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Il sonno della ragione affonda il Medio Oriente
Giorgio Ferrari , Avvenire 14 giugno 2007

Le guerre civili negano il cambiamento

Una guerra civile divampa ormai in tutto il Medio Oriente, dall’Afghanistan alla Striscia di Gaza, in Libano come in Iraq. Si attaccano moschee e si perseguitano cristiani a Baghdad, si tendono agguati sempre più sanguinosi a Kabul, Herat, Kandahar, si fanno esplodere autobomba in Libano (l’ultimo episodio ieri pomeriggio a Beirut, che ha causato la morte di un deputato della maggioranza) e si combatte una guerra fratricida fra palestinesi, con una miccia accesa nei campi di Nahr el Bared e Ein el Helweit in Libano e un drammatico epicentro a Gaza, dove si affrontano strada per strada le due fazioni in lotta, Fatah e Hamas. A nulla sembrano portare le invocazioni e gli appelli alla ragione, le mediazioni, le strategie diplomatiche.

In questo gigantesco teatro di guerra – asimmetrica, civile, fratricida, sunniti contro sciiti, palestinesi contro palestinesi, filosiriani contro cristiani e sunniti – svetta purtroppo una più grande e vistosa volontà, quella di un nichilismo interno al Medio Oriente che non riesce più a distinguere fra obiettivi realisticamente perseguibili e utopie sanguinarie, fra la tattica – anche cruenta – e la voluttà di annientamento.

Emblema di questo sonno della ragione è più di tutte la diaspora fratricida che da settimane insanguina la Striscia di Gaza. Sordo ad ogni appello conciliatore, Hamas e i suoi leader – da Ismail Haniyeh all’esule in Siria Khaled Meshaal – hanno divaricato all’estremo il solco che li separa dall’altra anima palestinese, quella di Fatah e di Abu Mazen. Né il governo di unità nazionale guidato dal 15 febbraio scorso da Haniyeh e faticosamente allestito grazie alla mediazione saudita sembra in grado di voler davvero porre fine a questa spirale di violenza: in gioco c’è la supremazia, la conquista del potere assoluto all’interno del mondo palestinese, dove – come si può vedere – non sembra esserci posto per entrambi. Tanto che i più avveduti fra gli osservatori internazionali già prefigurano una assai prossima spartizione dei Territori in due entità separate politicamente e culturalmente, Hamastan (nella Striscia di Gaza) e Fatahstan (in Cisgiordania), la prima con un vicer pragmatico ma eterodiretto come Haniyeh, la seconda con un anziano politico come Abu Mazen, ridotto più o meno a fare il sindaco di Ramallah.

Peggio di così non era possibile immaginare. Eppure a ben guardare i segnali c’erano, e abbondanti: dall’incendio divampato nei campi profughi in Libano ad opera di ali radicali e fondamentaliste in aperto contrasto con la corrente maggioritaria di Fatah, al mai cessato stillicidio dei rudimentali razzi che bersagliano senza tregua gli insediamenti israeliani vicino alla Striscia. Né si può chiudere gli occhi di fronte ai grandi manovratori che stanno dietro ad Hamas, Teheran e Damasco, i cui inviti alla conciliazione e al cessate il fuoco hanno lo sgradevole sapore di una mortificante presa in giro.

Così, nello scontro tribale che non risparmia neppure i pacifisti e i volontari della Croce rossa, il quarantaquattrenne Haniyeh ha dissipato la grande vittoria elettorale che Hamas aveva conseguito su Fatah, seppellendo una dirigenza palestinese legata agli schemi di Yasser Arafat e viziata dall’inefficienza e dalla corruzione. Il tutto, frutto di un calcolo, quello già sperimentato in Libano con Hezbollah, che alla stabilità e al gioco democratico contrappone il caos politico e l’insicurezza. Il gioco, per ora, sembra riuscire.

Ma, come abbiamo detto all’inizio, la vittima vera è la credibilità palestinese. Chi potrà fidarsi domani di Hamas? L’Europa, che ha finora tenuto in piedi le finanze palestinesi con una generosità di cassa pari soltanto alla propria impotenza? Oppure l’Onu, cui si guarda con la timorata speranza che invii – magari in concorso con l’Europa stessa – l’ennesima forza di interposizione per impedire che i palestinesi si ammazzino fra loro?

Occorrerà forse una generazione intera perché i palestinesi possano ripresentarsi a un tavolo di negoziato per gettare le basi di uno Stato indipendente e sovrano con un volto nuovo e soprattutto persuasivo. Quelli di Abu Mazen e di Hamas certo non lo sono. Qualcuno già rimpiange Arafat. Regalo migliore a Israele, dicono in molti, non si sarebbe potuto fare. Ma il peggio, con tutta probabilità, deve ancora venire.

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