Opera interessante, frutto di un lungo studio e di uno sforzo
notevole di ricerca, ma tendenziosa è quella sul Vaticano II di Roberto de
Mattei. I talenti dell'autore avrebbero meritato l'impegno per una storia
finalmente più obiettiva - e non ideologica, polarizzata e di parte - su un
concilio che alla fin fine de Mattei presenta come modernista. Siamo di fronte
in effetti a una storia simile a quella orchestrata dalla "scuola" di Bologna,
anche se di segno contrario.Il risultato non cambia: di rottura si tratta
rispetto alla Tradizione, e lo conferma il frequente richiamo analogico alla
Rivoluzione francese. Anzi, l'autore si serve della critica storica, ma
ideologica, della scuola bolognese per appoggiare il suo procedere, di polo
contrario. Nel primo caso espressione principe del cosiddetto progressismo
estremo, qui del tradizionalismo. In entrambi i casi non viene accolto
l'aggiornamento, cioè il rinnovamento nel contesto della Tradizione voluto da
Giovanni XXIII e da Paolo VI e confluito nei testi del Vaticano II, approvati
quasi all'unanimità dai Padri conciliari.
Tra l'altro, per me è fonte di amara sorpresa costatare che la mia critica,
pur lodata dall'autore (cfr. p. 7, nota 1), non scalfisce nel concreto quanto
egli cita a piene mani proprio dall'opera da me criticata: de Mattei anzi si
appropria per i suoi fini delle note negative, perdendo così un'occasione. E
dispiace molto perché si è costruito un altro libro a tesi. A sua difesa
l'autore porta l'argomento che la sua ricerca è storica e che egli non è
teologo, per cui la questione ermeneutica presentata da Benedetto XVI nel
discorso del 22 dicembre 2005 non lo sfiora. Ma può procedere così uno storico
rispettoso del cattolicesimo, ritenendo il suo approfondimento indipendente da
quello ermeneutico? Se mi è permesso tornare al mio "contrappunto" per una
storia della grande assemblea (Il Concilio Ecumenico Vaticano II, Città del
Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2004), io stesso mi ponevo sul piano
storico e criticavo una ricerca ideologica, non tendente all'obiettività,
affascinata dall'evento e dimentica quasi dei testi conciliari, che soli
esprimono quanto i Padri approvarono e il Papa confermò.
Abbiamo ora due storie di tendenza estremista, delle quali quella
tradizionalista pesca nell'altra, giungendo allo stesso giudizio di rottura che
contrasta quello del Magistero e di tutti i Pontefici succedutisi dal 1958. Fra
questi, come fa de Mattei a ritenere progressisti Giovanni XXIII e Paolo VI,
definizione che per lui significa in fondo affetti di modernismo? È questo il
chiodo fisso dell'autore, che per di più con esso identifica i vari movimenti -
liturgico, biblico, patristico, ecumenico, e via dicendo - che hanno preparato
il Vaticano II e che sono qui analizzati. Con una scelta necessaria, non
compiuta nell'opera diretta da Alberigo ed effettuata invece, mutatis mutandis,
da Jedin per il concilio di Trento. L'autore considera però questi movimenti
"bacati" di modernismo (il che non significa che qualche tendenza modernista non
possa essere affiorata in concilio).
Dal giudizio negativo non si salva neppure Pio XII, che sarebbe stato blando
con la nuova teologia, e ancor meno Pio XI. Solo brillano Pio X e la sua
Pascendi. Ma allora dove va a finire il Magistero ordinario papale? È forse
autentico solo quello che passa dal filtro dell'autore? Un'altra storia, dunque.
Sì, ma un'altra si dovrebbe ormai scrivere, storicamente lontani dagli
estremismi: nella linea di quella maggioranza formatasi in concilio, nel dialogo
(e a volte nello scontro) tra opinioni, nella ricerca del consenso e del
compromesso - "una via di mezzo, attraverso la quale tutti possano avanzare",
secondo l'espressione del cardinale Frings - preso ovviamente in senso non
negativo. E intendo maggioranza nell'accezione non parlamentare, contrariamente
al pensiero, ripetuto dall'autore, per il quale ci furono invece due minoranze.
Che una storia non ideologica ora si possa scrivere è una mia convinzione,
lontana dall'iperbole usata da de Mattei, secondo il quale per la vera storia
del Vaticano II si dovrà attendere "che tutti gli archivi siano esplorati e
tutti i documenti portati alla luce" (pp. 27-28). Ciò significherebbe, in
pratica, mai. Invece ora si potrebbe - anzi si dovrebbe - procedere: con i testi
ufficiali, con tanti archivi esplorati, con molti importanti diari pubblicati,
da sottomettere peraltro a un vaglio critico incrociato e rispettando la
gerarchia delle fonti. Potremmo aggiungere, ritornando all'autore, che egli
esagera il ruolo del Coetus Internationalis Patrum e l'apporto brasiliano (in
direzione progressista o tradizionalista), non facendo le distinzioni dovute e
operate per esempio da Perrin, con ripercussioni evidenti nella valutazione del
post-concilio.
A questo proposito bisogna rilevare che per de Mattei il termine
"post-concilio" è "storicamente improprio perché suppone una inesistente
frattura tra la fase storica aperta dal concilio e quella immediatamente
seguente" (p. 527). Questo permette all'autore - ma è un errore - di parlare di
"epoca del concilio" fino alla morte di Paolo VI e, aggiungo, di accusare la
grande assemblea sinodale per quanto avvenuto negli anni successivi al Vaticano
II. Un periodo in cui ci fu la tendenza di appropriarsi di nuovo, ciascuno, del
proprio punto di vista, di avere il proprio "gusto" (per riprendere
un'espressione del cardinale Ratzinger), che in concilio aveva trovato
equilibrio e consenso nel rinnovamento secondo la Tradizione. Ciò causò la crisi
post-conciliare. Ma post hoc, non propter hoc, come si disse più di una volta in
interventi del Magistero. Sempre in linea generale, va osservato che nel libro
si preferisce riportare specialmente il pensiero della minoranza e tralasciare
il lavoro compiuto nelle commissioni conciliari. Si può capire, dal punto di
vista dell'autore, e del resto forse è reazione a quanti in passato hanno
spostato il baricentro conciliare dall'assemblea alle commissioni. Nei diari, di
cui è riportato qualche stralcio ad usum delphini, vi è comunque eco delle
discussioni nelle commissioni stesse. E si può aggiungere infine che l'autore
usa un linguaggio eccessivo, battagliero, se non addirittura bellicista - guerra
di qua, battaglia di là - e sembra dimenticare che sinodo significa camminare
insieme. Ciò vale per tutti, pur tra fatiche, discussioni e contrapposizioni.
Legittime, ma fino a un certo punto.
(©L'Osservatore Romano 14 aprile 2011)