SANTA MESSA D'INIZIO
MINISTERO EPISCOPALE
OMELIA DI MONS. FRANCESCO MORAGLIA
Basilica di S. Marco – Venezia, 25 marzo 2012
Eminentissimo patriarca Marco,
Eccellentissimo Rappresentante Pontificio,
venerati confratelli, autorità, carissimi
presbiteri, diaconi, consacrati/e, fedeli laici,
caro monsignor Beniamino, amministratore
apostolico, carissimi veneziani,
è sotto lo sguardo materno della Nicopeia -
nel giorno dell’Annunciazione del Signore, 25
marzo, natale della città - che la Chiesa di Dio
che è in Venezia, attraverso la presa di
possesso del nuovo patriarca, viene ricostituita
nella sua pienezza teologica, giuridica e
pastorale; rivolgiamo il nostro umile grazie a
Dio.
In questo giorno la Chiesa che è in Venezia è
chiamata in modo particolare ad innalzare la sua
lode; tutto, infatti, esprime lo stupore e la
gioia del popolo di Dio che - reso tale nel
sangue di Cristo -, celebra la prima eucaristia
presieduta dal nuovo patriarca, il
quarantottesimo successore di San Lorenzo
Giustiniani. Così gli uomini passano, ma la
Chiesa rimane; oggi tocchiamo con mano questa
realtà. È proprio il vescovo - attraverso la
successione apostolica - che, col suo ministero,
“configura compiutamente” la Chiesa particolare
e, tramite la comunione diacronica, si lega al
ministero dei Dodici e, con loro, allo stesso
Gesù e alla sua Pasqua.
Significativa è - a metà del terzo secolo -
sul ministero episcopale la testimonianza di
Cipriano, vescovo di Cartagine. Infatti, secondo
Cipriano, la Chiesa particolare - per divino
volere - è strutturalmente incentrata sul
vescovo che tiene, in essa, il posto di Cristo
sommo sacerdote; il vescovo è il sacerdote che,
nel nome Cristo, guida la comunità ecclesiale.
L’insegnamento del vescovo di Cartagine - circa
la comunione fra i vescovi - è oltremodo chiara;
infatti, per Cipriano, il vescovo di una chiesa
particolare deve vivere in stretta comunione con
gli altri vescovi ma, alla fine, è la comunione
col vescovo di Roma a garantire la stessa
collegialità episcopale (cfr. Cipriano, Lettera
ad Antoniano, PL 3,787-788).
È la realtà della collegialità che, in
seguito, troverà compiuta e piena formulazione
nell’ecclesiologia del Concilio Ecumenico
Vaticano II. E in quest’anno, cinquantesimo
anniversario della sua solenne inaugurazione,
siamo invitati a cogliere sempre meglio il
magistero di questa assise ecumenica secondo
quell’ermeneutica del rinnovamento nella
continuità, che autorevolmente ci propone
Benedetto XVI. Il Vaticano II è il grande evento
ecclesiale che ha segnato profondamente la vita
della Chiesa e al quale dobbiamo guardare con
fiducia.
È proprio in forza della collegialità
episcopale che il vescovo di una chiesa
particolare - in comunione col vescovo di Roma -
ha un legame inscindibile con gli altri vescovi.
Siamo nella logica del mistero, per cui non
solamente il vescovo è coinvolto, ma ogni chiesa
particolare è tale in forza del rapporto
intrinseco con la chiesa di Roma. Ed è in questa
chiave che i confratelli vescovi del Triveneto
guardano, con speranza e realismo, all’imminente
convegno di Aquileia 2, rinnovando anzitutto il
vincolo collegiale tra loro e le loro chiese e
tra loro e il vescovo di Roma, il vescovo dei
vescovi. L’impegno comune è renderci
disponibili, con le nostre Chiese, ad ascoltare
ciò che lo Spirito vorrà suggerirci per una
nuova evangelizzazione di queste terre, in vista
del bene comune e nel dialogo con la cultura
contemporanea.
Si tratta, così, di ricentrare la vita delle
nostre chiese, a partire dalla responsabilità
personale dei pastori e, per la loro parte, dei
fedeli, avendo di mira l’annuncio di Cristo. Per
questo, anzitutto, ci si chiede come l’«educare
alla vita buona del vangelo» possa avvenire in
modo più efficace nelle chiese del Nordest; in
una terra che, da sempre, svolge la funzione di
ponte tra l’Est e l’Ovest, tra il Nord il Sud
del mondo e, oggi, più che mai, è chiamata a
svolgere tale missione.
E in ragione di questo, la chiesa che è in
Venezia è chiamata a far proprio ciò che scrive
l’autore della lettera agli Ebrei quando,
esortando i discepoli a una reale vita di fede,
così si esprime: «...corriamo con perseveranza
nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo
sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede
e la porta a compimento» (Eb 12,2).
La nuova evangelizzazione, per essere
realmente tale, suppone che la comunità
evangelizzante sia, prima di tutto, rigenerata
nel proprio rapporto vitale con Cristo; ogni
cammino d’evangelizzazione ha inizio non con
l’elaborazione di piani pastorali o progetti
accademici delle facoltà teologiche, e neppure
attraverso un’auspicabile copertura del
territorio da parte dei media. Certo questi
strumenti, per quanto di loro competenza,
concorrono all’opera evangelizzatrice in modo
eccellente ma non costituiscono, ancora, il
fondamento dell’evangelizzazione.
Sono infatti i discepoli, intesi
personalmente e comunitariamente, che vengono
prima degli uffici pastorali, prima delle
facoltà teologiche, prima della rete mediatica;
solo in un secondo momento, tali strumenti
diventano preziosi e, sul piano umano, oggi,
insostituibili per sostenere una reale missione
evangelizzatrice; si tratta di strumenti a
servizio di una comunità testimoniale di cui
devono veicolare la tensione missionaria,
esprimendola con i loro linguaggi e i loro
approcci specifici. Prima di tutto, però, viene
la comunità testimoniante che, in nessun modo,
può essere surrogata o data per presupposta.
In merito, il libro degli Atti degli Apostoli
é esplicito e, già nella sua struttura, offre
una preziosa indicazione che va esattamente in
tale direzione; questo libro che contiene la
prima narrazione della storia della chiesa, e
insieme fa parte dei libri normativi della fede
-, non lo si può comprendere in senso pieno,
senza il presupposto teologico e spirituale da
cui consegue l’impegno missionario della chiesa.
Tale presupposto - come sappiamo - è
costituito dal dono dello Spirito Santo, ossia,
l’evento della Pentecoste; senza questo dono -
compimento della promessa del Signore - noi non
avremmo la chiesa comunità evangelizzata ed
evangelizzatrice. È proprio il dono dello
Spirito Santo che costituisce la chiesa,
trasformando un gruppo di discepoli impauriti
nella comunità del Signore risorto.
Prima degli annunci cherigmatici e delle
catechesi degli apostoli, prima dei viaggi
missionari e della fondazione delle chiese
particolari, il libro degli Atti narra l’evento
di Pentecoste, evento dal quale si può
comprendere il significato di ciò che, in
seguito, verrà scandito pagina dopo pagina.
La Pentecoste è, in tal modo, l’inizio della
chiesa: non soltanto in senso cronologico, ma
essenziale-valoriale; tutto ciò che era accaduto
prima del vento impetuoso che si abbatte
gagliardo e delle lingue di fuoco che si posano
sui presenti - come narra il libro sacro (cfr.
At 2,2-3) - è semplice preparazione, sono
soltanto fatti che precedono; la Pentecoste è il
vero evento che costituisce ed inaugura la
chiesa alla quale, in Gesù, sono chiamati tutti
gli uomini di buona volontà.
Richiamo, a questo punto, la pagina lucana
dei due discepoli di Emmaus, perché in essa
troviamo qualcosa che caratterizza la chiesa di
ogni tempo, quindi, anche la nostra; è
un’immagine estremamente significativa e,
proprio per questo, va considerata fino in
fondo, in tutte le sue implicanze teologiche,
spirituali, pastorali e giuridiche.
I due pellegrini - Cleopa e il compagno di
strada - stanno camminando con Gesù risorto e
sono tristi perché, per loro, è ancora morto; a
un determinato momento, pretendono, addirittura,
di spiegare proprio a Lui che cosa era successo
- nei giorni precedenti, in Gerusalemme - a quel
Gesù, profeta potente in parole e opere, di
fronte a Dio e al popolo. Pare di intravedere,
in questo goffo tentativo, l’immagine di certa
teologia, più volenterosa che illuminata, tutta
dedita all’ardua e improbabile impresa di
salvare, attraverso le proprie categorie, Gesù
Cristo e la Sua Parola. Ma in questa immagine,
siamo rappresentati anche noi, ogni qual volta,
con i nostri piani pastorali, con i nostri
progetti e dibattiti, avulsi da una vera fede,
pretendiamo di spiegare a Gesù Cristo chi Egli
è.
Cleopa, il suo compagno di cammino - e dopo
di loro i discepoli di ogni tempo - alla fine
esprimono tutta la loro desolazione e sfiducia,
nei confronti di Gesù e del suo operato; le
parole dei due e l’uso del tempo imperfetto
risultano inequivocabili: “…noi speravamo che
fosse Lui a liberare Israele; con tutto ciò sono
passati tre giorni…” (Lc 24, 21). Quando la fede
viene meno, o non è più in grado di sostenere e
fecondare la vita dei discepoli, allora ogni
discorso teologico, ogni piano pastorale o
copertura mediatica appaiono insufficienti. E
noi, ci troviamo nella stessa condizione dei due
discepoli di Emmaus, incapaci d’andar oltre le
loro logiche, i loro stati d’animo, scoprendosi
prigionieri delle loro paure. Teniamo conto di
tutto ciò alla vigilia dell’incipiente anno
della fede.
Ma l’evangelista Luca, ci insegna ancora che
spezzare il pane con Gesù - l’eucaristia - è il
gesto irrinunciabile e specifico del realismo
cristiano, attraverso cui i discepoli potranno
andare oltre le loro soggezioni, suggestioni e
paure. In altre parole, l’eucaristia ci consegna
- nel mistero - Gesù vivo e vero; quindi
l’eucaristia dev’essere, anche per noi, evento
privilegiato del realismo cristiano. Luogo e
momento in cui siamo chiamati ad andare oltre le
nostre risorgenti incredulità e ad aprirci un
varco alla “realtà intera” che non prescinde
dalle vicende storiche ma va oltre di esse e,
superando la parzialità della dimensione
storica, ci consegna ad una prospettiva nuova,
per cui si giunge ad un amore capace di verità e
ad una verità sorretta dall’amore.
Qui s’inserisce e acquista il suo senso vero
il commiato liturgico che, fra poco, per la
prima volta - attraverso la voce del diacono -
ci scambieremo reciprocamente, vale a dire: “La
messa è finita andate in pace”. Quando la
celebrazione liturgica è assunta nella nostra
vita, si dà il senso e la realtà ultima
dell’eucaristia, ovverossia, l’umanità nuova che
nasce dal Corpo dato e dal Sangue effuso, non
prescindendo dalla realtà storica del momento
presente: “…Quando fu a tavola con loro, prese
il pane, disse la benedizione,, lo spezzò e lo
diede loro. Ed ecco si aprirono i loro occhi e
lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista…
”(Lc 24,30-31).
Impegniamoci - come chiesa che è in Venezia -
a ricordarci, reciprocamente, la ricchezza e
fecondità di tale realismo cristiano; il vescovo
lo faccia in quanto vescovo, i presbiteri in
quanto presbiteri, i diaconi in quanto diaconi,
i consacrati come consacrati, gli sposi come
sposi e spose. Realismo cristiano che, in quanto
tale è sempre e contestualmente rispettoso della
molteplicità e delle distinzioni, ossia della
sacralità come della laicità; e ciò, a scanso
d’equivoci, sia detto e ripetuto. Il vero
realismo cristiano promuove sempre l’umano come
tale, ovunque lo incontra. Realismo che partendo
da Gesù Cristo - unigenito del Padre e
primogenito di una moltitudine di fratelli -
ritorna a Cristo, dopo aver incontrato e
attraversato, in tutto il suo spessore e i suoi
diversi gradi, la creaturalità dell’uomo.
Nell’eucaristia, che è la carità di Cristo
donata qui e ora, si dà la possibilità di
rinnovare l’umanità stessa, a partire dal
rispetto dovuto ad ogni uomo e a tutto l’uomo;
non si dà, quindi, carità vera se si prescinde
dal rispetto della giustizia effettiva -
distributiva e contributiva -, oltre ogni facile
aggiustamento.
Vogliamo infine includerci e includere quanto
accennato, nello scenario dell’anno della fede
indetto da Benedetto XVI, e che presto prenderà
avvio, e vedrà impegnata con forza la chiesa che
è in Venezia, attraverso la corresponsabilità di
tutti i suoi membri, secondo la loro specifica
vocazione. Ci limitiamo ad una sottolineatura
circa l’evangelizzazione della chiesa stessa che
deve crescere nella consapevolezza della fede
per educarsi e porsi, senza arroganza ma anche
senza timori e complessi d’inferiorità, in una
testimonianza dialogica con le culture del
nostro tempo.
Ritorniamo, infine, al testo di Luca e
vediamo come i due discepoli di Emmaus, senza
frapporre indugio, fanno ritorno a Gerusalemme;
e, proprio loro che, poco prima avevano
liquidato, come semplici fantasie di donne
l’evento glorioso della Risurrezione, ora
vogliono annunciare alla chiesa nascente -
Maria, gli undici e gli altri con loro - che
avevano, niente di meno che, incontrato il
Signore Gesù, lungo la strada, e l’avevano
riconosciuto nell’atto di spezzare il pane; ma,
loro malgrado, sono preceduti da chi dice loro:
“Davvero il Signore è risorto ed è apparso a
Simone (Lc 24,34).
E il realismo cristiano si riflette su quanto
appartiene all’uomo, innanzitutto include il
rispetto della vita sempre, senza condizioni;
poi l’accoglienza/l’integrazione, la promozione
della famiglia, cellula fondamentale della
società umana, l’educazione che mira alla
pienezza della libertà, il lavoro come diritto e
dovere che tocca la dignità stessa dei
lavoratori e delle loro famiglie soprattutto
oggi, il bene comune con il contributo specifico
della dottrina sociale della chiesa; anche
questi valori umani entrano negli scenari della
vita risorta, sono i valori che stanno a cuore a
una ragione amica della fede, valori che
vicendevolmente s’illuminano e sostengono.
Pastore e fedeli, in un momento significativo
per la vita della Chiesa di Venezia, si
ritrovano, oggi, fiduciosi sotto il materno
sguardo della Nicopeia - Colei che guida alla
vittoria - e sono chiamati a dire il loro “sì”
come Maria al momento dell’Annunciazione.
Un “sì” pronunciato col cuore e la ragione;
un “sì” personale e comunitario, un “sì” detto a
Dio e agli uomini, nello spirito di Maria che si
lascia condurre verso un Oltre che, fin d’ora, è
tutta la nostra gioia.
Amen, così sia.