1. Il tema
Vi ringrazio cordialmente per l’onore che mi avete fatto con l’invito per
questa ricorrenza del 150° anniversario della fondazione della Facoltà di diritto civile di questa prestigiosa
Pontificia Università.
Vi ringrazio anche per il piacere che mi procurate di parlare a colleghi che
stimo e - se mi permettete, perché non vorrei esordire con un peccato - anche “invidio” per la felice
professione di insegnamento e ricerca che svolgono.
Quando Monsignor Fisichella mi invitò e mi lasciò libero di svolgere un tema di mio
gradimento, presi al volo l’occasione per scegliere un argomento che da tempo mi preme, mi induce a riflettere,
spesso a scrivere: lo stato dell’Occidente. Ho allora ripescato le mie riflessioni, ho deciso di abbreviarle,
aggiornarle e sottoporle a voi. Perché proprio queste riflessioni e non altre, lo dichiaro in anticipo per
presentarvi la cornice entro cui intendo muovermi e consentire a voi una migliore valutazione critica delle mie
opinioni.
I “perché” sono tre. Perché ritengo che l’Occidente soffra di un grave stato
di crisi culturale. Perché ritengo che questa crisi rischi di toccare, se non la dottrina, la predicazione della
Chiesa cattolica. E perché - siccome, né per laici né per credenti, c’è Occidente senza cristianesimo - io
ritengo che il cristianesimo possa contribuire in maniera decisiva a curare la sofferenza dell’Occidente.
Questa sofferenza di cui parlo ha un nome noto, relativismo, e da qui comincerò.
2. Un sintomo: l’autocensura dell’Occidente
All’inizio del suo celebre saggio L’etica protestante e lo spirito del
capitalismo, Max Weber si pose la seguente questione: «per quale concatenamento di circostanze è avvenuto che
proprio sul suolo occidentale, e qui soltanto, la civiltà si è espressa con manifestazioni, le quali - almeno
secondo quanto noi amiamo immaginarci - si sono inserite in uno svolgimento, che ha valore e significato universale?»
(M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. it. Leonardo, Roma 1945, p. 1).
Weber parlava in particolare «della più grande forza della nostra vita moderna: del
capitalismo», ma sono parecchie le creazioni e le istituzioni dell’Occidente alle quali può essere applicato il
medesimo quesito. Qui non mi occuperò dell’aspetto storico del quesito. Ciò su cui invece desidero richiamare
l’attenzione è un problema filosofico, culturale, di tipo nuovo e paradossale.
Si tratta di questo. Mentre tutte le spiegazioni che si sono succedute hanno
mantenuto la genuinità del quesito di Weber, oggi - esattamente cento anni dopo la sua opera - è lo stesso
quesito ad essere posto in questione. Il pensiero attualmente prevalente in Occidente a proposito delle creature
universali dell’Occidente medesimo è che nessuna di esse ha valore universale. Sì che raccomandare le
nostre istituzioni al mondo sarebbe un gesto di arroganza intellettuale. E sì che cercare di esportare queste
istituzioni presso culture e tradizioni diverse dalla nostra sarebbe un atto di imperialismo.
Ognuno può facilmente convincersi di quanto questa convinzione sia diffusa
riflettendo su un sintomo: quell’autocensura e autorepressione che si nasconde sotto le vesti di ciò che si
chiama solitamente “linguaggio politicamente corretto”, una sorta di “neo-lingua” che l’Occidente oggi usa
per ammiccare, alludere, insinuare, ma non per dire o affermare o sostenere.
Si consideri un fenomeno. Tutto si può confrontare e valutare dentro la
cultura dell’Occidente - persino la Coca Cola col Chianti -, e molto è concesso di confrontare fra
particolarità della cultura occidentale e particolarità di altre culture. Ma quando si arriva alle culture
medesime o a raggruppamenti di identità superiore - come le civiltà di cui parlava Max Weber ieri e Samuel
Huntington oggi - e queste culture o civiltà si vogliano mettere in gerarchia o anche solo ordinare sulla scala
delle preferenze “migliore-peggiore”, ecco che scattano l’autocensura, la proibizione e le manette
linguistiche. Con la conseguenza che, ove si trovi una cultura che non abbia o decisamente respinga le nostre
istituzioni, non ci è consentito di dire che la nostra cultura è migliore di quella o anche solo preferibile a
quella.
Questa forma di “rieducazione linguistica” a me suona inaccettabile. La respingo
per ragioni intellettuali e la respingo per ragioni morali (ciò che, alla fin fine, è la ragione vera per cui si
respingono le posizioni intellettuali). Comincio dalle prime, ma prima di dirne i motivi filosofici generali,
considero un caso concreto.
3. Due paralisi dell’Occidente
Dodici anni fa, nel 1992, uno studioso francese di questioni islamiche, Olivier Roy,
scrisse un libro intitolato L’échec de l’Islam politique (Editions du Seuil, Paris 1992). La sua tesi,
detta con le sue parole, era che «l’Islam politico non resiste alla prova del potere … L’islamismo si è
trasformato in un neofondamentalismo che si cura soltanto di ristabilire il diritto islamico, la sharia,
senza inventare nuove forme politiche» (p. 9).
La prova di questa tesi Roy la trovava in una lunga serie di assenze o mancate
risposte: l’Islam, a suo dire, non ha prodotto nessun modello politico proprio; nessun sistema economico
particolare diverso da quelli noti; nessuna istituzione pubblica che funzioni in modo autonomo; nessuno spazio
libero fra la famiglia e lo stato; nessun riconoscimento paritario della donna; nessuna comunità sovranazionale
diversa da quella religiosa; eccetera. Insomma, uno scacco. Scriveva Roy: anziché aprirsi a sbocchi nuovi, «la
parentesi islamista ha chiuso una porta, quella della rivoluzione e dello stato islamico» (ivi, p.11).
È vera o falsa questa tesi di Olivier Roy, e di molti altri che in Occidente pensano
alla stessa maniera? E, se è vera, si può allora dire oggi che il modello occidentale è migliore di quello
islamico, come ieri si diceva che la democrazia occidentale è migliore del comunismo?
La risposta alla prima domanda dipende soltanto da ricerche e analisi empiriche. La
risposta alla seconda domanda non dipende invece unicamente da analisi, perché manifestamente esprime una
valutazione (“migliore”). In proposito, una distinzione preliminare è fondamentale.
Si tratta della distinzione tra giudizio e decisione, cioè della
distinzione tra affermare una tesi e assumere un atteggiamento. Le due questioni sono relate, ma, da sé
sole, non sono relate dalla logica deduttiva. In particolare, affermare la tesi che il modello delle istituzioni
democratiche e dei diritti dell’Occidente è migliore del modello dell’Islam non implica assumere alcun
corso di azione particolare. Si può dire che l’Occidente è migliore dell’Islam e tollerare l’Islam,
rispettare l’Islam, dialogare con l’Islam, disinteressarsi dell’Islam, oppure ostacolare l’Islam,
confliggere con l’Islam, e così via, secondo la gamma degli atteggiamenti possibili.
Con un errore madornale, che però rivela il suo stato d’animo, la cultura
dominante in Occidente invece pensa il contrario. Pensa che un “deve” discenda da un “è”, per
cui, se si sostiene che l’Occidente è migliore dell’Islam ─ oppure, per scendere nel concreto, che la
democrazia è migliore della teocrazia, una costituzione liberale migliore della sharia, una decisione
parlamentare migliore di una sura, una organizzazione internazionale migliore della humma, una
sentenza di un tribunale indipendente migliore di una fatwa, eccetera ─, allora ci si deve scontrare
con l’Islam. Un errore logico, appunto, che si aggiunge all’altro, quello di ritenere che le nostre istituzioni
non abbiano diritto a essere considerate migliori di altre.
La conseguenza di questi due errori è che oggi l’Occidente è paralizzato due
volte. È paralizzato perché non ritiene che ci siano buone ragioni per dire che esso è migliore dell’Islam. Ed
è paralizzato perché ritiene che, se queste ragioni ci fossero, allora dovrebbe combattere l’Islam.
Personalmente, nego queste posizioni. Nego che non vi siano ragioni valide per
giudicare se certe istituzioni siano migliori di altre. E nego che da un tale giudizio nasca necessariamente uno
scontro. Non nego però che se, ad una profferta di confronto si risponde con uno scontro, lo scontro non debba
essere accettato. Affermo piuttosto il contrario. Sostengo con convinzione i princìpi del dialogo, della
tolleranza, del rispetto, ma sostengo anche che, se qualcuno rifiuta la reciprocità di questi princìpi e ci
dichiara una ostilità o la jihad, allora dobbiamo prendere atto che è un nostro avversario e difenderci. In
sostanza, rifiuto l’autocensura dell’Occidente. Spiego perché.
4. Il relativismo dei contestualisti
L’idea secondo cui non vi sarebbero buone ragioni per giudicare culture o civiltà
è notoriamente l’idea del relativismo. Essa oggi prende vari nomi: “pensiero post-illuministico”,
“pensiero post-moderno”, “pensiero debole”, “pensiero senza fondamenti”, “pensiero senza verità”,
“decostruttivismo”, eccetera. Il marketing è vario, ma il target è sempre lo stesso: si tratta
di far proseliti all’idea che non esistono prove o argomenti solidi per stabilire che qualcosa è migliore, o
vale, più di qualcos’altro.
Il relativismo parte da un dato incontestabile: la pluralità dei valori, e da una
posizione anch’essa difficilmente contestabile: la non compossibilità di tutti i valori, nel senso che esiste
sempre una circostanza in cui perseguire un valore (poniamo l’amicizia) è incompatibile con il perseguirne un
altro (poniamo la giustizia. Si pensi al caso, da seminario di filosofia morale, in cui un amico abbia commesso un
reato sotto i nostri occhi: si deve violare l’amicizia e denunciarlo o mantenere l’amicizia ed essere
complici?). Ma da queste premesse il relativismo fa discendere la conseguenza disastrosa che gli insiemi di valori,
come le culture e le civiltà, non possono essere giudicati l’uno a fronte dell’altro.
Le strade percorse per arrivare a questa conseguenza sono soprattutto due.
La prima strada è quella imboccata dalla filosofia del Wittgenstein delle Ricerche
filosofiche con la sua tesi che ogni “universo linguistico,” quale è quello delle culture o delle civiltà,
ha le proprie regole di costruzione, significazione e decisione. L’argomento a favore di questa tesi è che i
contenuti non possono essere separati dai criteri con cui li si giudica. Il vero, il bello, il buono in una cultura
sono tali secondo i criteri con cui li si definisce in quella cultura. I criteri sono sempre infra-,
mai inter-culturali; essi sono contestuali.
Per criticare questa tesi, mi limito ad osservare che per giudicare se una cultura A
sia migliore di una cultura B non occorre un meta-criterio comune ad A e B; è sufficiente che i membri di A e di B
desiderino impegnarsi in un dialogo e sottoporsi alle critiche reciproche. Durante o alla fine del dialogo, un
interlocutore si troverà in difficoltà con l’altro e a quel punto la tesi dell’altro sarà la posizione migliore.
E migliore nell’unico significato che è concesso ai mortali di conoscere: migliore perché resiste alle critiche.
All’obiezione: “ciò che tu ci stai proponendo è la vecchia tecnica dell’elenchos,
o della confutazione, di Gorgia, Socrate, Platone e Aristotele, e dunque un criterio buono solo dentro una cultura,
quella occidentale”, si può replicare in tanti modi. Alla fine, con la “prova del nove”. Se i membri della
cultura B mostrano liberamente di preferire la cultura A e non viceversa - se, ad esempio, i flussi migratori vanno
dai paesi dell’Islam all’Occidente e non viceversa -, allora c’è ragione di credere che A sia migliore di B.
E all’ulteriore obiezione: “ma questo è falso, perché la conversione di B ad A può essere frutto di
indottrinamento, di propaganda, di un abbaglio”, si può rispondere: “se tu, che sei un relativista
contestualista appartenente alla cultura A, parli di abbaglio, ti contraddici, perché, per riconoscere un abbaglio
operante nella cultura B, dovresti avere un criterio di abbaglio comune ad A e B che consentisse di distinguere il
reale dall’apparente in entrambe”. Ma se c’è un criterio comune a due culture, allora il relativismo
cade. Volendo relativizzare tutto, il relativismo ha così tanto appetito che è autofagico.
5. Il relativismo dei decostruttivisti
La stessa autofagia mina l’altra strada percorsa dal relativismo, quella della
decostruzione, il cui capostipite riconosciuto è Nietzsche.
Il filosofo Jacques Derrida, una delle voci più ascoltate dell’Occidente, ne è
oggi un maestro riconosciuto. Con molta maestria, egli ha applicato la decostruzione ad una serie di concetti
portanti dell’Occidente per mostrare che essi non resistono alla prova della loro pretesa universalità. Ad
esempio, Derrida ha decostruito l’ospitalità, per mostrare che essa è una forma di imposizione; ha decostruito
la democrazia, per concludere che essa è un esercizio di forza; ha decostruito lo Stato, per mostrare che esso in
quanto tale è una canaglia (cfr. Stati canaglia, trad. it. Cortina, Milano 2003). Alla fine, Derrida si è
cimentato nell’esercizio rischioso di decostruire anche il concetto di terrorismo.
Ma anche qui il risultato è contraddittorio, e lo stesso Derrida ne ha fatto le
spese.
Messo di fronte al terrorismo dell’11 settembre, prima comincia a decostruirlo («le
11 septembre, September eleventh, 11 settembre: alla fine, non si sa esattamente cosa diciamo o cosa
chiamiamo»), poi, come tanti oggi fanno, si appella all’ONU, chiedendo che esso «disponga di una forza
d’intervento sufficiente e non dipenda più, per mettere in opera le sue decisioni, da Stati-nazione ricchi e
potenti, realmente o virtualmente egemonici, in grado di piegare il diritto a loro vantaggio o ai loro interessi» (Filosofia
del terrore, a cura di G. Barradori, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 94 e p.123). Un’opinione politica forse
corretta, ma - mi chiedo - come è possibile appellarsi all’ONU, dunque un’istituzione democratica, dopo che si
è decostruito il diritto, la giustizia, la democrazia?
Derrida si rende conto di questa contraddizione e risponde: «continuo a credere che
è la fede nella possibilità di questa cosa impossibile ... a dover determinare tutte le nostre decisioni» (ivi,
pp.123-124). Dice proprio così: la fede. Né più né meno la risposta che un povero e tanto bistrattato e
decostruito filosofo illuminista, messo alle strette, avrebbe dato.
Concludo sul punto. Il relativismo, anche se si può concedere molto alle sue
premesse, non è sostenibile. Ha di contro i fatti. Contro il contestualismo, non nego la relazione (un
tipico rinforzo reciproco) criteri-contenuti. Nego le celebri tesi di P. Feyerabend: «ogni teoria possiede la sua
esperienza», o di T. Kuhn: «i sostenitori di paradigmi opposti praticano i loro affari in mondi differenti».
Contro il decostruttivismo, non nego che i fatti non esistano senza interpretazioni. Nego la tesi di Nietzsche: «i
fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni» (F. Nietzsche, Frammenti postumi, in Opere, Adelphi,
Milano 1964, p. 299); o la tesi di Derrida: «non c’è fuori-testo» (J. Derrida, Della grammatologia, Jaca
Book, Milano 1969, p. 182).
Li si tiri e titilli come ci pare, ma i fatti restano un banco di prova ineludibile.
Contro il relativismo nella scienza si possono far valere i fatti degli esperimenti: alla fine, neppure il
tolemaico più ostinato poteva negare che Venere ha le fasi. Contro il relativismo delle culture, si possono opporre
i fatti delle aspettative: alla fine, neanche Derrida nega che, per far fronte al terrorismo, sia auspicabile
una decisione di organismi internazionali. E contro il relativismo delle civiltà, si possono opporre i fatti
delle preferenze: alla fine, neanche il relativista multiculturalista più spinto nega che tutti gli uomini, se
lasciati liberi, preferiscono vivere in condizioni di sicurezza, tolleranza, rispetto, salute, benessere, pace.
Resta la fede, alla quale infine si appella anche Derrida. E se anche la fede fosse
relativa? Questo è l’altro tema del mio discorso a cui ora mi rivolgo.
6. Il relativismo della fede cristiana
Ha scritto di recente il Cardinale Joseph Ratzinger che «il relativismo in certo
qual modo è diventato la vera e propria religione dell’uomo moderno» (Fede, verità, tolleranza, trad.
it. Cantagalli, Siena 2003, p.87), e che esso è «il problema più grande della nostra epoca» (ivi, p.75). Poi si
è posto una serie di domande: «la forza che ha trasformato il cristianesimo in una religione mondiale è
consistita nella sua sintesi fra ragione, fede e vita ... perché questa sintesi non convince più oggi? Perché la
razionalità e il cristianesimo sono, al contrario, considerati oggi come contraddittori e addirittura
reciprocamente escludentesi? Che cosa è cambiato nella prima e che cosa nel secondo?» (ivi, p.184).
Nella prima, la razionalità, - credo di poter rispondere - è cambiata la fede nei
fondamenti, nelle prove, nelle buone ragioni. Nel secondo, il cristianesimo, - mi azzardo a dire - è cambiata la
fede nella Rivelazione.
Da tempo il relativismo è penetrato anche nella teologia cristiana, ne ha
conquistato una parte, e da lì, lentamente, sotterraneamente, si è diffusa fra i credenti, in particolare nel
clero, dove, se non vedo male, ha agìto, forse non tanto sulla fede, quanto sulla difesa della fede.
All’inizio, sta il pluralismo. Il teologo Paul Knitter ha posto la questione in
questi termini: «Il presupposto fondamentale del pluralismo unitivo è che tutte le religioni sono o possono essere
ugualmente valide. Ciò significa che i loro fondatori, i personaggi religiosi che stanno dietro ad esse, sono o
possono essere ugualmente validi. Ma ciò potrebbe dischiudere la possibilità che Gesù Cristo sia ‘uno tra i
tanti’ nel mondo dei salvatori e dei liberatori. E il cristiano non può semplicemente riconoscere una cosa del
genere, o lo può?» (P. Knitter, Nessun altro nome?, trad. it. Queriniana, Brescia 1991, p. 44).
Incredibile a dirsi, per Knitter, lo può. È così per lui, come per John
Hick e altri teologi, occorre ripensare la cristologia tradizionale. “Ego sum via, veritas et vita”; “extra
Verbum nulla salus”, “Gesù è l’unigenito Figlio di Dio”: “queste e altre affermazioni del Vangelo,
secondo questi teologi relativisti, dovrebbero essere rivedute o intese diversamente.
Come? Ecco un esempio tratto dal medesimo Knitter. Quando il cristiano dice “Gesù
è l’unico amore”, ciò va inteso - egli scrive - nel senso «che un marito usa nei confronti di sua moglie (o
viceversa): “sei la donna più bella del mondo, sei l’unica donna per me”» (op. cit. pp.155-56).
Insomma, dire: “Gesù, ti amo” sarebbe né più né meno come dire: “Cara, ti voglio bene”.
Ma perché il povero cristiano dovrebbe convertirsi a questa “neo-lingua”
politicamente, o teologicamente, corretta? La ragione - come ha scritto ancora il cardinale Ratzinger - sta nel
fatto che «il ritenere che vi sia realmente una verità, una verità vincolante e valida nella storia stessa, nella
figura di Gesù Cristo e della fede della Chiesa, viene qualificato come fondamentalismo» (op. cit., p.124).
E poiché il fondamentalismo è oggi un nuovo peccato capitale, meglio votarsi al relativismo, tanto più che - ha
scritto ancora il Cardinale Ratzinger - «il relativismo appare come il fondamento della democrazia» (p.121).
Il Cardinale Ratzinger nega valore a questa tesi e anch’io trovo che sia
contraddittoria, falsa, e controproducente per il cristiano. Contraddittoria: se, con il relativismo, si sostiene
che non esistono fondamenti, allora neppure il relativismo può essere il fondamento della democrazia. Falsa: la
democrazia si basa sui valori della persona, della dignità, dell’uguaglianza, del rispetto; togliete valore a
questi valori e avrete tolto la democrazia. E controproducente: se, relativisticamente, una verità vale l’altra,
a che scopo il dialogo? E se, nella fede, non esiste la verità, come ci si può salvare?
La mia risposta è: se non esiste la verità, allora il credente non si può
salvare. Per il credente, Cristo è Rivelazione, è il Verbo che si è fatto persona. E questo Dio-persona è un fatto
(il «fatto cristiano», come lo ha chiamato monsignor Angelo Scola; cfr. “Cristianesimo e religioni nel futuro
dell’Europa”, in L’identità dell’Europa e le sue radici, Edizioni del Senato, Rubbettino, Soveria
Mannelli 2002, p.39). O lo neghi, questo fatto cristiano, e allora affermi il relativismo religioso, oppure lo
ammetti e allora ti prepari alle conseguenze.
7. Il cristianesimo, il dialogo e l’Islam
Ma a quali conseguenze porta il fatto cristiano? Qui passo dalla critica teorica al
relativismo alla critica morale.
È noto che, in teologia, l’esclusivismo oggi è caduto in disuso, e all’inclusivismo
che gli è succeduto si è associato il dialogo su cui un’enfasi particolare pose il Concilio Vaticano II.
Ma sul dialogo occorre porsi qualche domanda. Due, in particolare: dialogo per che cosa? dialogo su che
cosa?
Cominciamo dalla prima domanda. Una prima risposta è: dialogo per la comprensione
reciproca dei credenti nelle varie fedi. Questa risposta, che mostra il desiderio della Chiesa di parlare ai
moderni, non solleva particolari problemi, ma non basta. Se non si vuole rinunciare alla missione della Chiesa,
occorre aggiungere: dialogo per l’evangelizzazione. Ma che rapporto c’è fra l’una e l’altra finalità,
fra la comprensione e l’evangelizzazione?
Francamente, nelle risposte a queste domane avverto il disagio di un’ambiguità.
Nella Redemptoris missio (n. 55) si dice che «il dialogo interreligioso fa parte della missione
evangelizzatrice della Chiesa», ma «non dispensa dall’evangelizzazione». Ma se “fa parte” e “non
dispensa”, cioè se fa parte indispensabile, allora il dialogo non è un elemento, ma uno strumento
dell’evangelizzazione. Perché allora tanta reticenza ad usare la parola “strumento”?
Inclino a pensare che la risposta risieda in un timore: il timore ─
alimentato dal relativismo ─ che anche per la Chiesa il dialogo come strumento di evangelizzazione sia
percepito come una forma di imperialismo.
Avverto la stessa ambiguità anche nella risposta alla seconda domanda: dialogo
interreligioso su che cosa? Certo, non sulla Rivelazione, perché è la Rivelazione è Verità. Si potrebbe
dire: su valori come la comunità, la fratellanza, la tolleranza, oppure la pace, la dignità, la promozione della
persona, che sono comuni a molte religioni. Ma questi sono valori secolari; l’evangelizzazione cristiana
non predica la secolarità, predica la trascendenza, la sua unica trascendenza. Ma se questa trascendenza è
unica, come parlare allora di «elementi di verità e di grazia» (Ad gentes, n. 9) anche nelle altre
religioni?
Di recente, padre Piero Gheddo ha risposto ad una provocazione di un sociologo
americano (R. Scott Appleby, “Il Papa fra tre fuochi”, in Global Foreign Policy, marzo-aprile 2004,
pp.28-34), il quale ha addirittura proposto una alleanza tra cristianesimo e Islam contro l’Occidente. Ha
ricordato padre Gheddo: «in nessun paese islamico i cristiani sono totalmente liberi, come i musulmani lo sono in
Occidente … I musulmani dovrebbero fare un bell’esame di coscienza sui loro comportamenti collettivi: la
violazione sistematica dei diritti dell’uomo, il terrorismo, le pratiche oppressive contro le donne e i bambini,
la mancanza di democrazia, il formalismo religioso e sociale che schiaccia la persona» (ivi, pp. 38 e 40).
È così, se si vuole dire ciò che si vede. Mentre noi consentiamo che accanto
alle chiese delle nostre parrocchie fioriscano moschee, nella stragrande maggioranza dei paesi musulmani non è
concesso costruire una chiesa. Peggio, mentre i musulmani non consentono la reciprocità dei nostri princìpi e
valori, noi ci concediamo la decostruzione relativistica di quegli stessi princìpi e valori e teorizziamo il
dialogo, anche quando ─ come scrive ancora padre Gheddo ─ «occorre riconoscere che il dialogo come lo
concepivano i padri del Concilio ha portato scarsi frutti».
Forse mi sbaglio o mi preoccupo inutilmente. Ma vedo un rischio: che il timore delle
scelte induca i cristiani a pensare che, se il cristianesimo comporta oneri gravosi, allora è meglio affievolire la
fede, indulgere al dialogo a qualunque costo o abbassare la voce piuttosto che rischiare un conflitto. Ma il
cristiano debole, come il pensatore debole, alla fine diventa un cristiano arrendevole.
Un esempio di questa debolezza mi sembra di poterlo scorgere nel modo in cui è stata
affrontata e si è negativamente risolta la questione del richiamo alle radici cristiane nel preambolo della
Costituzione dell’Europa unita. Perché è andata così?
Non perché non sia vero che l’Europa non abbia radici cristiane. Tutto il
contrario. È vero che la maggior parte delle nostre conquiste derivano, positivamente o criticamente, da lì,
dal messaggio del Dio che si è fatto uomo. È vero che, senza questo messaggio, che ha trasformato gli
individui in persone, essi non avrebbero dignità. È vero che i nostri valori, diritti e doveri di
uguaglianza, tolleranza, rispetto, solidarietà, compassione, nascono da quel sacrificio di Dio. È vero che
il nostro atteggiamento verso gli altri - di qualunque condizione o ceto o aspetto o cultura essi siano - dipende
dalla rivoluzione cristiana. È vero che le nostre stesse democrazie ne sono informate, compreso quella
preziosa laicità delle istituzioni che distingue ciò che è di Dio da ciò che è di Cesare, ciò che è dello
Stato da ciò che è dell’individuo. E così via.
E allora, perché è andata così? Perché lo stesso appello insistente del Papa non
è stato accolto? Perché i popoli cristiani dell’Europa non si sono mobilitati per innalzare la loro bandiera,
mentre a milioni si sono messi in marcia per la pace e il dialogo anche con coloro che attaccano espressamente i
valori fondanti dell’Occidente?
La mia risposta è: perché - nell’era del relativismo trionfante - il vero non
esiste più, la missione del vero è considerata fondamentalismo, e la stessa affermazione del vero fa paura o
solleva timori. Forse si sta avverando la profezia negativa della Veritatis splendor (n.101), l’«alleanza
fra democrazia e relativismo etico».
Il relativismo - e questa è la vera ragione morale della mia critica ad esso -
affievolisce le nostre difese culturali e ci prepara o rende inclini alla resa. Perché ci fa credere che non c’è
niente per cui valga combattere e rischiare. Perché non ci dà più argomenti o ce ne dà di sbagliati persino
quando altri volesse toglierci il Crocifisso dalle scuole. O perché, mentre vuol farci credere di essere alla base
dello stato laico, liberale e democratico, alla fine, messo alle strette, si converte in quel dogmatismo laicista di
Stato che vieta alle ragazze di fede islamica di indossare lo hijab a scuola.
8. Lo sbadiglio dell’Occidente
Sono alla conclusione. Mi si potrà chiedere: ma perché combattere e rischiare? C’è
forse una guerra?
La mia risposta è: dall’Afganistan al Kashmir alla Cecenia alle Filippine
all’Arabia Saudita al Sudan alla Bosnia al Kosovo alla Palestina alla Turchia all’Egitto all’Algeria al
Marocco, e altrove, in gran parte del mondo islamico e arabo gruppi consistenti di fondamentalisti, radicali,
estremisti ─ Talebani, al Qaeda, Hezbollah, Hamas, Fratelli musulmani, Jihad islamica, Gruppo armato islamico,
e molti altri ancora ─ hanno dichiarato guerra all’Occidente, la jihad. Lo hanno detto, scritto,
diffuso a chiare lettere. Perché non prenderne atto?
Si dirà: sono atti di terrorismo da parte di gruppi di fanatici. Rispondo: temo di
no, il terrorismo è lo strumento di una guerra culturale e armata. Si dirà ancora: non si può a nostra volta
combattere con le armi. Rispondo: spero sinceramente che non si debba, ma se, come già accade, l’Occidente fosse
costretto ad usare la forza, perché escluderla? Se la forza giusta e di difesa, lo stesso cristianesimo non ammette
forse una forza giusta e per difesa?
Non mi si fraintenda, per disattenzione o magari deliberatamente. Non si speculi
sotto o dietro le mie parole. Non sto perorando una dichiarazione di guerra dell’Occidente. Sto
perorando un’altra cosa, che a me sembra anche più importante: sto perorando la consapevolezza che esiste un
conflitto di cultura e in armi che alcuni ─ molti, troppi ─ hanno dichiarato all’Occidente. Non
sto chiedendo il rifiuto del dialogo. Sto chiedendo un’altra cosa, che è più fondamentale: sto chiedendo la
consapevolezza che il dialogo non serve a niente se, in anticipo, uno dei dialoganti dichiara che una tesi vale
l’altra.
Questa duplice consapevolezza la vedo poco presente in Occidente, soprattutto in
Europa. E non la trovo diffusa nello stesso cristianesimo europeo, che a me oggi appare timido, sconcertato,
angosciato.
C’è una ragione profonda di questa scarsa consapevolezza, che capisco e rispetto.
L’idea stessa di una guerra di civiltà o di religione fa paura. Accanto a questa che capisco, c’è una ragione
che invece non capisco: si tratta dell’idea della “colpa dell’Occidente”.
Ora, l’Occidente è costato al mondo colonialismo, imperialismo, nazionalismo,
antisemitismo, nazismo, fascismo, comunismo. Avendo mangiato i frutti avvelenati dell’albero della conoscenza, non
è un paradiso terrestre. E però non possiamo fermarci agli errori e anche orrori dell’Occidente. Se si deve fare
un bilancio corretto, occorre mettere i meriti accanto ai torti, e se si vuole celebrare un processo equo, occorre
contrapporre la difesa all’accusa.
«La civiltà occidentale - ha affermato un penetrante scrittore, Pietro Citati - ha
grandissime colpe, come qualsiasi civiltà umana. Ha violato e distrutto continenti e religioni. Ma possiede un dono
che nessuna altra civiltà conosce: quello di accogliere ... tutte le tradizioni, tutti i miti, tutte le religioni,
tutti o quasi tutti gli esseri umani» (P. Citati, “L’Occidente senza forza e l’esercito del terrore”, Repubblica,
31 marzo 2004). E un altro grande scrittore, Mario Vargas Llosa, ha detto della civiltà occidentale: «il suo
merito più significativo, quello che, forse, costituisce un “unicum” nell’ampio ventaglio delle culture
mondiali ... è stata la capacità di fare autocritica» (M. Vargas Llosa, “Occidente. L’agonia del paradiso”,
La Stampa, 18 aprile 2004).
Fare autocritica, ammettere gli errori, correggerli, punire chi ha sbagliato, è
linguaggio e dovere laico. Riconoscere le colpe ed espiarle è espressione ed esperienza cristiana. Si può seguire
l’una o l’altra strada, ma non possiamo dimenticarci chi siamo, chi vogliamo essere, chi dobbiamo essere.
«La democrazia - ha scritto ancora Vargas Llosa - è un evento che provoca sbadigli
nei paesi in cui esiste uno stato di diritto». Spero che non sia così. Ma se lo è, allora, io credo, dobbiamo
cominciare a stropicciarsi gli occhi e a svegliarci.