Benedetto XVI, il Papa della Regola d'oro, punta sulla giustizia e il
riconoscimento dei diritti della persona per consolidare la speranza di pace nel
mondo. Sulla scia di Benedetto XV di cui ha voluto prendere il nome spiegandone
lo straordinario servizio alla pace. Una continuità di insegnamento sociale e
uno sviluppo nella fondazione del diritto internazionale di cui parla in questa
intervista il professor Giovanni Maria Flick, vicepresidente della Corte
Costituzionale italiana, in occasione della visita di Papa Ratzinger a Genova.
Flick, genovese di adozione, ha compiuto i suoi studi nel capoluogo ligure
frequentando gli istituti dei salesiani e dei gesuiti prima di laurearsi alla
Cattolica di Milano.
Partendo da Papa Benedetto XV che avviò in embrione nell'ambito della Chiesa la
difesa dei diritti umani, Flick riconosce a Benedetto XVI, non solo una
continuità nella dottrina della pace e dei diritti umani, ma anche la capacità
di puntuali sollecitazioni richiesta dal tempo della globalizzazione alla
comunità internazionale.
Il richiamo a Benedetto XV, Papa genovese, quando si tratta di diritti umani, è
fare dell'archeologia o rilevare una continuità nel magistero sociale della
Chiesa?
Il cardinale Giacomo della Chiesa è eletto papa un mese dopo l'inizio della
Grande Guerra. Fin dal primo documento esprime l'angoscia per l'"inutile strage"
e compie un'analisi lucidissima sulle cause del conflitto, individuate
"nell'ingiustizia dei rapporti fra le varie classi sociali", nel "disprezzo per
l'autorità", nel perseguimento "dei beni materiali come unico obiettivo
dell'attività dell'uomo". Ma, soprattutto, si preoccupa delle soluzioni per
porvi termine. In questo risiede la straordinaria modernità del Pontefice
genovese: non solo la denunzia e la condivisione di questo dolore universale, ma
anche la ricerca ininterrotta di una "via d'uscita" concreta. L'esortazione
apostolica del primo agosto 1917 (Dès le debut) prospetta alle Nazioni
belligeranti un accordo di grande solidità politica, fino ai dettagli: la
"reciproca condonazione" dei danni di guerra, l'evacuazione totale dei territori
occupati dalla Germania, il futuro assetto dell'Armenia, degli Stati balcanici o
dei paesi che formavano l'antico Regno di Polonia, e così via. È un magistero
d'avanguardia, e non solo per l'epoca.
Benedetto XVI ha scelto proprio il nome di Benedetto per collocarsi sulle orme
del suo predecessore vissuto al servizio della pace. Finora è apparsa con
chiarezza questa scelta strategica nell'insegnamento di Papa Ratzinger?
Questa scelta era particolarmente significativa per un Pontefice tedesco che -
come lui stesso ebbe a ricordare nel maggio 2005 - succedeva a uno polacco, a
sessant'anni dalla fine di una guerra la cui barbarie avevano conosciuto,
entrambi giovani, su fronti avversi. Ed era una scelta manifestata, in realtà,
ancor prima della sua elezione a successore di Pietro.
Nella lectio tenuta al Senato della Repubblica italiana nel maggio 2004 sul
Trattato costituzionale europeo - riguardato quale strumento di unificazione e,
quindi, di pace - il futuro Papa Benedetto XVI aveva infatti affermato come
"mettere per iscritto" i valori della dignità dell'uomo, di libertà, eguaglianza
e solidarietà accanto ai princìpi fondamentali della democrazia e dello stato di
diritto, configurasse un'immagine dell'uomo, un'opzione morale e un'idea di
diritto "non scontate, bensì qualificanti l'identità dell'Europa". Dunque, una
pace costruita sulla centralità della dignità della persona, ma anche
sull'architrave dello Stato democratico di diritto.
Il Pontefice ha poi più volte insistito sulla sinergia tra giustizia e pace: la
prima è la condizione di pensabilità della seconda, e solo attuandola si
promuove effettivamente la pace, intesa non come mera assenza di guerra, ma come
compimento della giustizia, in primo luogo della giustizia sociale.
D'altra parte, nel pensiero del Pontefice, la giustizia appare a sua volta
inscindibile dal rispetto dei diritti fondamentali e delle garanzie della
persona umana, intesi quali "misura del bene comune": dunque, come ha affermato
alle Nazioni Unite, la promozione dei diritti umani resta "la strategia più
efficace per eliminare le disuguaglianze fra Paesi e gruppi sociali" e, quindi,
per garantire la pace. Non c'è pace senza eguale garanzia - interna e
internazionale - dei diritti fondamentali: su questo punto, la coscienza morale
espressa dalla Chiesa nello scenario del mondo è di fondamentale importanza,
anche per i laici.
Il discorso di Papa Ratzinger alle Nazioni Unite ha suscitato reazioni positive,
ma non sono mancate critiche. Si tratta di un intervento con elementi innovativi
per il diritto?
Non è mai scontato, o di circostanza, rammentare come le Nazioni Unite e la
Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo furono originate - come ha
ricordato il Pontefice - dalla convergenza di tradizioni religiose e culturali
"tutte motivate dal comune desiderio di porre la persona umana al cuore delle
istituzioni, leggi e interventi della società, e di considerare la persona umana
essenziale per il mondo della cultura, della religione e della scienza". La
centralità della dignità e della libertà dell'uomo è la chiave di ogni
approccio, giuridico o etico, al tema dei diritti fondamentali; al punto che
neppure un pensiero di sponda laica può abbandonare un polo di riferimento
unitario, o alcuni essenziali precetti universali, per gestire quella che Sartre
definisce l'"etica della situazione", e cioè l'emergenza della specifica tutela
del singolo diritto violato. In altre parole, la tutela o è pensata in senso
globale, fondata sulla dignità della persona, o non è.
Fondamento e senso dei diritti fondamentali non possono non interessare la
riflessione del giurista, almeno quanto forma ed effettività della tutela.
Secondo Norberto Bobbio il problema dei diritti fondamentali non è quello di
fondare, ma di proteggere. Il Papa, all'Onu, ha espresso il dubbio che ciò non
sia possibile: proclamare la necessità della tutela senza interrogarsi sul
perché tutelare, rischia di somigliare al "bronzo sonante" o al "cembalo
squillante" di cui parla san Paolo nell'inno alla carità. Per il giurista, laico
o credente che sia, questa provocazione richiede una risposta faticosa e
delicata, rappresenta una "coazione" a riflettere anche nella prospettiva del
trascendente.
Cosa comporta sul piano del diritto il superamento del paradosso denunciato dal
Papa, secondo cui in ambito internazionale esiste una subordinazione alle
decisioni di pochi?
È il nervo scoperto della comunità internazionale: la contraddizione di un mondo
globalizzato, con la democrazia sulle labbra e le oligarchie nel cuore. Il
concetto di democrazia ha raggiunto la perfezione teorica; ma la pratica di una
vera democrazia tra le Nazioni resta una chimera: i problemi del mondo
esigerebbero - come anche il Pontefice ha sottolineato - un consenso
multilaterale e interventi collettivi di cui la comunità internazionale si
mostra incapace. Questa crisi sollecita il diritto a ripensare le forme
dell'organizzazione internazionale. Penso soprattutto all'Europa, il cui
progetto unitario presuppone la pari dignità tra i Paesi membri, replicando a
livello di Stati il principio della pari dignità delle persone. In altre parole
il diritto internazionale deve superare il criterio economicistico, che
inevitabilmente produce oligarchie decisionali. Da un simile solidarismo tra
Stati, dall'obiettivo di una giustizia distributiva planetaria "siamo
disperatamente lontani", per usare le parole del cardinale Carlo Maria Martini.
Ma per camminare in questa direzione bisogna partire da un'effettiva democrazia
all'interno della comunità internazionale.
Il principio della responsabilità di proteggere è un correttivo dell'ingerenza
umanitaria?
Più che correttivo, direi una feconda e positiva evoluzione. I tradizionali
caratteri del diritto umanitario - la neutralità e la sovranità - si sono
progressivamente sbiaditi. E d'altra parte la stessa Assemblea generale delle
Nazioni Unite affermò, l'8 dicembre 1988, il principio del libero accesso alle
vittime di una catastrofe naturale, o in situazioni d'urgenza dello stesso tipo:
un'ingerenza umanitaria per confortare le vittime, un vero e proprio obbligo a
fronte del diritto delle vittime all'assistenza, ritenuta lecita anche quando
assuma il carattere di ingerenza materiale e fisica, presupponendo l'accesso al
territorio da garantire, anche contro la volontà del governo di quel territorio.
È inevitabile pensare alla catastrofe naturale in Myanmar, i cui effetti sulla
popolazione sono stati ingigantiti dall'incapacità del regime militare al potere
e dall'ostinato isolamento imposto al Paese; ma anche dall'immobilismo della
comunità internazionale, che ha espresso cordoglio e partecipazione ma si è
guardata bene dal coinvolgere il Consiglio di sicurezza dell'Onu.
E tuttavia, benché il modello stenti a trovare la via della concretezza, la
"responsabilità di proteggere" rappresenta un'evoluzione del principio di
solidarietà applicato all'ordine internazionale. Per evitare il rischio di un
"colonialismo umanitario", essa deve fondarsi sul dialogo, sulla condivisa
centralità della persona umana, sulla necessità che i diritti fondamentali
violati trovino protezione da parte della comunità internazionale, ma solo con
gli strumenti giuridici già previsti dalla Carta delle nazioni.
Quali ricadute può avere su governi e parlamenti il richiamo del Papa al primato
della giustizia rispetto alla legalità, per radicare i diritti umani e renderli
intangibili?
Il cosiddetto riduzionismo che caratterizza l'epoca in cui viviamo, in ambito
giuridico si è manifestato nell'ingenua pretesa di ridurre la giustizia al
diritto e quest'ultimo alla legge. L'illusione è che la giustizia possa
coincidere con la legalità, che sia sufficiente il rispetto della legge perché
"giustizia sia fatta": ma - cito ancora san Paolo - "dalle opere della legge non
verrà mai giustificato alcuno". E questo vale anche in una visione laica e non
trascendente della giustizia, perché è la stessa realtà, sono i "duri fatti" a
smentire la pretesa che dalla sola osservanza della legge scaturisca per ciò
stesso la giustizia: la prima è solo la pre-condizione della seconda, di certo
non ne è il compimento. Giusto, anche nel mondo globalizzato, è colui che
continua "ad avere fame e sete di giustizia"; che è sempre disposto - ha scritto
Gustavo Zagrebelsky - a riconoscere ai deboli, ai perseguitati, agli esclusi la
legittimità della pretesa di giustizia, condividendone umanità e dignità.
Governi e parlamenti devono percepire quest'ansia di una giustizia perennemente
cercata e mai acquietata, anziché illudersi di risolvere la domanda di giustizia
nella forma fredda di qualche legge: come se i diritti umani possano essere il
risultato solo di provvedimenti legislativi. D'altra parte, l'impotenza a creare
giustizia è anche pietra di inciampo per il credente: lo incalza, come già
avveniva nel secondo litigio di Giobbe con Dio. A conferma che la ricerca su
sponde diverse - laica e religiosa - non è poi tanto distante, come spesso si
crede.
Benedetto XVI ha rilanciato la regola d'oro come misura dei rapporti
internazionali oltre che personali. È sufficiente oggi per favorire un futuro di
pace e giustizia?
La "regola d'oro" è l'invarianza del principio di giustizia, il permanere del
carattere universale dei diritti fondamentali, al di là delle contingenze
culturali, storiche, politiche e sociali. Secondo sant'Agostino, il principio
"Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te" non può in alcun
modo variare "asseconda delle diverse comprensioni presenti nel mondo". Il suo
corrispettivo nella morale laica è l'imperativo kantiano di agire in modo da
trattare l'uomo sempre come fine e mai come mezzo. Tali regole, proprio perché
"inalterabili", fondano innanzitutto le Carte fondamentali dei diritti,
altrimenti impensabili. Ma invarianza e universalità dei diritti fondamentali
risulterebbero vuote declamazioni se il principio di pari dignità non fosse
applicato, oltre che agli individui, anche agli Stati. Fino a quando il più
piccolo Stato del mondo sarà trattato da quello più potente come mezzo e non
come fine, l'ordine internazionale sarà precario, e della pace e della giustizia
tra i popoli rimarrà solo l'enfasi dei concetti. Purtroppo questo è ancora assai
lontano dalla coscienza e sensibilità occidentale - e non solo occidentale -
abituati come siamo a convivere, senza neppure stupirci, con le violazioni dei
diritti consumate sotto i nostri occhi.
Lei condivide l'opinione che i diritti umani venivano rispettati concretamente
dai governi più nel passato che nel presente quando invece è molto perfezionata
la formulazione giuridica attinente la tutela dei diritti?
No, assolutamente. La nostalgia del passato è malattia tipica delle epoche di
crisi, rifugio comodo che lascia intatti i problemi del presente. La messa a
fuoco dei diritti fondamentali, nonostante la fatica nel riconoscerli,
proclamarli, fondarli - aiuta alla loro tutela. Certo, esiste il rischio che
questa elaborazione possa indulgere alla forma, a un'estetica dei diritti bella
da contemplare, ma inconsistente nel tutelare. Mi conforta, tuttavia,
l'esistenza di isole felici: penso alla Convenzione europea dei diritti
dell'uomo, nella quale si sta raggiungendo un equilibrio fecondo tra
riconoscimento profondo dei diritti ed effettività della loro tutela; o
all'ordinamento comunitario europeo, in cui si cerca di equilibrare fra loro la
dimensione del mercato e quella dei diritti fondamentali. Ma c'è ancora molto da
lavorare: siamo ancora alle prime luci dell'alba.
L'intervento di Benedetto XVI alle Nazioni Unite, centrato sulla indivisibilità
dei diritti umani e sul rilancio di una strategia dei diritti per eliminare le
disuguaglianze e aumentare la sicurezza nel mondo, facilita il dialogo sui
diritti tra l'ottica laica e l'ottica cattolica?
Ritengo utile una sinergia tra le due ottiche. E anche nell'intervento alle
Nazioni Unite appare evidente la volontà del Pontefice di muoversi su un terreno
comune.
Negli ultimi anni c'è stato indubbiamente un progressivo avvicinamento tra
quanti postulano la priorità dei contenuti e quanti continuano ad affermare
l'imprescindibile importanza dei fondamenti. Fermi i principi, la Chiesa ha
gradualmente riconosciuto che la prospettiva contenutistica dei diritti
fondamentali non è di per sé riduzionista. Anche sul versante dell'etica laica
ci si è accorti che, lungi dall'anacronismo e dall'integralismo, un'antropologia
religiosa a fondamento dei diritti umani promuove la loro effettiva
umanizzazione. La stessa convergenza era stata riconosciuta da Benedetto XVI a
proposito dell'unità europea, quando aveva affermato che "i padri
dell'unificazione erano partiti da una fondamentale compatibilità dell'eredità
morale del cristianesimo e dell'eredità morale dell'illuminismo europeo".
L'attuazione della giustizia nella pace, mi sembra il terreno comune ideale in
tema di diritti fondamentali.
Un ateo o un laico può convenire sotto il profilo razionale con il diritto alla
libertà religiosa che, secondo Benedetto XVI, deve potersi esplicitare in una
dimensione sia individuale sia comunitaria e pubblica?
Le rispondo con la semplicità e l'efficacia con cui la nostra Carta
costituzionale, all'articolo 19, afferma il diritto alla libertà religiosa:
tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in
qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne
in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon
costume. Non è solo una potenziale e razionale condivisione da parte del laico o
dell'ateo. È molto di più: è un diritto fondamentale sancito in Costituzione.
(©L'Osservatore Romano - 17 maggio 2008)