CONTINUITÀ E ROTTURA: I DUE VOLTI DEL CONCILIO VATICANO II
di Enrico MoriniCaro Sandro Magister,
mi permetto di intervenire nel serrato dibattito sull’ermeneutica del
Concilio Vaticano II. Mi ha incoraggiato a farlo anche il fatto che questo
dibattito ha assunto di recente una connotazione legata alla mia città e alla
mia Chiesa, in quanto vi sono coinvolti sia indirettamente la “scuola di
Bologna” – rappresentata dallo scomparso Giuseppe Alberigo e da Alberto Melloni,
esponenti della tesi cosiddetta della “rottura” – sia direttamente il pure
bolognese p. Giovanni Cavalcoli OP, il quale, nella sua difesa della tesi della
“continuità”, sembra discostarsi da una posizione mediana – che recentemente
proprio a Bologna monsignor Agostino Marchetto ha ribadito –, auspicando un
collegamento con gli "avversari tradizionalisti continuisti" (come Roberto de
Mattei) per contrastare il "neo-modernismo degli anticontinuisti".
Io non ho titoli particolari per entrare in questo acceso dibattito: non sono
un teologo, né ho velleità di assumerne il ruolo. Per vocazione sono piuttosto
uno storico. Premetto anche che, pur essendo bolognese – per nascita,
formazione, residenza, docenza – e di fervida fede dossettiana – don Giuseppe
Dossetti è stato mio padre spirituale e il mio punto di riferimento religioso –,
non ho alcun legame, né scientifico né accademico, con la “scuola bolognese”
alberighiana.
Detto questo vengo ad esprimerle le mie riflessioni in merito all’ermeneutica
del Concilio. Rottura dunque o continuità? Rispetto a che cosa, forse alla
tradizione cattolica? Mi chiedo se la tradizione, anche all’interno della stessa
Chiesa, sia un fatto univoco o non ci sia piuttosto una pluralità di tradizioni
nella sua più che millenaria diacronia. Ora, nella mia personale ma convinta
ermeneutica del Vaticano II, il Concilio è stato ad un tempo, intenzionalmente,
sia continuità che rottura.
Innanzitutto esso si è posto, a mio parere, nella volontà sia del suo beato
promotore Giovanni XXIII sia dei Padri che costituivano la cosiddetta
maggioranza conciliare, nella prospettiva della più assoluta continuità con la
tradizione del primo millennio, secondo una periodizzazione non puramente
matematica ma essenziale, essendo il primo millennio di storia della Chiesa
quello della Chiesa dei sette Concili, ancora indivisa. L’auspicato
aggiornamento era finalizzato precisamente a questo recupero, a questo ritorno a
un’epoca certo travagliata, ma felice, perché nutrita di comunione reciproca tra
le Chiese. Non, si badi bene, al recupero – come purtroppo molti l’hanno inteso
– di una "ecclesiae primitivae forma", che è una pura astrazione, un mito
storiografico dai lineamenti estremamente nebulosi e pertanto inadatti a
fondare, o rifondare, una prassi ecclesiale e, forse proprio per questo,
divenuti un inconsistente modello per molte eresie e, ancor oggi, per diverse
eterodossie ecclesiologiche.
La teoria e la prassi ecclesiale del primo millennio sono invece tutt’altro
che un’astrazione ed un mito, documentate come sono dagli scritti del Padri e
dalle delibere dei primi Concili. È molto significativo che l’annunzio del
Vaticano II sia stato percepito all’inizio in alcuni settori – tra i quali
figura nientemeno che il grande Atenagora, caduto anch’egli in quello che è
stato definito un "equivoco ecumenico" – come espressamente finalizzato alla
ricomposizione dell’unità fra i cristiani: in sostanza un Concilio d’unione.
Ancor più significativo – anche al di là del valore altamente simbolico del
gesto – è che il Concilio abbia chiuso i suoi lavori, il 7 dicembre 1965, con
l’epocale rimozione "dalla memoria e dal mezzo della Chiesa" delle reciproche
scomuniche intercorse nel 1054 tra il patriarca di Costantinopoli e i legati
romani (la straordinaria valenza ecclesiologica di questo evento è stata
magistralmente presentata dal cardinale Joseph Ratzinger in un artico sulla
rivista “Istina” del 1975).
Questo recupero, da parte della Chiesa cattolica, della tradizione del primo
millennio ha comportato di fatto un’implicita rottura – mi scuso dell’eccessiva
schematizzazione – con la tradizione cattolica del secondo millennio. Non è
vero, a mio parere, che nella tradizione della Chiesa non ci siano delle
rotture. Uno iato c’era già stato, proprio al passaggio dal primo al secondo
millennio, con la svolta impressa dai riformatori “lorenesi-alsaziani” (tale era
papa Leone IX, come anche due dei tre legati a Costantinopoli nel fatidico 1054,
il cardinale Umberto e Stefano di Lorena, futuro papa) e dalla cosiddetta
riforma “gregoriana”, e poi da un approccio eminentemente filosofico alle verità
teologiche e dal debordante interesse per la canonistica (già lamentata da Dante
Alighieri), a scapito della Scrittura e dei Padri, propri della piena età
medioevale. Per non parlare poi della riforma tridentina, con la rigida
dogmatizzazione – andando persino oltre i presupposti della Chiesa medievale –,
nonché del “sequestro” della Scrittura ai semplici fedeli, sino all’apoteosi
della “monarchia” pontificia nel Concilio Vaticano I, relegando ancora più sullo
sfondo il profilo della Chiesa indivisa del primo millennio. Non c’è da
stupirsene: proprio perché la Chiesa è un organismo vivente, la sua tradizione è
soggetta ad evoluzione, ma anche ad involuzioni.
Che sia stato veramente questo ritorno l’intento più profondo del Vaticano II
lo si può cogliere da un paio di esempi. Il più immediato si situa in ambito
ecclesiologico, dove l’insegnamento del Concilio in merito alla collegialità
episcopale è inequivocabile. Ora precisamente la collegialità dei vescovi è un
tratto proprio dell’ecclesiologia del primo millennio, anche in Occidente,
dov’era perfettamente coniugata con la primazialità romana. È indicativo come
nel primo millennio tutti i pronunciamenti dogmatici romani che i legati papali
portavano in Oriente ai Concili ecumenici – relativi alle questioni in essi
dibattute – fossero preceduti da un pronunciamento sinodale di tutti i vescovi
afferenti alla giurisdizione super-episcopale di Roma. Ora se è vero che il più
grande nemico del Concilio è stato il postconcilio – con le fughe in avanti di
alcuni pastori d’anime e di gruppi di fedeli, che in nome dello “spirito del
Concilio” hanno introdotto alcune prassi eversive proprio nei confronti della
tradizione della Chiesa indivisa o almeno ne stanno chiedendo con insistenza
l’introduzione –, mi sembra di poter affermare che nell’ecclesiologia è avvenuto
precisamente l’opposto: le norme di applicazione sono state gravemente riduttive
rispetto al deliberato conciliare, in quanto il carattere puramente consultivo
attribuito al sinodo dei vescovi non trae le dovute piene conseguenze
dall’insegnamento del Vaticano II in merito alla collegialità episcopale. E poi
– sempre per restare nell’ambito della struttura della Chiesa – il ripristino
del diaconato come grado permanente dell’ordine sacro non è stato anch’esso un
recupero della tradizione del primo millennio?
Il secondo ambito, nel quale la continuità della riforma conciliare con il
primo millennio è ancor più evidente – in quanto percepibile da tutti – è quello
liturgico, anche se paradossalmente si tratta di un campione privilegiato dai
critici del Vaticano II per accusare il Concilio di rottura con la tradizione.
Il criterio ermeneutico da me assunto mi consente di affermare esattamente il
contrario, sempre in base al postulato di una pluralità diacronica di
tradizioni. Anche in questo caso c’è stata un’evidente rottura con la liturgia
preconciliare – che era notoriamente, con interventi successivi, una creazione
tridentina –, ma proprio al fine di un recupero della grande tradizione del
primo millennio, quello della Chiesa indivisa. Forse non abbiamo ben presente
che l’incriminato nuovo messale contiene il fantastico recupero di orazioni
tratte dai più antichi sacramentari risalenti proprio al primo millennio, il
Leoniano, il Gelasiano ed il Gregoriano, nonché, per l’Avvento, dal patrimonio
eucologico dell’antico Rotolo di Ravenna, tesori rimasti in gran parte fuori dal
messale tridentino. Lo stesso vale per il recupero, nel contesto di un’opportuna
pluralità di preghiere eucaristiche, dell’antica anafora di Ippolito e di altre
tratte dalla tradizione ispanica. In questo senso il messale “conciliare” è ben
più “tradizionale” del precedente.
Scrivo questo, ponendovi a corollario due osservazioni, che forse non saranno
condivise dai “progressisti”. La prima è che, se guardiamo allo stato attuale
del rito “ordinario” della Chiesa romana, proprio questa continuità con la
tradizione del primo millennio, implicita nella riforma conciliare, è stata
parzialmente offuscata da tutt'altri sviluppi nel postconcilio: da una parte, a
livello di base, si è prodotto il malinteso che il Concilio abbia promosso un
disordinato spontaneismo liturgico e dall’altro si è proceduto, da parte
dell’autorità competente, alla promulgazione di testi creati per l’occasione –
relativi a nuove anafore e a nuove collette – in un linguaggio sventuratamente
attualistico e modernamente esistenziale, visibilmente alieni dallo stile
eucologico del primo millennio, profondamente ispirato al pensiero ed alla
terminologia dei Padri.
La seconda osservazione è che il motu proprio "Summorum Pontificum" – che,
com’è noto, autorizza la pratica del messale tridentino come rito
“straordinario” –, documento considerato da molti come involutivo rispetto al
Concilio, per me invece ha l’indubbio pregio di ristabilire nella Chiesa latina
quel pluralismo liturgico proprio, ancora una volta, del primo millennio. Anche
se si tratta di una pluralità rituale scandita dalla variabile del tempo, e non
da quella dello spazio geografico, essa ha il pregio di introdurre anche nella
Chiesa cattolica – in modo pacifico e indolore – quella presenza
“vecchio-ritualista”, che è un patrimonio, sia pure acquisito in modo violento e
traumatico, della tradizione ortodossa.
Mi sento invece di condividere con la “scuola bolognese” la possibilità, anzi
l’opportunità, di una lettura "accrescitiva" del concilio, coerente con i suoi
principi ispiratori (l’espressione è di Alberto Melloni), che consente, anzi
suggerisce, al supremo magistero di assumere oggi decisioni che il Vaticano II,
nella temperie storica del momento, non aveva potuto prendere in considerazione.
Questo principio ispiratore – in quella che ritengo la corretta ermeneutica del
Concilio – è precisamente la ripresa della tradizione del primo millennio, come
ha sottolineato implicitamente il cardinale Ratzinger quando ha scritto – in un
passo che l’attuale pontefice non ha mai esplicitamente contraddetto – che agli
ortodossi, nella fisionomia di una Chiesa finalmente riunificata, non bisogna
imporre nulla più di quanto era da loro creduto nel primo millennio di
comunione.
Non è perciò assolutamente nello “spirito del Concilio” introdurre nella
Chiesa sconsiderate innovazioni, nella dottrina e nella pressi teologica, quali
sarebbero il sacerdozio femminile o aberranti sviluppi nell’etica e nella
bioetica. Sarebbe invece perfettamente nello “spirito del Concilio” – sempre per
esemplificare – l’eliminazione dal "Credo" dell’unilaterale, ingiustificata e
offensiva aggiunta del "Filioque" (senza che questo implichi una negazione della
tradizionale dottrina dei Padri latini – anch’essi del primo millennio – sulla
processione dello Spirito Santo anche dal Figlio, come da un unico principio con
il Padre). Tale malaugurata aggiunta rappresenta il frutto più evidente, dalla
fortissima pregnanza simbolica, di quel processo di franco-germanizzazione
teologica e culturale della Chiesa romana – avviato dai papi filofranchi della
fine del primo millennio e da quelli tedeschi dell’inizio del secondo –
denunciato in termini certo esasperati, ma non del tutto infondati, dallo
scomparso teologo greco conservatore Ioannis Romanidis. E invece non solo
l’addizione rimane, ma è stata ribadita anche in testi di composizione
“postconciliare” e, per giunta – mi risulta – è ancor oggi vergognosamente
imposta a una bella e fiorente Chiesa orientale unita a Roma, cioè alla Chiesa
grecocattolica ucraina.
Insomma, per chiudere con una formula sintetica queste mie personali
considerazioni, promuovendo il rinnovamento della Chiesa il Concilio non ha
inteso introdurre qualcosa di nuovo – come rispettivamente desiderano e temono
progressisti e conservatori – ma ritornare a ciò che si era perduto.
Grato dell’attenzione.
Enrico Morini
Bologna, 13 giugno 2011
[Fonte: http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1348361]