
E’ vero che tutto il Concilio è pervaso da un linguaggio pastorale, ed è vero
quello che dice Don Kolfhaus che si tratta di una specie di predicazione
omiletica somigliante – io direi – a quello che è il linguaggio dei Padri della
Chiesa, un linguaggio adatto alla gente comune del proprio tempo. Ora, anche le
dottrine dogmatiche sono espresse con questo linguaggio e non con un linguaggio
scolastico che fu proprio, per esempio del Concilio di Trento o del Vaticano I.
Tuttavia questa modestia o popolarità del linguaggio del Concilio non deve
portarci a sottovalutare il valore dogmatico delle sue dottrine, così come noi
accettiamo ogni parola di Nostro Signore Gesù Cristo, anche se Gesù non si è
espresso nel linguaggio di Aristotele o di Cicerone.
Per questo un insegnamento come quello, per esempio, circa la libertà
religiosa, presente nel Vaticano II, oggi invocato con tanta insistenza e vigore
dal Santo Padre, non può non considerarsi un insegnamento infallibile, ossia un
insegnamento di fede. Ed altrettanto dicasi per altri insegnamenti nuovi del
Concilio. Trovare qui una rottura o una contraddizione con la Tradizione non ha
senso, dato che la dottrina di ogni Concilio è sempre una conferma, magari più
avanzata e più progredita, ma sempre fedele e coerente, della Tradizione. Ogni
Concilio fa fare un passo avanti alla Tradizione. Possiamo dire con il grande
teologo domenicano Francisco Marin Sola, oppositore del modernismo, che nel
Vaticano II si dà una “evoluzione omogenea del dogma”.
Quindi, giudicare il Concilio “alla luce della Tradizione”, come era nello
scopo del convegno, è giusto, ma a patto che si intenda per “Tradizione” non la
fase precedente il Concilio, ma quella stessa più avanzata e più progredita,
stabilita dalle dottrine dello stesso Concilio.
Questo è il sano progressismo che il Concilio ha favorito e dal quale è stato
ispirato, che non ha nulla a che vedere col modernismo, che è una falso e
ingannevole accostamento alla modernità ed è un’eresia.
Altro discorso è quello delle disposizioni o degli ordinamenti pastorali. Su
questo piano certamente neppure il Magistero di un Concilio è infallibile. Per
questo qui al cattolico è concesso esprimere, sempre con prudenza, riserve o
critiche. Qui anche un Concilio può prendere provvedimenti meno opportuni o
anche errati, che potranno essere corretti successivamente anche da un nuovo
Concilio, come la stessa storia dei Concili dimostra.
Per questo, quando si parla di “modernità” bisogna intendersi: è chiaro che
se per modernità si intendono gli errori moderni, la modernità non può che
essere respinta in blocco. Ma se per modernità, con maggior senso storico e più
ampia e concreta veduta, si intende l’insieme delle dottrine dei tempi moderni,
dovrebbe essere evidente che nella modernità ci sono anche dei valori, che come
tali vanno assunti e integrati nella visione cattolica. E questo è stato uno dei
grandi meriti del Concilio, al quale dobbiamo essere estremamente grati. Ciò che
invece è da respingere è l’interpretazione modernistica, per esempio
l’interpretazione rahneriana della modernità
A proposito di Rahner, mi compiaccio della tua posizione critica nei suoi
confronti, che, come sai, è anche la mia. Ma appunto per liberarci dal
rahnerismo dobbiamo tener conto dei princìpi e dei criteri che ho enunciato in
questa mia lettera, per non prestare il fianco alle critiche e non fare la
figura di restare indietro rispetto agli insegnamenti del Concilio, cosa che
sarebbe del tutto controproducente e al limite – vedi lefevriani – neppure
conforme a un pieno cattolicesimo.
Mi auguro che tu rifletta su queste cose insieme con coloro che condividono
il tuo punto di vista. Dobbiamo ringraziare Riscossa Cristiana che ospita questo
dibattito tra fratelli di fede, nella comune certezza che il rispettoso leale
confronto delle opinioni conduce alla verità.
Padre Giovanni Cavalcoli, OP
Bologna, 13 gennaio 2011