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Saggio-inchiesta di René Guitton, pubblicato dalle Edizioni Lindau.

In merito alle ultime drammatiche notizie provenienti dal Pakistan, riportiamo il capitolo relativo a questo Paese tratto dal saggio-inchiesta di René Guitton, presentato in questa pagina

 
 
 René Guitton
 Cristianofobia - La nuova persecuzione




 Collana:
 «I Draghi» - politica e attualità

 Torino, Anno 2010,  pagg. 320 - euro 23

 


L'Autore

René Guitton, infaticabile viaggiatore tra Oriente e Occidente, si batte per il dialogo tra le culture e le civiltà, contro il razzismo e l’antisemitismo. È autore di diversi volumi, tra i quali ricordiamo: Il principe di Dio. Sulle tracce di Abramo (edito in Italia nel 2009), Abraham, le messager d’Harân e Si nous nous taisonsLe martyre des moines de Tibhirine, vincitore di numerosi premi. È membro del comitato di esperti dell’Alleanza delle civiltà delle Nazioni Unite.


Il Libro

In Medio Oriente, le crescenti persecuzioni spingono i cristiani a fuggire dalle terre dove il cristianesimo è nato. Nel Maghreb, nell’Africa subsahariana e perfino in Estremo Oriente essi sono ridotti al silenzio e assassinati a migliaia. Il saccheggio di chiese e abitazioni e la profanazione di cimiteri sono all’ordine del giorno, così come crocifissioni, roghi di persone vive, mutilazioni, decapitazioni a colpi di accetta. Poco lontano dai nostri confini contro di loro vengono proclamate fatawa e condanne inesorabili. Tutto ciò accade nel silenzio della comunità internazionale, dimentica del fatto che «la libertà di pensiero, di coscienza e di religione» è sancita dalla Dichiarazione dei diritti dell’Uomo.
Anche gli ebrei e i musulmani sono perseguitati, ma il riconoscimento delle loro sofferenze non deve avvenire al prezzo della negazione di quelle dei cristiani. Vi sono forse vittime buone e vittime cattive, vittime di cui si deve parlare e altre riguardo alle quali si deve tacere?
René Guitton, basandosi su fonti di assoluta attendibilità, su una meticolosa ricerca condotta in loco e sulle testimonianze dirette dei protagonisti – leader politici e religiosi, missionari, operatori umanitari, ma pure gente comune conosciuta nei suoi innumerevoli viaggi –, redige un vero e proprio «libro nero della cristianofobia», che è in pari tempo un grido di dolore e di ribellione, un appello alla mobilitazione di tutti e una lezione di fratellanza. Perché, come osserva l’autore, «il nostro silenzio ricorda altri silenzi di sinistra memoria, e nel giro di due o tre decenni provocherà forse nuovi imbarazzati appelli al pentimento e dichiarazioni di rimpianto per non aver voluto far affiorare una verità che doveva essere resa nota a tutti».
 


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Pakistan. Astenersi cristiani

Quegli asini, non contenti di essersi grattati
Andavano da una città all’altra
Lodandosi l’un l’altro.


Il leone, la scimmia e i due asini,
dalle Favole di La Fontaine, X, V


Questi versi tratti dalla favola di La Fontaine riecheggiano il motto latino asinus asinum fricat (un asino ne gratta un altro, ovvero un asino par bello a un altro asino) e potrebbero adattarsi perfettamente all’India e al Pakistan. I due paesi, un tempo membri del Rāj, il subcontinente indiano sotto il dominio britannico, si sono separati in circostanze drammatiche al momento dell’indipendenza (1947); da allora sono costantemente sul piede di guerra, soprattutto in ragione della disputa sul Kashmir.
La separazione si è accompagnata a un vasto esodo di popolazioni in fuga dalle violenze omicide perpetrate contro gli indù in Pakistan e contro i musulmani in India. Da una parte e dall’altra gli ambienti nazionalisti ed estremisti sono stati largamente responsabili dell’aggravarsi della situazione, che ha portato alla fine della convivenza plurisecolare tra le due comunità religiose.
I rispettivi estremismi, tuttavia, sono accomunati dall’odio nei confronti dei cristiani, considerati elementi stranieri e sovversivi. La situazione in India è tutt’altro che rosea, eppure in materia di anticristianesimo il Pakistan avrebbe parecchio da insegnare al suo grande vicino.
In quella zona di transito della valle dell’Indo, uno Stato islamico coltiva con cura l’identità musulmana. Naturalmente, anche in Pakistan la Costituzione garantisce la libertà di coscienza e di culto nonché il diritto, per le confessioni non musulmane, di disporre di strutture proprie e ufficialmente riconosciute dal regime. Essa contiene però anche articoli che limitano notevolmente le disposizioni liberali e ricordano che l’islām è il fondamento della legislazione pachistana; tutti i cittadini sono quindi tenuti ad adeguarsi ai suoi principi, compresi i cristiani, che costituiscono il 2,5% della popolazione, e gli indù, che sono l’1,5%. I membri di queste minoranze religiose sono trattati come cittadini di second’ordine, costretti a sottostare a principi contrari alle loro convinzioni. Tale situazione è ufficializzata dalla menzione sui documenti d’identità dell’appartenenza religiosa. In origine il provvedimento riguardava soltanto una setta dissidente dell’islām, gli Ahmedi, alla quale il governo, di comune accordo con le autorità saudite, intendeva proibire il tradizionale pellegrinaggio alla Mecca. Per questa ragione si era deciso che su ogni passaporto sarebbe stata indicata la religione del possessore. Questa faccenda strettamente interna all’islām ha avuto gravi conseguenze per i cristiani.
Nel 1999, su pressione delle Chiese locali e allo scopo di dare un contentino all’opinione pubblica internazionale (e specialmente al potente alleato americano), il presidente Pervez Musharraf aveva abolito, di sua iniziativa, l’obbligatorietà di dichiarare la propria religione sui documenti di identità, ma i suoi ministri, che non ne condividevano il punto di vista, hanno sabotato qualunque tentativo di modifica della procedura vigente. L’indicazione dell’appartenenza religiosa è stata dunque mantenuta, grazie anche al vasto favore popolare che riscuote: per rendere irreversibile la decisione i partiti dell’opposizione hanno organizzato massicce manifestazioni di piazza il cui successo ha convinto tutte le forze politiche a non sopprimere la norma.

Quella che abbiamo appena descritto non è l’unica forma di discriminazione ufficiale: vi è anche la legge contro la blasfemia, che punisce le offese contro l’islām e rappresenta una vera e propria arma bellica da usare contro i cristiani.
Tale provvedimento, risalente al 1988, stabilisce che chiunque sia sospettato di aver offeso la religione musulmana può essere imprigionato sulla base della semplice testimonianza di un cittadino. Il testo è debitamente vago e garantisce piena libertà di azione ai magistrati, i quali possono rinviare a giudizio «chiunque, con parole o scritti, gesti o atti visibili, insinuazioni dirette o indirette, insulti il sacro nome del Profeta».
In caso di bestemmia contro il Profeta, la legge in questione prevede la pena capitale.
Il testo si applica indiscriminatamente a tutti i cittadini pachistani, quale che sia la loro religione; ma i cristiani e gli indù sono particolarmente esposti alle denunce più fantasiose e possono essere processati anche sulla base di pretesti fasulli. Una semplice lite tra vicini, o una controversia finanziaria, può trasformarsi in un incubo, qualora il protagonista musulmano affermi che il suo interlocutore ha attaccato l’islām usando termini ingiuriosi.
I tribunali pachistani sono conosciuti per la sistematicità con cui avvallano le accuse più bizzarre. Nel 1996, per esempio, un contadino cristiano è stato arrestato con l’accusa di aver commentato il romanzo Versetti satanici dello scrittore anglo-indiano Salman Rushdie. In primo grado è stato condannato alla pena capitale; fortunatamente per lui, nel 2002 la Corte suprema, alla quale si era appellato, lo ha assolto.
Nel marzo 2001 un cristiano è stato accusato di blasfemia per avere tirato la barba a un musulmano. Nello stesso anno due cristiani sono stati interrogati nel quadro di un’inchiesta su un banale traffico di stupefacenti; poiché hanno rifiutato di versare una mazzetta ai poliziotti si sono visti affibbiare l’accusa di aver bruciato alcune pagine del Corano, ricevendo di conseguenza una condanna al carcere perpetuo. Eppure, al processo il loro avvocato era riuscito a far ammettere ai poliziotti chiamati a confermare le accuse che gli imputati non avevano indosso né fiammiferi né accendini, e dunque non erano in condizione di bruciare il Corano. Nonostante ciò i due sono stati condannati, a causa delle forti pressioni esercitate dai militanti integralisti locali sul giudice. C’è stato ancora una volta bisogno del giudizio della Corte suprema per assolvere gli sventurati.
Nell’aprile 2001 il preside cristiano di un liceo privato è stato arrestato con l’accusa di aver pronunciato dichiarazioni blasfeme nei confronti del Profeta. In realtà, uno degli accusatori era un preside suo concorrente, furibondo a causa del successo riscosso dall’istituto gestito dall’accusato.
Nel 2004 un cristiano è deceduto all’ospedale di Lahore, in cui era stato trasferito dalla prigione cittadina, dove era rimasto a marcire per un mese. Il suo crimine? Il bibliotecario di una moschea vicina a casa sua affermava di averlo veduto mentre versava immondizia su una lastra di marmo decorata con versetti del Corano.
I casi simili a quelli che abbiamo citato a titolo di esempio sono una vera legione.
Nel 2005 un cristiano è stato arrestato a causa di una disputa finanziaria con un vicino musulmano. Contro ogni previsione ha vinto il processo, ma non ha potuto assaporare la sua pur modesta vittoria: infatti, nel vicinato si è sparsa la voce che avesse bruciato pagine del Corano. Parecchie centinaia di estremisti musulmani hanno invaso le strade del villaggio in cui risiedeva l’uomo, aggredendo i cristiani e dando alle fiamme le loro case. Lo sfortunato protagonista della vicenda è riuscito a darsi alla fuga mentre due suoi fratelli venivano arrestati e sottoposti a tortura; alla fine è stato catturato e a sua volta torturato perché confessasse. Gli sforzi della commissione «Giustizia e Pace» della Conferenza episcopale pachistana, in ogni caso, sono stati fruttuosi: l’autore della denuncia ha infatti ammesso di non aver mai visto il cristiano commettere l’atto di cui lo accusava.
La legge contro la blasfemia è stata causa di numerose tragedie. Nel 1998 monsignor John Joseph, vescovo di Faisalabad, disperato per l’iniquità dei processi condotti contro i cristiani, si è sparato un colpo di pistola alla testa di fronte al tribunale che un mese prima aveva condannato a morte per blasfemia un suo correligionario.
Dopo la pubblicazione, nel 2003, di un rapporto della Commissione per i Diritti Umani dell’ONU che chiedeva al Pakistan di abolire le misure discriminatorie nei confronti dei cristiani, le Chiese locali hanno ricominciato la loro battaglia in favore dell’abrogazione della legge contro la blasfemia. In un primo tempo il presidente Musharraf ha fatto sapere di essere favorevole all’ipotesi di modificare o addirittura di abolire la legge. Ben presto, però, il segretario di Stato alle Minoranze, Habib Ur Rehman, ha dissipato le illusioni. Durante un incontro con i rappresentanti cristiani e induisti ha spiegato che non vi erano le condizioni per l’abrogazione pura e semplice del testo: l’opinione pubblica pachistana non avrebbe capito. Al massimo si poteva sperare, in un futuro non troppo lontano, di modificarla leggermente, attraverso un dibattito che coinvolgesse tutte le parti in causa. La questione è tuttora al vaglio delle autorità… Nel frattempo nulla è cambiato e la legge contro la blasfemia continua a essere usata contro i cristiani.

Le discriminazioni e le persecuzioni nei confronti dei cristiani pachistani sono diventate più frequenti e più dure dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, ai quali ha fatto seguito l’intervento della coalizione internazionale in Afghanistan. Questo paese, com’è noto, ha svolto un ruolo importante nella formazione dei movimenti fondamentalisti musulmani durante il periodo dell’occupazione sovietica. Migliaia di mujāhidīn, giunti dai quattro angoli del Dār al-Islām, hanno mosso i primi passi accanto ai resistenti afgani.
La guerra in Afghanistan ha modificato la situazione politica del vicino Pakistan. Alcune regioni, situate alla frontiera tra i due paesi, da sempre sfuggono al controllo del governo centrale pachistano, servendo da rifugio per i miliziani afgani e i talebani. In seguito agli eventi che abbiamo brevemente ricordato, il mondo musulmano pachistano si è radicalizzato: alcuni movimenti che predicano una stretta applicazione della legge islamica hanno fatto pressione sui vari governi, militari e civili, affinché procedessero a una profonda islamizzazione della società e dello Stato.
Le operazioni condotte contro i talebani afgani e al-Qā’ida, come d’altronde l’intervento angloamericano in Iraq, hanno notevolmente aumentato l’ostilità verso i «crociati» occidentali, accusati di condurre una guerra santa contro l’islām; di ciò fanno le spese i cristiani locali, ai quali è rinfacciata una presunta complicità con l’Occidente. Gli attentati dell’11 settembre 2001 hanno avuto l’effetto di spingere un gran numero di persone nelle braccia dei gruppi fondamentalisti musulmani, che si sono scatenati contro i cristiani, spesso con il beneplacito dei servizi segreti pachistani.

Una drammatica svolta nella storia del cristianesimo pachistano si è verificata domenica 28 ottobre 2001, con l’attentato mortale ai danni della chiesa di San Domenico a Bahawalpur, nell’est del paese. Si tratta di un edificio di culto usato a turno dalla locale comunità cattolica e da quella protestante, come spesso accade nelle grandi città. Al termine di un servizio protestante tre assassini giunti in moto hanno cominciato a sparare sui fedeli al grido di «il Pakistan e l’Afghanistan sono il cimitero dei cristiani!», uccidendone 16 e ferendone parecchie decine.
L’attentato ha suscitato profonda emozione, sia in Pakistan che all’estero. Le Chiese locali, a prescindere dalla confessione, hanno pubblicato un documento comune nel quale facevano appello all’unità e alla solidarietà dell’intera nazione.
Nonostante ciò, le violenze anticristiane sono raddoppiate. Nel marzo 2002, un attentato ha colpito il tempio protestante di Islamabad, frequentato da fedeli pachistani e stranieri: 5 persone sono morte e 46 sono rimaste ferite. Nell’agosto del 2002 è stata attaccata una scuola cristiana situata a 50 chilometri da Islamabad; nello stesso mese qualcuno ha lanciato una bomba all’interno della cappella dell’ospedale presbiteriano di Taxila, dove erano riuniti 200 fedeli. Il 25 settembre 2002 i locali della Commissione Giustizia e Pace della Caritas, a Karachi, hanno subito un attacco costato la vita a 7 persone: 6 cattolici e 1 protestante.
Per il vescovo di Islamabad e Rawalpindi, monsignor Lobo, non c’era alcun dubbio sul fatto che le attività di quell’organizzazione cristiana dessero fastidio a qualcuno: «Le nostre ONG sono i profeti di oggi», ha dichiarato.
«Profeti di oggi» è una bella espressione, rispondente al vero. Secondo il prelato i volontari avevano pagato per il loro impegno ed erano stati scelti come capri espiatori.
Monsignor Lobo, noto per il suo coraggio e per la sua franchezza, ha destato scandalo denunciando nella sua Lettera pastorale ciò che egli chiama la mentalità pachistana, ovvero un attaccamento al mito della potenza, della forza e della violenza, che rifiuta categoricamente qualunque esame di coscienza, preferendo accanirsi contro capri espiatori. Il governo ha ribattuto in modo invero bizzarro, sostenendo che il suo impegno per garantire la protezione degli occidentali residenti in Pakistan gli impediva di vigilare sulla sicurezza dei cristiani locali!
Le violenze sono riprese con particolare intensità dopo la pubblicazione da parte della stampa danese di caricature del profeta Maometto. Sebbene il Vaticano e le Chiese pachistane abbiano condannato le vignette, in numerose città si sono svolte manifestazioni anticristiane: alcune chiese sono state attaccate e bruciate e si sono verificati episodi di tortura ai danni di cristiani. Da allora atrocità e violenze sono all’ordine del giorno.

Bisogna probabilmente essere «pazzi» per essere cristiani in Pakistan! L’ipotesi di una «pazzia cristiana», peraltro, è stata avanzata nel vicino Afghanistan a proposito della singolare vicenda di un afgano convertito al cristianesimo. Abdul Raham viveva in un campo profughi in Pakistan; dopo essersi convertito alla religione cristiana aveva trascorso nove anni in Germania. Tornato in Afghanistan nel 2002, è stato arrestato quattro anni più tardi in seguito alla denuncia della moglie e delle due figlie, le quali hanno testimoniato che aveva rinnegato l’islām. Condannato a morte, è stato graziato dal presidente Hamid Karzai su richiesta di papa Benedetto XVI.
Karzai, tuttavia, preoccupato di non irritare le autorità religiose musulmane, ha ritenuto opportuno giustificare il proprio gesto dichiarando: «Quell’uomo soffre di gravi turbe, che spiegano la sua conversione al cristianesimo». Il «pazzo» è stato liberato, e da allora vive in Italia.

   
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