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Una visione islamica dei rapporti con ebraismo e cristianesimo
La compassione chiave del dialogo tra le fedi
di Mona Siddiqui
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"Le prospettive islamiche sull'ebraismo e sul cristianesimo" è il
titolo della conferenza che la direttrice del Centro per gli studi
sull'islam dell'università di Glasgow, in Scozia, ha tenuto nel pomeriggio
di mercoledì 5 a Roma, presso la Pontificia Università San Tommaso d'Aquino.
Pubblichiamo una sintesi dell'intervento della studiosa, musulmana e
d'origine pakistana, nota per il suo sostegno al dialogo tra le religioni e
per un lavoro teologico che sottolinea il valore delle fedi monoteiste.
Nella mia ricerca religiosa, sempre più mi accorgo che la conoscenza, intesa
nella sua accezione più ampia, è un dono divino, non confinato in una
religione in particolare. E che il perseguimento della conoscenza in tutte
le grandi fedi è inestricabilmente legato alle grandi virtù della giustizia,
della speranza e dell'amore. Il perseguimento della conoscenza è un
esercizio nobile, ma questa diviene perfetta solo quando si fa anche ciò che
è giusto e buono. La fede religiosa stessa può essere svuotata del dogma e
della dottrina, ma considererà sempre le buone azioni come valori nobili in
sé. Le buone azioni sono ciò che Dio stesso vuole. Il Corano dice: "Se Dio
avesse voluto, vi avrebbe riunito in una unica comunità. Quindi gareggiate
in buone azioni, così che Egli possa mettervi alla prova con ciò che vi ha
dato" (5, 48).
I musulmani hanno storicamente avuto atteggiamenti differenti verso le altre
religioni, specialmente quella ebraica e quella cristiana. L'unitarietà e la
diversità dell'umanità sono temi che coesistono nel Corano e possono essere
interpretati a supporto tanto di rivendicazioni inclusiviste, quanto
esclusiviste. Molti esegeti musulmani ne hanno derivato il presupposto che
la religione primordiale di tutte le genti fosse l'islam e che tutto iniziò
con Adamo, considerato essere il primo profeta.
La questione non riguarda tanto il riconoscimento delle religioni ebraica e
cristiana, in quanto queste erano già presenti nel sesto secolo. Inoltre, i
musulmani riconoscono i loro antichi profeti come parti del loro credo. Le
tensioni risiedono, invece, su come devono essere percepite teologicamente,
oltre che nelle relazioni sociali.
La domanda essenziale riguarda il come i musulmani intendono il loro essere
cittadini di maggioranza o di minoranza nell'odierna realtà sociale.
L'esperienza umana di vivere e lavorare con popoli e culture differenti sarà
il fattore determinante per uno sviluppo del pluralismo all'interno
dell'islam? Oppure, le varianti ai testi del Corano significheranno che il
non credente, cioè il non musulmano, non potrà mai essere considerato come
un uguale?
Ci si può chiedere se gli accademici e i rappresentanti religiosi sperino
veramente d'influenzare i conflitti e la politica nel mondo. Tra quelli che
hanno lavorato al dialogo interreligioso, sono sicura di non essere la sola
a ritenere che dove c'è conflitto fra i popoli, il dialogo religioso da solo
non può condurre alla pace e alla riconciliazione. Che funzione può avere il
dialogo quando le persone vengono fatte saltare in aria e le loro famiglie e
le loro case vengono distrutte? A meno che non sia sostenuto dalla volontà
politica, il dialogo rimane solo un nobile esercizio con un effetto
limitato.
Molti in Occidente ritengono che il dialogo non è una necessità, ma
un'opzione, un privilegio. Il lavoro interreligioso può essere un simbolo di
unità tra le civiltà e può anche essere sentito tra i seguaci delle fedi. Ma
funziona meglio quando c'è sia il testo che il contesto. Molti musulmani e
cristiani rimangono convinti che il dialogo sia fondamentalmente difettoso,
non solo dal punto di vista teologico, ma anche in termini pratici. Come
possono i musulmani e i cristiani parlare dello stesso Dio quando hanno
concezioni tanto differenti dello stesso Dio? Se il dialogo non punta alla
conversione a Cristo o al verificarsi del Corano, qual è il suo scopo reale?
Per me l'ebraismo, il cristianesimo e l'islam sono il compimento di un
messaggio rivelato. Tutti noi abbiamo sbagliato a volte e continueremo a
sbagliare se non pensiamo e non agiamo con compassione. La compassione non è
un'astrazione teologica. Se Dio per me, come musulmana, è definito come
l'essere più caritatevole, come posso allora io vivere quotidianamente
quella pietà circondata per la maggior parte del tempo da gente di fede
diversa o senza fede? La nostra ricerca di Dio non è una metafora. Essa
richiede sacrificio e pazienza, ma soprattutto la gioia di saper condividere
e vivere insieme, nonostante il conflitto, che è parte della condizione
umana.
Il lavoro interreligioso non è mai stato, implicitamente o esplicitamente,
finalizzato alla conversione. Da musulmana che ha vissuto gran parte della
propria vita in Occidente, ho imparato che la fede parla in un processo
d'apprendimento e accettazione, di dubbio e umiltà. La cosa più importante,
è stata il comprendere che parlare d'umanità comune richiede una grande
generosità nel fronteggiare la differenza pratica. Il dialogo è per me una
estensione dell'ishan: "Agire sapendo che se tu non vedi Lui (Dio),
Lui vede te".
(©L'Osservatore Romano - 6 maggio 2010)
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