CHIESA E MODERNITÀ:
UN DIBATTITO APERTO
VENEZIA, venerdì, 10 novembre 2012 - Lectio magistralis del cardinal Mauro Piacenza, Prefetto
della Congregazione del Clero, sul tema Essere Chiesa nell’epoca moderna: il
contributo del Concilio Vaticano II, nel dies academicus in occasione dell’inaugurazione dell’Anno
Accademico dell’Institutum Marcianum di Venezia.
Eccellentissimo Patriarca,
Magnifico Preside,
Chiarissimi Professori,
Gentili Signore ed Egregi Signori,
Carissimi Studenti,
Il tema del rapporto tra Chiesa e modernità è uno dei più dibattuti e,
probabilmente, irrisolti della nostra epoca. Esso pare continuamente polarizzato
tra la tentazione, sempre possibile, di una "diluizione" del credo ecclesiale
nella modernità, da un lato, e la contrapposizione, talvolta fino al rifiuto,
dall'altro. Entrambe le "polarizzazioni" possono trovare giustificazioni e
puntelli, ma restano ultimamente delle "non-risposte" all'importante questione.
Dal punto di vista metodologico, ritengo necessario sottolineare tre
premesse. La prima è universale e riguarda ogni processo investigativo che voglia
essere realmente tale. In un'indagine scientifica, non è mai possibile giungere
ad una conoscenza autentica, eliminando uno dei fattori implicati.
Questo semplicissimo assioma gnoseologico, suggerisce come sia illegittimo,
anche nel rapporto tra Chiesa e modernità, pretendere di risolvere i problemi,
"eliminando" uno dei fattori in gioco: la modernità c'è e la Chiesa non può
eliminarla, né può far finta che non esista, ricercando nostalgicamente un
passato, nel quale il dialogo con la cultura appariva più semplice e fruttuoso.
Simmetricamente - e questo mi pare un elemento essenziale, forse poco
sottolineato - la Chiesa c'è, esiste, è viva e la modernità non può eliminare
tale "fattore" della realtà, senza contraddire se stessa e la propria dichiarata
empirica pretesa gnoseologica.
La seconda premessa è di tipo semantico: che cosa intendo, in questo
intervento, con "modernità"?
È chiaro che il termine é amplissimo e non é questa
la sede per definirlo o comprenderlo, in tutta la sua complessità. Dichiaro
soltanto che, ovviamente, non mi riferisco unicamente alla "modernità storica",
che si chiude con l'epoca contemporanea e che è, anch'essa differentemente
datata, a seconda dei sistemi di riferimento, né alla "modernità filosofica" in
senso stretto, che domanderebbe di essere integrata almeno con la
"post-modernità" e tutte le conseguenze del cosiddetto "pensiero liquido", che
genera la nostra "società liquida".
Utilizzerò il termine "modernità" in senso analogico, intendendo con esso,
nel presente intervento, quella parabola filosofico-antropologica, o più
specificamente gnoseologico-antropologica, che va da Cartesio al relativismo,
passando attraverso le grandi ideologie, sgretolatesi nel secolo scorso, ed il
contemporaneo "tecno-scientismo virtuale".
La terza ed ultima premessa riguarda la preparazione del presente intervento,
durante la quale ho potuto, ancora una volta, constatare come i documenti
conciliari debbano necessariamente essere letti in sinossi con gli interventi
Magisteriali del Beato Giovanni Paolo II (ne darò un esempio con la
Fides et
ratio) e di Benedetto XVI. Infatti, almeno dal punto di vista del linguaggio
adottato nei Testi del Concilio, è possibile affermare come, in non pochi casi,
esso risulti non pienamente adeguato alle presenti necessità di dialogo con la
cultura e, dunque, proprio per essere fedeli al Concilio, è necessario leggerlo
in piena continuità, sia con l'intera Tradizione ecclesiale precedente, sia con
il Magistero successivo, nel quale un particolarissimo posto é occupato dal
Catechismo della Chiesa Cattolica, il Catechismo del Concilio.
Fatte queste tre premesse, affronterò il tema del contributo del Concilio
Ecumenico Vaticano II al rapporto tra Chiesa e modernità, in tre passaggi:
- la
modernità come questione gnoseologica;
- le conseguenze antropologiche di una
gnoseologia irrisolta e, infine,
- le possibili prospettive in ordine alla
nuova evangelizzazione.
Affermava il Beato Giovanni XXIII, nel celebre discorso
Gaudet Mater
Ecclesia, alla Solenne apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II: "[...]
Occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un
assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai
nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono
contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse
sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione" (1).
Nei medesimi intenti programmatici del Beato Pontefice per il Concilio, è
possibile ravvisare, da un lato la volontà di un iniziale tentativo di dialogo
con la modernità, dall'altro, certamente, la dichiarazione di fedeltà
all'identità ecclesiale ed a quanto, in essa, non è suscettibile di umano
cambiamento, perché di statuto divino e appartenente all'ininterrotta Traditio
Ecclesiae.
Certo si potrebbe porre, a tale riguardo, l'impegnativa domanda: "È
sufficiente mutare o adattare il linguaggio, per pensare di rendere più
comprensibile una realtà come quella della Rivelazione?". O, simmetricamente: "È
davvero possibile mutare il linguaggio, senza, in fondo, mutare qualcosa anche
del contenuto essenziale del dato rivelato?".
Parrebbe, in tale contesto, che la questione del linguaggio domandi ancora
particolare approfondimento da parte sia della teologia, sia della filosofia.
L'orizzonte nel quale comprendere e, per certi versi contenere, la questione è
sempre quello dell'Incarnazione del Logos, cioè della Ragione increata che si è fatta carne per entrare in "dialogo" con la ragione creata. Un dialogo che
è
definitivamente segnato da un tempo, uno spazio, un ambito culturale, già
presente e sancito dal Nuovo Testamento, e dal quale non è possibile, in alcun
caso, prescindere.
Il Concilio stesso indica la necessità del "dialogo" con la modernità, quando
nella sua prima Costituzione afferma: "Il Sacro Concilio si propone di far
crescere ogni giorno più la vita cristiana fra i fedeli; di meglio adattare alle
esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti" (2).
Quasi sottintendendo, come indicato nella menzionata dichiarazione d’intenti
del Beato Giovanni XXIII, che dall'adattamento alle "esigenze del nostro tempo",
sono escluse le istituzioni non soggette a mutamenti.
__________________
Note:
1) Giovanni XXIII, Solenne apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II,
Discorso, 11 ottobre 1962.
2) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Sacrosanctum
Concilium sulla sacra liturgia, 4 dicembre 1963, n° 1.
1. La modernità come questione gnoseologica
Non si trova una definizione precisa di "modernità", né di "mondo moderno",
in alcun testo del Concilio Ecumenico Vaticano II. Sappiamo che il termine
"modernità" descrive solitamente i diversi tipi di Illuminismo emersi in
Occidente, dalla fine del XVIII secolo in poi. Tali movimenti indicavano, quale
orizzonte della conoscenza, la razionalità strumentale e scientifica applicata
tendenzialmente a tutte le sfere della vita, nella utopistica speranza di
emancipare l’umanità, liberandola definitivamente da ignoranza, sofferenza e
oppressione.
Un elemento distintivo della modernità, che, in certo senso, ne può
rappresentare la chiave ermeneutica, é rappresentato dalla questione
gnoseologica. Per la prima volta nella storia, l'uomo "moderno" ha creduto di
non essere più in grado di conoscere la realtà ed ha progressivamente arretrato
- mi si perdoni il voluto ossimoro - la propria capacita di conoscenza del
reale, fino a quella soglia esistenzialmente insostenibile che oggi chiamiamo
relativismo.
Il movimento illuminista, infatti, ha determinato dapprima un'ipertrofia
della ragione, in conseguenza della quale l’uomo e la sua capacità di conoscenza
si sono trasformati da “contemplatori”, "conoscitori" e "cantori” della realtà,
a “limitata misura” del reale. Un uso di ragione, che pretenda di limitare la
conoscenza umana ai soli dati empirici (qualcuno direbbe “scientifici”) è
mortificante per l’intelligenza umana e non permette alla conoscenza di
relazionarsi con la realtà, secondo la totalità dei suoi fattori.
L'adesione al reale si perde quasi completamente quando, dall’illuminismo, si
passa all’idealismo. Se l’uomo non conosce più la realtà per ciò che essa è, ma
tenta di misurarla (Razionalismo) o solo di pensarla (Idealismo), egli si
auto-confina in una oggettiva impossibilità di rapportarsi con
altro-da-se-stesso e tale atteggiamento ha evidenti conseguenze antropologiche,
come vedremo.
Come se ciò non bastasse, la crisi del positivismo ottocentesco, determinata
dai due conflitti mondiali del secolo scorso, ha portato ad una sorta di “resa
della ragione”, facendo passare l’uomo dal mito infondato del super-uomo alla
situazione attuale, altrettanto infondata, del più radicale relativismo.
Non c’è da stupirsi se ad una scorretta idea di ragione di tipo razionalista,
che si è infranta contro l'oggettiva impossibilità, da parte dell’uomo, di
controllare se stesso e il cosmo, ha fatto seguito un altrettanto scorretta ed
ingiustificata sfiducia nella reale capacità di ciascuno di conoscere se stesso,
il mondo e Dio.
Il Santo Padre Benedetto XVI ha più volte richiamato l’attenzione della
Chiesa e di tutti gli uomini di buona volontà sulla necessità di superare il
relativismo che caratterizza la nostra epoca e che, inevitabilmente, giunge a
toccare anche le nostre persone e i nostri ambienti cristiani.
Ad un uomo incapace di conoscere la realtà, che cosa rimane?
Lo stretto e asfissiante orizzonte delle proprie emozioni, della propria
istintività, veicolata dalla corporeità; da qui il dirompente edonismo,
narcisismo, pansessualismo, nel quale si smarriscono gli uomini del nostro tempo
e dal quale è necessario, con ogni mezzo, aiutarli a sottrarsi.
Perfino il materialismo, indicato come orizzonte esistenziale in taluni
movimenti ideologici del secolo scorso, è andato in crisi ed è stato, da un
lato, piegato al soddisfacimento dei desideri e delle passioni, dall’altro,
compensato in varie fughe “spiritualistiche” o new-age che nulla hanno a che
vedere con l’umana spiritualità e, men che meno, con la fede cristiana.
Il Concilio, nella Costituzione pastorale
Gaudium et Spes, coglie l'urgenza
della situazione e ricolloca al centro del dibattito l'uomo, con i suoi bisogni
costitutivi e con il suo rapporto ineludibile con la realtà.
Leggiamo al n. 10: «In verità gli squilibri di cui soffre il mondo
contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel
cuore dell’uomo. È proprio all’interno dell’uomo che molti elementi si
combattono a vicenda. Da una parte infatti, come creatura, esperimenta in mille
modi i suoi limiti; d’altra parte sente di essere senza confini nelle sue
aspirazioni e chiamato ad una vita superiore».
È la constatazione che la gnoseologia umana non può ridursi ad un
soggettivismo autoreferenziale, ma domanda di riconoscere l'oggettivo, sia in
noi, sia fuori di noi, paragonando poi il tutto con una tale indisponibile
universale condizione. Anche se certamente in modo indiretto, il Concilio tenta
di rispondere a quella che potremmo definire "l'emergenza gnoseologica" della
modernità, e lo fa ribadendo, in modo piano, dialogico e propositivo quelle che
sono le domande costitutive dell'io, di fronte alle quali nessuna riduzione é
ammessa, pena la rinuncia alla vita stessa.
Continua Gaudium et Spes: «di fronte all'evoluzione attuale del mondo,
diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza
gli interrogativi più fondamentali: cos'è l'uomo? Qual è il significato del
dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni
progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta
l'uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa
vita?».
A questi interrogativi, che come una lama attraversano il cuore di ciascuno
e, nel contempo, attraversano per la loro oggettività tutto l'empasse della
modernità, risponde con una piana confessione di fede: «La Chiesa crede che
Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all'uomo, mediante il suo Spirito,
luce e forza per rispondere alla sua altissima vocazione; né è dato in terra un
altro Nome agli uomini, mediante il quale possono essere salvati. Essa crede
anche di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di
tutta la storia umana». (GS, 10).
Fino alla vera e propria affermazione rilevante a livello gnoseologico:
«Inoltre la Chiesa afferma che al di là di tutto ciò che muta stanno realtà
immutabili». E ancora: «Esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è
sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli».
Non solo esiste la realtà ed é conoscibile, ma dietro ciò che muta, esistono
"realtà immutabili". Questo il primo fondamentale contributo del Concilio al
dialogo con la modernità, la messa a tema, seppure iniziale, della questione
gnoseologica che, negli anni, lo vediamo, é divenuta sempre più urgente e
drammaticamente rilevante.
L'uomo contemporaneo, inserito in un meccanismo tecnologico ed affascinato
dal potere che ha raggiunto nel manipolare la realtà, anche biologica, la stessa
realtà della vita, ritiene se stesso autosufficiente, pur nella aporetica
condizione di sperimentare il senso del limite e porsi le domande fondamentali,
inscritte nel suo cuore.
Il senso pieno delle affermazioni Conciliari, lo ritroviamo nella Fides et
ratio del Beato Giovanni Paolo II. In essa si descrive il processo naturale che
la ragione umana percorre, il suo prefiggersi delle mete, superarle, ma, nel
contempo, sorprendersi limitata e inadeguata, sperimentando l’inadeguatezza, e,
sperimentando, in questo modo, che l’Infinito esiste.
«L’uomo, per natura, ricerca la verità. Questa ricerca non è destinata solo
alla conquista di verità parziali, fattuali o scientifiche; egli non cerca
soltanto il vero bene per ognuna delle sue decisioni. La sua ricerca tende verso
una verità ulteriore che sia in grado di spiegare il senso della vita; è perciò
una ricerca che non può trovare esito se non nell’assoluto». (Giovanni Paolo II,
Lett. Encicl., Fides et Ratio, 14 settembre 1998, 33).
Appare chiaro come la questione gnoseologica ci abbia condotto già, e non
poteva essere altrimenti, nel cuore della questione antropologica. La capacità
di conoscere il reale, é infatti determinante perché l'uomo possa definire se
stesso. Forse con una punta di fondato ma eccessivo ottimismo, così si esprime
ancora la Gaudium et Spes: «Nella luce di Cristo, immagine del Dio invisibile,
primogenito di tutte le creature il Concilio intende rivolgersi a tutti per
illustrare il mistero dell'uomo e per cooperare nella ricerca di una soluzione
ai principali problemi del nostro tempo» (GS, 10).
2. Le conseguenze antropologiche di una gnoseologia irrisolta
La Gaudium et spes, anche se con un’analisi culturale e sociale, che oggi è,
in parte, oggettivamente “datata”, indica la questione gnoseologica come radice
dei mutamenti antropologici e culturali.
Al n. 7, infatti, afferma: «Il cambiamento di mentalità e di strutture,
spesso, mette in causa i valori tradizionali, soprattutto tra i giovani:
frequentemente impazienti, essi diventano ribelli per l’inquietudine; consci
della loro importanza nella vita sociale, desiderano assumere al più presto le
loro responsabilità. Spesso, genitori ed educatori si ritrovano, per questo,
ogni giorno, in maggiori difficoltà nell’adempimento del loro compito.
Le istituzioni, le leggi, i modi di pensare e di sentire ereditati dal
passato non sempre si adattano bene alla situazione attuale; di qui, un profondo
disagio nel comportamento e nelle stesse norme di condotta.
Anche la vita religiosa, infine, è sotto l’influsso delle nuove situazioni.
Da un lato, un più acuto senso critico la purifica da ogni concezione magica del
mondo e dalle sopravvivenze superstiziose ed esige un’adesione sempre più
personale e attiva alla fede; numerosi sono, perciò, coloro che giungono ad un
più vivo senso di Dio. D’altro canto, però, moltitudini crescenti praticamente
si staccano dalla religione. A differenza dei tempi passati, negare Dio, o la
religione, o farne praticamente a meno non è più un fatto insolito e
individuale. Oggi infatti, non raramente, un tale comportamento viene presentato
come esigenza del progresso scientifico o di un nuovo tipo di umanesimo».
In quest’ultima affermazione, secondo la quale il fare a meno di Dio verrebbe
«presentato come esigenza del progresso scientifico o di un nuovo tipo di
umanesimo», troviamo il nucleo della questione che ci sta a cuore: la modernità,
con il grande limite gnoseologico che la caratterizza, è compatibile con
l’Avvenimento cristiano?
L’idea di progresso, che dalla modernità emerge, idea che pure porta in se
stessa un’eco remota del bisogno di infinito proprio del cuore umano, può aprire
alla relazione con il Mistero, o rischia di rifugiarsi in un’utopistica
auto-affermazione dell’uomo? E ancora, senza Dio, quale tipo di “nuovo
umanesimo” è possibile attendersi?
Emerge chiaramente come, da tali centrali questioni, paragonate con la
situazione attuale, dal punto di vista antropologico, prevalga una forma di
auto-giustificazionismo; è come se l’intero comportamento umano fosse
determinato dal momento storico; come se la morale e il cuore dell’uomo
dovessero obbedire ad un meccanicismo determinista, che avrebbe, come unica
drammatica conseguenza, l’eliminazione della libertà personale e della volontà
di aderire al bene. Tale situazione, come indicato dallo stesso Documento al n.
8, determina una divisione all’interno dell’uomo. Divisione che l’annuncio
evangelico, l’incontro con Cristo, la grazia sacramentale e la vita ecclesiale
sono chiamati ad aiutare a superare.
«Al livello della persona, si nota molto spesso lo squilibrio tra una moderna
intelligenza pratica e il modo di pensare speculativo, che non riesce a
dominare, né a ordinare in sintesi soddisfacenti l’insieme delle sue conoscenze.
Uno squilibrio si genera anche tra la preoccupazione dell’efficienza pratica e
le esigenze della coscienza morale, nonché, molte volte, tra le condizioni della
vita collettiva e le esigenze di un pensiero personale e della stessa
contemplazione. Di qui ne deriva, infine, lo squilibrio tra le specializzazioni
dell’attività umana e una visione universale della realtà».
È proprio questa visione universale della realtà, che include la coscienza
dell’esistenza del reale e della sua conoscibilità, il più efficace contributo
dato dal Concilio al rapporto tra fede cristiana e modernità; esso è anche il
più grande servizio che la Chiesa possa offrire al mondo, nell’epoca moderna.
Potremmo dire, in maniera molto sintetica, ma probabilmente efficace, che
essere Chiesa nell’epoca moderna, significa restituire all’uomo la capacità di
conoscere il reale, di entrare in rapporto con quella realtà, che le derive
gnoseologiche degli ultimi tre secoli hanno volontariamente reso evanescente,
perché la realtà è pur sempre il luogo, nel quale il Logos Eterno si è
definitivamente manifestato. Censurare la realtà significa, per conseguenza,
censurare il luogo in cui Dio si è fatto “storia”, tentando di impedire all’uomo
l’incontro con il Mistero.
Come è possibile evincere da tali valutazioni, non ci si trova soltanto di
fronte alla discussione dialettica tra differenti legittimi metodi di
conoscenza, i quali, peraltro, sono sempre stati ammessi dall’epistemologia
cristiana e, anzi, incentivati, perché solo un metodo adeguato all’oggetto è
capace di autentico portato referenziale.
La vera questione è che un uomo, privato della capacità di cogliere il reale,
secondo la totalità dei suoi fattori, confinato in un metodo di conoscenza di
tipo scientifico-positivo, ritenuto l’unico in grado di giungere ad una qualche
certezza condivisibile, è un “uomo amputato”, non corrispondente nemmeno a ciò
che esso stesso sente profondamente di essere.
Appare evidente come tali passaggi del Concilio possano e debbano essere
letti in immediata ed efficace sinossi, sia con la Fides et ratio del Papa
Giovanni Paolo II, sia, in modo ancora più evidente, con i continui richiami del
Santo Padre Benedetto XVI ad «allargare i confini della razionalità».
Dal Discorso di Regensburg in poi, il Magistero pontificio va, con chiarezza,
in questa direzione, indicando, in negativo, il legame oggettivo tra crisi
gnoseologica e crisi antropologica, e in positivo, la via del recupero di una
corretta gnoseologia, come strada per una corretta antropologia, che spalanchi
al rapporto con il reale, nel quale il Mistero si manifesta.
Nel Motu Proprio Porta Fidei, in merito, leggiamo: «La fede, infatti, si
trova ad essere sottoposta più che nel passato ad una serie di interrogativi che
provengono da una mutata mentalità che, particolarmente oggi, riduce l’ambito
delle certezze razionali a quello delle conquiste scientifiche e tecnologiche.
La Chiesa tuttavia non ha mai avuto timore di mostrare come tra fede e
autentica scienza non vi possa essere alcun conflitto perché ambedue, anche se
per vie diverse, tendono alla verità» (n. 12).
3. Le possibili prospettive in ordine alla Nuova Evangelizzazione
Abbiamo appena concluso, anche con il Vostro Patriarca, il Sinodo sulla Nuova
Evangelizzazione ed è emerso, con chiarezza, come essa non possa, in alcun modo,
prescindere dall’autocoscienza ecclesiale: solo una Chiesa “evangelizzata” è
capace di essere “evangelizzante”.
In questo senso, è necessario ricordare come la Chiesa debba annunciare Gesù
Cristo al mondo, con un metodo, che non può, in alcun caso, essere storicista,
poiché lo storicismo, implicitamente, nega la validità perenne del vero,
presentandolo come condizionato alle contingenze storiche; da questo punto di
vista, grave è la deriva rischiata da molta teologia contemporanea, che tende a
presentarsi come riflessione storica, tendente allo storicismo, rinunciando ad
una precisa oggettività referenziale e dalla pretesa veritativa del dato
rivelato. Credo che, in questa direzione, i primi due volumi di Joseph Ratzinger
– Benedetto XVI su Gesù di Nazaret siano un poderoso antidoto allo storicismo e
siano da accogliere, soprattutto, per il loro portato metodologico.
Altro grosso limite da evitare, nella Nuova Evangelizzazione e nella
riflessione teologica ed ecclesiale, è quello dello scientismo: di pretendere,
cioè, che le affermazioni ed i contenuti della Rivelazione possano parlare
all’uomo moderno, solo se superano il vaglio del metodo scientifico-positivo.
«Questa concezione filosofica – leggiamo nella Fides et ratio – si rifiuta di
ammettere, come valide, forme di conoscenza diverse da quelle che sono proprie
delle scienze positive, relegando nei confini della mera immaginazione sia la
conoscenza religiosa e teologica, sia il sapere etico ed estetico. Nel passato,
la stessa idea si esprimeva nel positivismo e nel neo-positivismo, che
ritenevano prive di senso le affermazioni di carattere metafisico.
La critica epistemologica ha screditato questa posizione, ed ecco che essa
rinasce sotto le nuove vesti dello scientismo. In questa prospettiva, i valori
sono relegati a semplici prodotti di emotività e la nozione di essere è
accantonata per fare spazio alla pura e semplice fattualità» (n. 88).
In tale contesto, la Chiesa è chiamata a riprendere coscienza della sua
altissima missione e del compito che Dio le ha dato.
Portando la salvezza agli uomini, Gesù Cristo è Dio stesso che è entrato
nella storia e, per tale ragione, la salvezza non è altro rispetto alla Sua
concreta Persona. «Non vi è, infatti, altro nome dato agli uomini sotto il
cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4,12). Tra i vari
aspetti, della Divina Rivelazione, derivanti direttamente dal Mistero
dell’Incarnazione, dal fatto cioè che Dio si è fatto uomo, assumendo totalmente,
eccetto il peccato, la nostra concreta natura umana, c’è il fatto che Gesù
Cristo è venuto ad educare il nostro senso religioso.
Nell’epoca della modernità, cosciente della crisi gnoseologica, nella quale
da secoli siamo immersi, e della crisi antropologica, che ne deriva, la Chiesa è
chiamata all’opera della Nuova Evangelizzazione, imitando il suo Signore e
operando, come Lui, per l’educazione del senso religioso dell’uomo.
Non di rado, soprattutto nel tempo immediatamente post-conciliare,
interpretando, in maniera per lo meno unilaterale, il dettato del Concilio, si è
parlato di un primato dell’uomo e dei valori umani e di una presunta precedenza
della promozione umana sull’evangelizzazione.
Le conseguenze di tale fraintendimento sono sotto gli occhi di tutti, sia in
ordine alla confusione sull’identità rispettiva dei ministri Ordinati, dei
consacrati e dei fedeli laici, sia sulla deriva che, nei tre menzionati ambiti,
la formazione ha subito.
Non a caso nel Motu Proprio Porta Fidei, il Santo Padre ha affermato: «Capita
ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le
conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a
pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti,
questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato» (n.
2).
L’esperienza di duemila anni di Tradizione ecclesiale ed un primo bilancio,
teoretico e pragmatico, di questi primi cinquant’anni dal Concilio, indicano,
con lucida chiarezza, come il solo autentico modo per interpretare la giusta
promozione umana sia quello di aiutare l’uomo a sottrarsi da ogni concezione
riduzionista della realtà, a recuperare, sostenendolo nel recuperare, la propria
statura ontologicamente aperta all’Essere infinito, perché appartenente
all’Essere.
Potremmo dire che, alla radice della Nuova Evangelizzazione, c’è l’azione
ecclesiale di promozione umana, una promozione capace di restituire l’uomo
all’uomo e, perciò, Dio all’uomo e l’uomo a Dio.
Assumere con consapevolezza le sfide della modernità e, conseguentemente,
essere Chiesa nel tempo della modernità, non può significare, in alcun caso,
inseguire le “mode” culturali, morali, o sociali, di fronte alle quali, come
Chiesa, ci troviamo.
L’identità della Chiesa non è definita, in modo storicistico, dalle
circostanze, ma è stata definita, una volta per sempre, da Cristo suo Capo ed è
continuamente rinnovata, resa giovane ed attuale dallo Spirito, che
dinamicamente la guida nella storia. In ogni tempo, di fronte ad ogni avversità
e negazione, la Chiesa ha saputo solcare anche le tempeste più violente,
mantenendo fede alla propria identità e lasciando che fosse Pietro a tenere
saldo il timone della Nave di Cristo, collaborando con Pietro e “remando” nella
direzione indicata da Pietro.
Il necessario dialogo con le culture incontrate e, dunque, il necessario
dialogo con la modernità, non può risolversi in una assunzione di modelli
culturali, innanzitutto estranei all’uomo, alla sua struttura antropologica e,
perciò, estranei a Cristo e, necessariamente, estranei alla Chiesa.
Non si tratta, qui, certamente di ostinarsi nella proposta di modelli
culturali passati, che forse danno maggiori sicurezze, ma che sono praticamente
indecifrabili per l’uomo contemporaneo, quanto, piuttosto, di avere la capacità
di stare realmente di fronte l’uomo, aiutandolo a riscoprire le proprie esigenze
fondamentali e costitutive, e riconsegnandolo a quelle evidenze fondamentali,
ontologicamente rilevanti, che costituiscono il presupposto e l’esperienza
elementare di ogni umana esistenza.
In ogni circostanza, anche quella apparentemente più drammatica e priva di
speranza, culturalmente o moralmente parlando, la concreta possibilità di una
educazione dell’uomo e del suo senso religioso è data sempre dal concreto uomo
che abbiamo di fronte, dal suo cuore fatto da Dio e per Dio, e dalla capacità,
che, come Chiesa abbiamo di intercettarne i bisogni e rispondervi con quella
parola del Vangelo, così umana e così divina, che Gesù ci ha lasciata e che è la
Sua stessa prossimità ad ogni uomo.
Tale percorso la Chiesa lo compie, essendo fino in fondo se stessa, leggiamo
ancora nella
Lumen gentium al n. 17: «predicando il Vangelo, la Chiesa dispone
coloro che la ascoltano a credere e a professare la fede, li dispone al
Battesimo, li toglie dalla schiavitù dell’errore e li incorpora a Cristo, per
crescere in Lui, mediante la carità, finché sia raggiunta la pienezza. Procura,
poi, che quanto di buono si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini
o nei riti e nelle culture dei popoli, non solo non vada perduto, ma sia
purificato, elevato e perfezionato a gloria di Dio, confusione del demonio e
felicità dell’uomo. Ad ogni discepolo incombe il dovere di disseminare, per
quanto gli è possibile, la fede».
Questo l’augurio che rivolgo a me stesso e a ciascuno di voi, che,
soprattutto in quest’Anno della Fede, possiamo essere autentici discepoli,
capaci di disseminare la fede, educando il senso religioso umano, come ha fatto
Gesù Cristo, e contribuendo al grande cammino della Nuova Evangelizzazione.
Il contributo del Concilio, letto alla luce del Magistero, che ne è seguito e
lo ha attualizzato, soprattutto alla luce del Catechismo della Chiesa Cattolica
e degli interventi pontifici, conserva tutta la propria forza dinamica e ci
indica come “essere Chiesa nel tempo della modernità”.
Ci aiuti la Beata Vergine Maria, Icona perfetta della Chiesa in ogni tempo,
ad essere fedeli al mandato di Cristo nello Spirito del “fate ciò che Lui vi
dirà” (Gv 2,5).