«Ratzinger. La Chiesa,
una compagnia sempre riformanda»
Card Joseph Ratzinger
Illuminante intervento tento al
Meeting di Rimini del 1990: " Non è di una chiesa più umana che abbiamo
bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche
veramente umana".
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Cari amici,
grazie per questa accoglienza così calorosa; conoscete il titolo della
mia conferenza: "Una compagnia sempre riformanda".
Non c'è bisogno di molta immaginazione per indovinare che la compagnia
di cui qui voglio parlare è la Chiesa. Forse si è evitato di menzionare
nel titolo il termine "Chiesa", solo perché esso provoca spontaneamente,
nella maggior parte degli uomini di oggi, reazioni di difesa.
Essi pensano: "Di Chiesa abbiamo già sentito parlare fin troppo e per lo
più non si è trattato di niente di piacevole". La parola e la realtà
della Chiesa sono cadute in discredito. E perciò anche una simile
riforma permanente non sembra poter cambiare qualcosa.
O forse il problema è solamente che finora non è stato scoperto il tipo
di riforma che potrebbe fare della Chiesa una compagnia che valga
davvero la pena di essere vissuta?
Ma chiediamoci innanzitutto: perché la Chiesa riesce sgradita a così
tante persone, e addirittura anche a credenti, anche a persone che fino
a ieri potevano essere annoverate tra le più fedeli o che, pur tra
sofferenze, lo sono in qualche modo ancora oggi? I motivi sono tra loro
molto diversi, anzi opposti, a seconda delle posizioni.
Alcuni soffrono perché la Chiesa si è troppo adeguata ai parametri del
mondo d'oggi; altri sono infastiditi perché ne resta ancora troppo
estranea. Per la maggior parte della gente, la scontentezza nei
confronti della Chiesa comincia col fatto che essa è un'istituzione come
tante altre, e che come tale limita la mia libertà.
La sete di libertà è la forma in cui oggi si esprimono il desiderio di
liberazione e la percezione di non essere liberi, di essere alienati.
L'invocazione di libertà aspira ad un'esistenza che non sia limitata da
ciò che è già dato e che mi ostacola nel mio pieno sviluppo,
presentandomi dal di fuori la strada che io dovrei percorrere. Ma
dappertutto andiamo a sbattere contro barriere e blocchi stradali di
questo genere, che ci fermano impedendoci di andare oltre.
Gli sbarramenti che la Chiesa innalza si presentano quindi come
doppiamente pesanti, poiché penetrano fin nella sfera più personale e
più intima. Le norme di vita della Chiesa sono infatti ben di più che
una specie di regole del traffico, affinché la convivenza umana eviti il
più possibile gli scontri. Esse riguardano il mio cammino interiore, e
mi dicono come devo comprendere e configurare la mia libertà. Esse
esigono da me decisioni, che non si possono prendere senza il dolore
della rinuncia. Non si vuole forse negarci i frutti più belli del
giardino della vita? Non è forse vero che con la ristrettezza di così
tanti comandi e divieti ci viene sbarrata la strada di un orizzonte
aperto? E il pensiero, non viene forse ostacolato nella sua grandezza,
come pure la volontà? Non deve forse la liberazione essere
necessariamente l'uscita da una simile tutela spirituale? E l'unica vera
riforma, non sarebbe forse quella di respingere tutto ciò? Ma allora
cosa rimane ancora di questa compagnia?
L'amarezza contro la Chiesa ha però anche un motivo specifico. Infatti,
in mezzo ad un mondo governato da dura disciplina e da inesorabili
costrizioni, si leva verso la Chiesa ancora e sempre una silenziosa
speranza: essa potrebbe rappresentare in tutto ciò come una piccola
isola di vita migliore, una piccola oasi di libertà, in cui di tanto in
tanto ci si può ritirare.
L'ira contro la Chiesa o la delusione nei suoi confronti hanno perciò un
carattere particolare, poiché silenziosamente ci si attende da essa di
più che da altre istituzioni mondane. In essa si dovrebbe realizzare il
sogno di un mondo migliore. Quanto meno, si vorrebbe assaporare in essa
il gusto della libertà, dell'essere liberati: quell'uscir fuori dalla
caverna, di cui parla Gregorio Magno ricollegandosi a Platone.
Tuttavia, dal momento che la Chiesa nel suo aspetto concreto si è
talmente allontanata da simili sogni, assumendo anch'essa il sapore di
una istituzione e di tutto ciò che è umano, contro di essa sale una
collera particolarmente amara.
E questa collera non può venir meno, proprio poiché non si può
estinguere quel sogno che ci aveva rivolti con speranza verso di essa.
Siccome la Chiesa non è così come appare nei sogni, si cerca
disperatamente di renderla come la si desidererebbe: un luogo in cui si
possano esprimere tutte le libertà, uno spazio dove siano abbattuti i
nostri limiti, dove si sperimenti quell'utopia che ci dovrà pur essere
da qualche parte. Come nel campo dell'azione politica si vorrebbe
finalmente costruire il mondo migliore, così si pensa, si dovrebbe
finalmente (magari come prima tappa sulla via verso di esso) metter su
anche la Chiesa migliore: una Chiesa di piena umanità, piena di senso
fraterno, di generosa creatività, una dimora di riconciliazione di tutto
e per tutti.
Riforma inutile
Ma in che modo dovrebbe accadere questo? Come può riuscire una simile
riforma? Orbene; dobbiamo pur cominciare, si dice. Lo si dice spesso con
l'ingenua presunzione dell'illuminato, il quale è convinto che le
generazioni fino ad ora non abbiano ben compreso la questione, oppure
che siano state troppo timorose e poco illuminate; noi però abbiamo ora
finalmente nello stesso tempo sia il coraggio che l'intelligenza.
Per quanta resistenza possano opporre i reazionari e i "fondamentalisti"
a questa nobile impresa, essa deve venir posta in opera. Almeno c'è una
ricetta oltremodo illuminante per il primo passo.
La Chiesa non è una democrazia. Da quanto appare, essa non ha ancora
integrato nella sua costituzione interna quel patrimonio di diritti
della libertà che l'Illuminismo ha elaborato e che da allora è stato
riconosciuto come regola fondamentale delle formazioni sociali e
politiche. Così sembra la cosa più normale del mondo recuperare una
buona volta quanto era stato trascurato e cominciare coll'erigere questo
patrimonio fondamentale di strutture di libertà. Il cammino conduce -
come si suol dire - da una Chiesa paternalistica e distributrice di beni
ad una Chiesa-comunità.
Si dice che nessuno più dovrebbe rimanere passivo ricevitore dei doni
che fanno esser cristiano. Tutti devono invece diventare attivi
operatori della vita cristiana. La Chiesa non deve più venir calata giù
dall'alto.
No! Siamo noi che "facciamo" la Chiesa, e la facciamo sempre nuova. Così
essa diverrà finalmente la "nostra" Chiesa, e noi i suoi attivi soggetti
responsabili. L'aspetto passivo cede a quello attivo.
La Chiesa sorge attraverso discussioni, accordi e decisioni. Nel
dibattito emerge ciò che ancora oggi può esser richiesto, ciò che oggi
può ancora essere riconosciuto da tutti come appartenente alla fede o
come linea morale direttiva. Vengono coniate nuove "formule di fede"
abbreviate.
In Germania, a un livello abbastanza elevato, è stato detto che anche la
Liturgia non deve più corrispondere ad uno schema previo, già dato, ma
deve sorgere invece sul posto, in una data situazione ad opera della
comunità per cui viene celebrata.
Anche essa non deve più essere niente di già precostituito, ma invece
qualcosa di fatto da sé, qualcosa che sia espressione di se stessi. Su
questa via si rivela essere un pò di ostacolo, per lo più, la parola
della Scrittura, alla quale però non si può rinunciare del tutto. Si
deve allora affrontarla con molta libertà di scelta. Non sono molti però
i testi che si lasciano impiegare in modo tale da adattarsi senza
disturbi a quell'auto-realizzazione, alla quale la liturgia ora sembra
essere destinata.
In quest'opera di riforma, in cui ora finalmente anche nella Chiesa
l'"autogestione" deve sostituire l'esser guidati da altri, sorgono però
presto delle domande. Chi ha qui propriamente il diritto di prendere le
decisioni? Su quale base ciò avviene? Nella democrazia politica, a
questa domanda si risponde con il sistema della rappresentanza: nelle
elezioni i singoli scelgono i loro rappresentanti, i quali prendono le
decisioni per loro. Questo incarico è limitato nel tempo; è circoscritto
anche contenutisticamente in grandi linee dal sistema partitico, e
comprende solo quegli ambiti dell'azione politica che dalla Costituzione
sono assegnati alle entità statali rappresentative. Anche a questo
proposito rimangono delle questioni: la minoranza deve chinarsi alla
maggioranza, e questa minoranza può essere molto grande.
Inoltre, non è sempre garantito che il rappresentante che ho eletto
agisca e parli davvero nel senso da me desiderato, cosicché anche la
maggioranza vittoriosa, osservando le cose più da vicino, ancora una
volta non può considerarsi affatto interamente come soggetto attivo
dell'evento politico. Al contrario, essa deve accettare anche "decisioni
prese da altri", onde perlomeno non mettere in pericolo il sistema nella
sua interezza.
Più importante per la nostra questione è però un problema generale.
Tutto quello che gli uomini fanno, può anche essere annullato da altri.
Tutto ciò che proviene da un gusto umano può non piacere ad altri. Tutto
ciò che una maggioranza decide può venire abrogato da un'altra
maggioranza.
Una Chiesa che riposi sulle decisioni di una maggioranza diventa una
Chiesa puramente umana. Essa è ridotta al livello di ciò che è
plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie
intuizioni ed opinioni. L'opinione sostituisce la fede. Ed
effettivamente, nelle formule di fede coniate da sé che io conosco, il
significato dell'espressione "credo" non va mai al di là del significato
"noi pensiamo". La Chiesa fatta da sé ha alla fine il sapore del "se
stessi", che agli altri "se stessi" non è mai gradito e ben presto
rivela la propria piccolezza. Essa si è ritirata nell'ambito
dell'empirico, e così si è dissolta anche come ideale sognato.
L'essenza della vera riforma
L'attivista, colui che vuole costruire tutto da sé, è il contrario di
colui che ammira (l'"ammiratore"). Egli restringe l'ambito della propria
ragione e perde così di vista il Mistero. Quanto più nella Chiesa si
estende l'ambito delle cose decise da sé e fatte da sé, tanto più
angusta essa diventa per noi tutti. In essa la dimensione grande,
liberante, non è costituita da ciò che noi stessi facciamo, ma da quello
che a noi tutti è donato. Quello che non proviene dal nostro volere e
inventare, bensì è un precederci, un venire a noi di ciò che è
inimmaginabile, di ciò che "è più grande del nostro cuore". La
reformatio, quella che è necessaria in ogni tempo, non consiste nel
fatto che noi possiamo rimodellarci sempre di nuovo la "nostra" Chiesa
come più ci piace, che noi possiamo inventarla, bensì nel fatto che noi
spazziamo via sempre nuovamente le nostre proprie costruzioni di
sostegno, in favore della luce purissima che viene dall'alto e che è
nello stesso tempo l'irruzione della pura libertà.
Lasciatemi dire con un'immagine ciò che io intendo, un'immagine che ho
trovato in Michelangelo, il quale riprende in questo da parte sua
antiche concezioni della mistica e della filosofia cristiane. Con lo
sguardo dell'artista, Michelangelo vedeva già nella pietra che gli stava
davanti l'immagine-guida che nascostamente attendeva di venir liberata e
messa in luce. Il compito dell'artista - secondo lui - era solo quello
di toglier via ciò che ancora ricopriva l'immagine. Michelangelo
concepiva l'autentica azione artistica come un riportare alla luce, un
rimettere in libertà, non come un fare.
La stessa idea applicata però all'ambito antropologico, si trovava già
in san Bonaventura, il quale spiega il cammino attraverso cui l'uomo
diviene autenticamente se stesso, prendendo lo spunto dal paragone con
l'intagliatore di immagini, cioè con lo scultore. Lo scultore non fa
qualcosa, dice il grande teologo francescano. La sua opera è invece una
ablatio: essa consiste nell'eliminare, nel togliere via ciò che è
inautentico. In questa maniera, attraverso la ablatio, emerge la
nobilis forma, cioè la figura preziosa. Così anche l'uomo,
affinché risplenda in lui l'immagine di Dio, deve soprattutto e prima di
tutto accogliere quella purificazione, attraverso la quale lo scultore,
cioè Dio, lo libera da tutte quelle scorie che oscurano l'aspetto
autentico del suo essere, facendolo apparire solo come un blocco di
pietra grossolano, mentre invece inabita in lui la forma divina.
Se la intendiamo giustamente, possiamo trovare in questa immagine anche
il modello guida per la riforma ecclesiale.
Certo, la Chiesa avrà sempre bisogno di nuove strutture umane di
sostegno, per poter parlare e operare ad ogni epoca storica. Tali
istituzioni ecclesiastiche, con le loro configurazioni giuridiche, lungi
dall'essere qualcosa di cattivo, sono al contrario, in un certo grado,
semplicemente necessarie e indispensabili. Ma esse invecchiano,
rischiano di presentarsi come la cosa più essenziale, e distolgono così
lo sguardo da quanto è veramente essenziale. Per questo esse devono
sempre di nuovo venir portate via, come impalcature divenute superflue.
Riforma è sempre nuovamente una ablatio: un toglier via, affinché
divenga visibile la nobilis forma, il volto della Sposa e insieme
con esso anche il volto dello Sposo stesso, il Signore vivente.
Una simile ablatio, una simile "teologia negativa", è una via
verso un traguardo del tutto positivo. Solo così il Divino penetra, e
solo così sorge una congregatio, un'assemblea, un raduno, una
purificazione, quella comunità pura a cui aneliamo: una comunità in cui
un "io" non sta più contro un altro "io", un "sé" contro un altro "sé".
Piuttosto quel donarsi, quell'affidarsi con fiducia, che fa parte
dell'amore, diventa il reciproco ricevere tutto il bene e tutto ciò che
è puro. E così per ciascuno vale la parola del Padre generoso, il quale
al figlio maggiore invidioso richiama alla memoria quanto costituisce il
contenuto di ogni libertà e di ogni utopia realizzata: "Tutto ciò che è
mio è tuo..." (Lc 15,31; cfr. Gv 17,1).
La vera riforma è dunque una ablatio, che come tale diviene
congregatio. Cerchiamo di afferrare in modo un po' più concreto
quest'idea di fondo. In un primo approccio avevamo contrapposto
all'attivista l'ammiratore, e ci eravamo espressi in favore di quest'ultimo.
Ma che cosa esprime questa contrapposizione? L'attivista, colui che vuol
sempre fare, pone la sua propria attività al di sopra di tutto. Ciò
limita il suo orizzonte all'ambito del fattibile, di ciò che può
diventare oggetto del suo fare. Propriamente parlando egli vede soltanto
degli oggetti. Non è affatto in grado di percepire ciò che è più grande
di lui, poiché ciò porrebbe un limite alla sua attività. Egli restringe
il mondo a ciò che è empirico. L'uomo viene amputato. L'attivista si
costruisce da solo una prigione, contro la quale poi egli stesso
protesta ad alta voce.
Invece l'autentico stupore è un "No" alla limitazione dentro ciò che è
empirico, dentro ciò che è solamente l'aldiqua. Esso prepara l'uomo
all'atto della fede, che gli spalanca d'innanzi l'orizzonte dell'Eterno,
dell'Infinito. E solamente ciò che non ha limiti è sufficientemente
ampio per la nostra natura, solamente l'illimitato è adeguato alla
vocazione del nostro essere. Dove questo orizzonte scompare, ogni
residuo di libertà diventa troppo piccolo e tutte le liberazioni, che di
conseguenza possono venir proposte, sono un insipido surrogato, che non
basta mai. La prima, fondamentale ablatio, che è necessaria per
la Chiesa, è sempre nuovamente l'atto della fede stessa. Quell'atto di
fede che lacera le barriere del finito e apre così lo spazio per
giungere sino allo sconfinato. La fede ci conduce "lontano, in terre
sconfinate", come dicono i Salmi. Il moderno pensiero scientifico ci ha
sempre più rinchiusi nel carcere del positivismo, condannandoci così al
pragmatismo.
Per merito suo si possono raggiungere molte cose; si può viaggiare fin
sulla luna e ancora più lontano, nell'illimitatezza del cosmo. Tuttavia,
nonostante questo, si rimane sempre allo stesso punto, perché la vera e
propria frontiera, la frontiera del quantitativo e del fattibile, non
viene oltrepassata. Albert Camus ha descritto l'assurdità di questa
forma di libertà nella figura dell'imperatore Caligola: tutto è a sua
disposizione, ma ogni cosa gli è troppo stretta. Nella sua folle
bramosia di avere sempre di più, e cose sempre più grandi, egli grida:
Voglio avere la luna, datemi la luna! Ora, nel frattempo, è divenuto per
noi possibile avere in qualche modo anche la luna. Ma finché non si apre
la vera e propria frontiera, la frontiera fra terra e cielo, tra Dio e
il mondo, anche la luna è solamente un ulteriore pezzetto di terra, e il
raggiungerla non ci porta neanche di un passo più vicini alla libertà e
alla pienezza che desideriamo.
La fondamentale liberazione che la Chiesa può darci è lo stare
nell'orizzonte dell'Eterno, è l'uscir fuori dai limiti del nostro sapere
e del nostro potere. La fede stessa, in tutta la sua grandezza e
ampiezza, è perciò sempre nuovamente la riforma essenziale di cui noi
abbiamo bisogno; a partire da essa noi dobbiamo sempre di nuovo mettere
alla prova quelle istituzioni che nella Chiesa noi stessi abbiamo fatto.
Ciò significa che la Chiesa deve essere il ponte della fede, e che essa
- specialmente nella sua vita associazionistica intramondana - non può
divenire fine a se stessa. diffusa oggi qua e là, anche in ambienti
ecclesiastici elevati, l'idea che una persona sia tanto più cristiana
quanto più è impegnata in attività ecclesiali.
Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica dell'attività, del
darsi da fare; a ciascuno si cerca di assegnare un comitato o, in ogni
caso, almeno un qualche impegno all'interno della Chiesa. In un qualche
modo, così si pensa, ci deve sempre essere un'attività ecclesiale, si
deve parlare della Chiesa o si deve fare qualcosa per essa o in essa.
Ma uno specchio che riflette solamente se stesso non è più uno specchio;
una finestra che invece di consentire uno sguardo libero verso il
lontano orizzonte, si frappone come uno schermo fra l'osservatore ed il
mondo, ha perso il suo senso.
Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente attività
associazionistiche ecclesiali e tuttavia non sia affatto un cristiano.
Può capitare invece che qualcun altro viva solo semplicemente della
Parola e del Sacramento e pratichi l'amore che proviene dalla fede,
senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, senza essersi mai
occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza aver fatto parte
di sinodi e senza aver votato in essi, e tuttavia egli è un vero
cristiano.
Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa
più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana. E per questo
tutto ciò che è fatto dall'uomo, all'interno della Chiesa, deve
riconoscersi nel suo puro carattere di servizio e ritrarsi davanti a ciò
che più conta e che è l'essenziale.
La libertà, che noi ci aspettiamo con ragione dalla Chiesa e nella
Chiesa non si realizza per il fatto che noi introduciamo in essa il
principio della maggioranza. Essa non dipende dal fatto che la
maggioranza più ampia possibile prevalga sulla minoranza più esigua
possibile. Essa dipende invece dal fatto che nessuno può imporre il suo
proprio volere agli altri, bensì tutti si riconoscono legati alla parola
e alla volontà dell'Unico, che è il nostro Signore e la nostra libertà.
Nella Chiesa l'atmosfera diventa angusta e soffocante se i portatori del
ministero dimenticano che il Sacramento non è una spartizione di potere,
ma è invece espropriazione di me stesso in favore di Colui, nella
persona del quale io devo parlare ed agire.
Dove alla sempre maggiore responsabilità corrisponde la sempre maggiore
autoespropriazione, lì nessuno è schiavo dell'altro; lì domina il
Signore e perciò vale il principio che: "Il Signore è lo Spirito. Dove
però c'è lo Spirito del Signore ivi c'è la libertà" (2Cor 3, 17).
Quanti più apparati noi costruiamo, siano anche i più moderni, tanto
meno c'è spazio per lo Spirito, tanto meno c'è spazio per il Signore, e
tanto meno c'è libertà. lo penso che noi dovremmo, sotto questo punto di
vista, iniziare nella Chiesa a tutti i livelli un esame di coscienza
senza riserve.
A tutti i livelli questo esame di coscienza dovrebbe avere conseguenze
assai concrete, e recare con sé una ablatio che lasci di nuovo
trasparire il volto autentico della Chiesa. Esso potrebbe ridare a noi
tutti il senso della libertà e del trovarsi a casa propria in maniera
completamente nuova.
Morale, perdono ed espiazione: il centro personale della riforma
Guardiamo un attimo, prima di andare avanti, a quanto fin qui abbiamo
messo in luce. Abbiamo parlato di un doppio "toglimento", di un atto di
liberazione, che è un duplice atto: di purificazione e di rinnovamento.
Da prima il discorso ha toccato la fede, che infrange le mura del finito
e libera lo sguardo verso le dimensioni dell'Eterno, e non solo lo
sguardo, ma anche la strada. La fede è infatti non soltanto riconoscere
ma operare; non soltanto una frattura nel muro, ma una mano che salva,
che tira fuori dalla caverna. Da ciò abbiamo tratto la conseguenza, per
le Istituzioni, che l'essenziale ordinamento di fondo della Chiesa ha sì
bisogno sempre di nuovi sviluppi concreti e di concrete configurazioni -
affinché la sua vita si possa sviluppare in un tempo determinato - ma
che però queste configurazioni non possono diventare la cosa essenziale.
La Chiesa infatti non esiste allo scopo di tenerci occupati come una
qualsiasi associazione intramondana e di conservarsi in vita essa
stessa, ma esiste invece per divenire in noi tutti accesso alla vita
eterna.
Ora dobbiamo compiere un passo ulteriore, e applicare tutto questo non
più al livello generale e oggettivo quale era finora, ma all'ambito
personale. Infatti anche qui, nella sfera personale, è necessario un "toglimento"
che ci liberi. Sul piano personale non è sempre e senz'altro la "forma
preziosa", cioè l'immagine di Dio inscritta in noi, a balzare
all'occhio. Come prima cosa noi vediamo invece soltanto l'immagine di
Adamo, l'immagine dell'uomo non del tutto distrutto, ma pur sempre
decaduto. Vediamo le incrostazioni di polvere e sporcizia, che si sono
posate sopra l'immagine. Noi tutti abbiamo bisogno del vero Scultore, il
quale toglie via ciò che deturpa l'immagine, abbiamo bisogno del
perdono, che costituisce il nucleo di ogni vera riforma.
Non è certamente un caso che nelle tre tappe decisive del formarsi della
Chiesa, raccontate dai Vangeli, la remissione dei peccati giochi un
ruolo essenziale.
C'è in primo luogo la consegna delle chiavi a Pietro. La potestà a lui
conferita di legare e sciogliere, di aprire e chiudere, di cui qui si
parla, è, nel suo nucleo, incarico di lasciar entrare, di accogliere in
casa, di perdonare (Mt 16,19).
La stessa cosa si trova di nuovo nell'Ultima Cena, che inaugura la nuova
comunità a partire dal corpo di Cristo e nel corpo di Cristo. Essa
diviene possibile per il fatto che il Signore versa il suo sangue "per i
molti, in remissione dei peccati" (Mt 26,28). Infine il Risorto, nella
sua prima apparizione agli Undici, fonda la comunione della sua pace nel
fatto che egli dona loro la potestà di perdonare (Gv 20,19-23). La
Chiesa non è una comunità di coloro che "non hanno bisogno del medico",
bensì una comunità di peccatori convertiti, che vivono della grazia del
perdono, trasmettendola a loro volta ad altri.
Se leggiamo con attenzione il Nuovo Testamento, scopriamo che il perdono
non ha in sé niente di magico; esso però non è nemmeno un far finta di
dimenticare, non è "un fare come se non", ma invece un processo di
cambiamento del tutto reale, quale lo Scultore lo compie.
Il toglier via la colpa rimuove davvero qualcosa; l'avvento del perdono
in noi si mostra nel sopraggiungere della penitenza. Il perdono è in tal
senso un processo attivo e passivo: la potente parola creatrice di Dio
su di noi opera il dolore del cambiamento e diventa così un attivo
trasformarsi. Perdono e penitenza, grazia e propria personale
conversione non sono in contraddizione, ma sono invece due facce
dell'unico e medesimo evento. Questa fusione di attività e passività
esprime la forma essenziale dell'esistenza umana. Infatti tutto il
nostro creare comincia con l'essere creati, con il nostro partecipare
all'attività creatrice di Dio.
Qui siamo giunti ad un punto veramente centrale: credo infatti che il
nucleo della crisi spirituale del nostro tempo abbia le sue radici
nell'oscurarsi della grazia del perdono.
Notiamo però dapprima l'aspetto positivo del presente: la dimensione
morale comincia nuovamente a poco a poco a venir tenuta in onore. Si
riconosce, anzi è divenuto evidente, che ogni progresso tecnico è
discutibile e ultimamente distruttivo, se ad esso non corrisponde una
crescita morale. Si riconosce che non c'è riforma dell'uomo e
dell'umanità senza un rinnovamento morale. Ma l'invocazione di moralità
rimane alla fine senza energia, poiché i parametri si nascondono in una
fitta nebbia di discussioni. In effetti l'uomo non può sopportare la
pura e semplice morale, non può vivere di essa: essa diviene per lui una
"legge", che provoca il desiderio di contraddirla e genera il peccato.
Perciò là dove il perdono, il vero perdono pieno di efficacia, non viene
riconosciuto o non vi si crede, la morale deve venir tratteggiata in
modo tale che le condizioni del peccare per il singolo uomo non possano
mai propriamente verificarsi.
A grandi linee si può dire che l'odierna discussione morale tende a
liberare gli uomini dalla colpa, facendo sì che non subentrino mai le
condizioni della sua possibilità. Viene in mente la mordace frase di
Pascal: "Ecce patres, qui tollunt peccata mundi!". Ecco i padri,
che tolgono i peccati del mondo. Secondo questi "moralisti", non c'è
semplicemente più alcuna colpa. Naturalmente, tuttavia, questa maniera
di liberare il mondo dalla colpa è troppo a buon mercato. Dentro di
loro, gli uomini così liberati sanno assai bene che tutto questo non è
vero, che il peccato c'è, che essi stessi sono peccatori e che deve pur
esserci una maniera effettiva di superare il peccato. Anche Gesù stesso
non chiama infatti coloro che si sono già liberati da sé e che perciò -
come essi ritengono - non hanno bisogno di Lui, ma chiama invece coloro
che si sanno peccatori e che perciò hanno bisogno di Lui.
La morale conserva la sua serietà solamente se c'è il perdono, un
perdono reale, efficace; altrimenti essa ricade nel puro e vuoto
condizionale. Ma il vero perdono c'è solo se c'è il "prezzo d'acquisto",
l'"equivalente nello scambio", se la colpa è stata espiata, se esiste
l'espiazione.
La circolarità che esiste tra "morale - perdono -espiazione" non può
essere spezzata; se manca un elemento cade anche tutto il resto.
Dall'indivisa esistenza di questo circolo dipende se per l'uomo c'è
redenzione oppure no. Nella Torah, nei cinque libri di Mosé,
questi tre elementi sono indivisibilmente annodati l'uno all'altro e non
è possibile perciò da questo centro compatto appartenente al Canone
dell'Antico Testamento scorporare, alla maniera illuminista, una legge
morale sempre valida, abbandonando tutto il resto alla storia passata.
Questa modalità moralistica di attualizzazione dell'Antico Testamento
finisce necessariamente in un fallimento; in questo punto preciso stava
già l'errore di Pelagio, il quale ha oggi molti più seguaci di quanto
non sembri a prima vista. Gesù ha invece adempiuto a tutta la Legge, non
solamente ad una parte di essa e così l'ha rinnovata dalla base. Egli
stesso, che ha patito espiando ogni colpa, è espiazione e perdono
contemporaneamente, e perciò è anche l'unica sicura e sempre valida base
della nostra morale.
Non si può disgiungere la morale dalla cristologia, poiché non la si può
separare dall'espiazione e dal perdono. In Cristo tutta quanta la Legge
è adempiuta, e quindi la morale è diventata una vera, adempibile
esigenza rivolta nei nostri confronti. A partire dal nucleo della fede,
si apre così sempre di nuovo la via del rinnovamento per il singolo, per
la Chiesa nel suo insieme e per l'umanità.
La sofferenza, il martirio e la gioia della Redenzione
Su questo ci sarebbe ora molto da dire. Cercherò però solo, molto
brevemente, di accennare come conclusione, ancora a ciò che nel nostro
contesto mi appare come la cosa più importante. Il perdono e la sua
realizzazione in me, attraverso la via della penitenza e della sequela,
è in primo luogo il centro del tutto personale di ogni rinnovamento. Ma
proprio perché il perdono concerne la persona nel suo nucleo più intimo,
esso è in grado di raccogliere in unità, ed è anche il centro del
rinnovamento della comunità.
Se infatti vengono tolte via da me la polvere e la sporcizia, che
rendono irriconoscibile in me l'immagine di Dio, allora in tal modo io
divengo davvero anche simile all'altro, il quale è anche lui immagine di
Dio, e soprattutto io divengo simile a Cristo, che è l'immagine di Dio
senza limite alcuno, il modello secondo il quale noi tutti siamo stati
creati. Paolo esprime questo processo in termini assai drastici: "La
vecchia immagine è passata, ecco ne è sorta una nuova; non sono più io
che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20). Si tratta di un processo di
morte e di nascita. Io sono strappato al mio isolamento e sono accolto
in una nuova comunità-soggetto; il mio "io" è inserito nell'io" di
Cristo e così è unito a quello di tutti i miei fratelli. Solamente a
partire da questa profondità di rinnovamento del singolo nasce la
Chiesa, nasce la comunità che unisce e sostiene in vita e in morte.
Solamente quando prendiamo in considerazione tutto ciò, vediamo la
Chiesa nel suo giusto ordine di grandezza.
La Chiesa: essa non è soltanto il piccolo gruppo degli attivisti che si
trovano insieme in un certo luogo per dare avvio ad una vita
comunitaria. La Chiesa non è nemmeno semplicemente la grande schiera di
coloro che alla domenica si radunano insieme per celebrare l'Eucarestia.
E infine, la Chiesa è anche di più che Papa, vescovi e preti, di coloro
che sono investiti del ministero sacramentale. Tutti costoro che abbiamo
nominato fanno parte della Chiesa, ma il raggio della compagnia in cui
entriamo mediante la fede, va più in là, va persino al di là della
morte.
Di essa fanno parte tutti i Santi, a partire da Abele e da Abramo e da
tutti i testimoni della speranza di cui racconta l'Antico Testamento,
passando attraverso Maria, la Madre del Signore, e i suoi apostoli,
attraverso Thomas Becket e Tommaso Moro, per giungere fino a
Massimiliano Kolbe, a Edith Stein, a Piergiorgio Frassati. Di essa fanno
parte tutti gli sconosciuti e i non nominati, la cui fede nessuno
conobbe tranne Dio; di essa fanno parte gli uomini di tutti i luoghi e
tutti i tempi, il cui cuore si protende sperando e amando verso Cristo,
"l'autore e perfezionatore della fede", come lo chiama la lettera agli
Ebrei (12,2).
Non sono le maggioranze occasionali che si formano qui o là nella Chiesa
a decidere il suo e il nostro cammino. Essi, i Santi, sono la vera,
determinante maggioranza secondo la quale noi ci orientiamo. Ad essa noi
ci atteniamo! Essi traducono il divino nell'umano, l'eterno nel tempo.
Essi sono i nostri maestri di umanità, che non ci abbandonano nemmeno
nel dolore e nella solitudine, anzi anche nell'ora della morte camminano
al nostro fianco.
Qui noi tocchiamo qualcosa di molto importante. Una visione del mondo
che non può dare un senso anche al dolore e renderlo prezioso non serve
a niente. Essa fallisce proprio là dove fa la sua comparsa la questione
decisiva dell'esistenza. Coloro che sul dolore non hanno nient'altro da
dire se non che si deve combatterlo, ci ingannano. Certamente bisogna
fare di tutto per alleviare il dolore di tanti innocenti e per limitare
la sofferenza. Ma una vita umana senza dolore non c'è, e chi non è
capace di accettare il dolore, si sottrae a quelle purificazioni che
sole ci fanno diventar maturi.
Nella comunione con Cristo il dolore diventa pieno di significato, non
solo per me stesso, come processo di ablatio, in cui Dio toglie
da me le scorie che oscurano la sua immagine, ma anche al di là di me
stesso esso è utile per il tutto, cosicché noi tutti possiamo dire con
San Paolo: "Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e
completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a
favore del suo Corpo che è la Chiesa" (Col 1,24). Thomas Becket, che
insieme con l'Ammiratore e con Einstein ci ha guidato nelle riflessioni
di questi giorni, ci incoraggia ancora ad un ultimo passo. La vita va
più in là della nostra esistenza biologica. Dove non c'è più motivo per
cui vale la pena morire, là anche la vita non val più la pena.
Dove la fede ci ha aperto lo sguardo e ci ha reso il cuore più grande,
ecco che qui acquista tutta la sua forza di illuminazione anche quest'altra
frase di San Paolo: "Nessuno di noi vive per se stesso, e nessuno muore
per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se
moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo
dunque del Signore" (Rom 14,7-8).
Quanto più noi siamo radicati nella compagnia con Gesù Cristo e con
tutti coloro che a Lui appartengono, tanto più la nostra vita sarà
sostenuta da quella irradiante fiducia cui ancora una volta San Paolo ha
dato espressione: "Di questo io sono certo: né morte né vita, né angeli
né potestà, né presente né futuro, né potenze, né altezza né profondità,
né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, che è in
Cristo Gesù nostro Signore" (Rom 8,38-39).
Cari amici, da simile fede noi dobbiamo lasciarci riempire! Allora la
Chiesa cresce come comunione nel cammino verso e dentro la vera vita, e
allora essa si rinnova di giorno in giorno. Allora essa diventa la
grande casa con tante dimore; allora la molteplicità dei doni dello
Spirito può operare in essa. Allora noi vedremo "com'è buono e bello che
i fratelli vivano insieme. È come rugiada
dell'Ermon, che scende sul monte di Sion; là il Signore dona benedizione
e vita in eterno" (Sal 133,1.3).
(Joseph Ratzinger, Meeting di Rimini 1990)
© Copyright Il Sussidiario, 13 agosto 2009
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