Indirizzo del Card Ratzinger alla Conferenza Episcopale Cilena
13 luglio 1988
Negli ultimi mesi abbiamo lavorato molto intorno al caso Lefebvre, con
l'intenzione sincera di creare per il suo movimento un spazio all'interno della
Chiesa, spazio che sarebbe stato sufficiente perché esso potesse vivere. La
Santa Sede è stata criticata per questo. Si dice che non ha difeso il Concilio
Vaticano II con energia sufficiente; che, mentre ha trattato i movimenti
progressisti con severità grande, ha mostrato una simpatia esagerata con la
rivolta tradizionalista. Lo sviluppo degli eventi è sufficiente per confutare
queste asserzioni. L'[accusa di] rigorismo del Vaticano di fronte alle
deviazioni dei progressisti, presentato in modo mitico, è apparsa essere
soltanto un discorso vuoto. Finora, infatti, sono stati pubblicati soltanto dei
moniti; in nessun caso ci sono state pene canoniche rigorose in senso stretto.
Ed il fatto che, quando le cose si sono messe male, Lefebvre ha ritrattato un
accordo che già era stato firmato, indica che la Santa Sede, se ha fatto
concessioni davvero generose, non gli ha garantito quella licenza completa che
egli desiderava. Lefebvre ha visto che, nella parte fondamentale dell'accordo,
era obbligato ad accettare il Vaticano II e le affermazioni del Magistero post
conciliare, secondo l'autorità propria di ogni documento.
C'è una contraddizione evidentissima nel fatto che è proprio chi non ha perso
occasione per far conoscere al mondo la propria disobbedienza al Papa ed alle
dichiarazioni magisteriali degli ultimi 20 anni, che pensa di avere il diritto
di giudicare che questo atteggiamento è troppo blando e che desidera che si
fosse insistito su un'obbedienza assoluta al Vaticano II. Così pure costoro
sostengono che il Vaticano ha concesso il diritto di dissentire a Lefebvre,
diritto che è stato rifiutato ostinatamente ai fautori di una tendenza
progressista. In realtà, l'unico punto che è affermato nell'accordo, secondo
Lumen Gentium 25, è il fatto limpido che non tutti i documenti del Concilio
hanno la stessa autorità. Per il resto, è stato indicato esplicitamente, nel
testo che è stato firmato, che le polemiche pubbliche devono essere evitate e
che è richiesto un atteggiamento di rispetto positivo per le decisioni ufficiali
e le dichiarazioni.
È stato concesso, in più, che la Fraternità San Pio X possa presentare alla
Santa Sede - la quale si riserva l'esclusivo diritto di decisione - le sue
difficoltà particolari rispetto alle interpretazioni delle riforme giuridiche e
liturgiche. Tutto ciò mostra che in questo dialogo difficile Roma ha unito
chiaramente la generosità, in tutto quello che è negoziabile, alla fermezza nel
necessario. La spiegazione che Mons. Lefebvre ha dato, per la ritrattazione del
suo accordo, è indicativa. Ha dichiarato che infine ha capito che l'accordo che
ha firmato mira soltanto ad integrare la sua fondazione "nella Chiesa
Conciliare". La Chiesa Cattolica in unione con il Papa è, secondo lui, "la
Chiesa Conciliare", che ha rotto con il suo passato. Sembra effettivamente che
non riesca più a vedere che qui si tratta della Chiesa Cattolica nella totalità
della sua Tradizione e che il Vaticano II appartiene ad essa.
Senza alcun dubbio, il problema che Lefebvre ha posto non è finito con la
rottura del 30 giugno. Sarebbe troppo semplice rifugiarsi in una specie del
trionfalismo e pensare che questa difficoltà abbia cessato di esistere dal
momento in cui il movimento condotto da Lefebvre si è separato con una rottura
formale con la chiesa. Un cristiano non può mai, o non dovrebbe, compiacersi di
una rottura. Anche se è assolutamente certo che la colpa non può essere
attribuita alla Santa Sede, è un dovere per noi esaminarci, tanto circa
quali errori abbiamo fatto, quanto quali, persino ora, stiamo facendo. I criteri
con cui giudichiamo il passato nel decreto del Vaticano II sull'ecumenismo
devono essere usati - come è logico - per giudicare pure il presente.
Una delle scoperte fondamentali della teologia dell'ecumenismo è che gli
scismi possono avvenire soltanto quando determinate verità e determinati valori
della fede cristiana non sono più vissuti ed amati all'interno della chiesa. La
verità che è marginalizzata diventa autonoma, rimane staccata dal tutto della
struttura ecclesiastica ed è allora che un nuovo movimento si forma intorno ad
essa. Dobbiamo riflettere su questo fatto: che tantissimi cattolici, lontani
dalla cerchia stretta della fraternità di Lefebvre, vedono questo uomo come
guida, in un certo senso, o almeno come alleato utile. Non bisognerà attribuire
tutto a motivi politici, a nostalgia, o a fattori culturali di importanza
secondaria. Queste cause non sono capaci di spiegare l'attrattiva che è sentita
anche dai giovani, e particolarmente dai giovani, che vengono da molte nazioni
davvero differenti e che sono immersi in realtà politiche e culturali
completamente diverse. Certamente mostrano ciò che è, da ogni punto di vista,
una prospettiva limitata e parziale; ma non c'è alcun dubbio che un fenomeno di
questa portata sarebbe inconcepibile se non ci fossero qui all'opera dei valori,
che generalmente non trovano sufficienti possibilità di realizzarsi all'interno
della Chiesa di oggi.
Per tutti questi motivi, dobbiamo considerare tutta la questione soprattutto
come l'occasione per un esame di coscienza. Dovremmo non avere paura di farci
noi stessi domande fondamentali, circa i difetti della vita pastorale della
Chiesa, che emergono da questi fatti. Così dovremmo poter offrire un posto
all'interno della chiesa a coloro che lo stanno cercando e domandando e riuscire
a eliminare ogni ragione per uno scisma. Possiamo rendere tale scisma privo di
motivazioni rinnovando le realtà interne della chiesa. Ci sono tre punti, io
penso, che è importante considerare.
Se ci sono molti motivi che potrebbero condurre tantissima gente cercare un
rifugio nella liturgia tradizionale, quello principale è che trovano che essa ha
conservato la dignità del sacro. Dopo il Concilio, ci sono stati molti preti che
hanno elevato deliberatamente la "desacralizzazione" a livello di un programma,
sulla pretesa che il nuovo testamento ha abolito il culto del tempio: il velo
del tempio che è stato strappato dall'alto al basso al momento della morte di
Cristo sulla croce è, secondo certuni, il segno della fine del sacro. La morte
di Gesù, fuori delle mura della città, cioè, dal mondo pubblico, è ora la vera
religione. La religione, se vuol avere il suo essere in senso pieno, deve averlo
nella non sacralità della vita quotidiana, nell'amore che è vissuto. Ispirati da
tali ragionamenti, hanno messo da parte i paramenti sacri; hanno spogliato le
chiese più che hanno potuto di quello splendore che porta a elevare la mente al
sacro; ed hanno ridotto la liturgia alla lingua e ai gesti di una vita ordinaria, per
mezzo di saluti, i segni comuni di amicizia e cose simili.
Non c'è dubbio che, con queste teorie e pratiche, hanno del tutto
misconosciuto l'autentica connessione tra il vecchio ed il nuovo testamento: s'è dimenticato che questo mondo non è il regno di Dio e che "il Santo di Dio" (Gv
6,69) continua ad esistere in contraddizione a questo mondo; che abbiamo bisogno
di purificazione prima di accostarci a lui; che il profano, anche dopo la morte
e la resurrezione di Gesù, non è riuscito a trasformarsi nel "santo". Il Risorto
è apparso, ma a quelli il cui il cuore era ben disposto verso di Lui, al Santo;
non si è manifestato a tutti. È in questo modo che un nuovo spazio è stato aperto
per la religione a cui tutti noi ora dobbiamo sottometterci; questa religione
che consiste nell'accostarci alla famiglia del Risorto, ai cui piedi le donne si
prostravano e lo adoravano. Non intendo ora sviluppare ulteriormente questo
aspetto; mi limito sinteticamente a questa conclusione: dobbiamo riacquistare la
dimensione del sacro nella liturgia. La liturgia non è una festa; non è una
riunione con scopo di passare dei momenti sereni. Non importa assolutamente che
il parroco si scervelli per farsi venire in mente chissà quali idee o novità
ricche di immaginazione. La liturgia è ciò che fa sì che il Dio Tre volte Santo
sia presente fra noi; è il roveto ardente; è l'alleanza di Dio con l'uomo in
Gesù Cristo, che è morto e di nuovo è tornato alla vita. La grandezza della
liturgia non sta nel fatto che essa offre un intrattenimento interessante, ma
nel rendere tangibile il Totalmente Altro, che noi [da soli] non siamo capaci di
evocare. Viene perché vuole. In altre parole, l'essenziale nella liturgia è il
mistero, che è realizzato nel ritualità comune della Chiesa; tutto il resto lo
sminuisce. Alcuni cercano di sperimentarlo secondo una moda vivace, e si trovano
ingannati: quando il mistero è trasformato nella distrazione, quando l'attore
principale nella liturgia non è il Dio vivente ma il prete o l'animatore
liturgico.
Oltre alle questioni liturgiche, i punti centrali del conflitto attualmente
sono la presa di posizione di Lefebvre contro il decreto che tratta della
libertà religiosa ed al cosiddetto spirito di Assisi. È qui che Lefebvre
stabilisce le linee di demarcazione fra la sua posizione e quella della chiesa
cattolica.
C'è poco da dire: ciò che sta dicendo su questi punti è inaccettabile. Qui
non vogliamo considerare i suoi errori, piuttosto desideriamo chiederci dove vi
è mancanza di chiarezza in noi stessi. Per Lefebvre la posta in gioco è la
battaglia contro il liberalismo ideologico, contro la relativizzazione della
verità. Non siamo ovviamente in accordo con lui sul fatto che - capito secondo
le intenzioni del papa - il testo del Concilio o la preghiera di Assisi inducano
al relativismo.
È un'operazione necessaria difendere il Concilio Vaticano II nei confronti di
Mons. Lefebvre, come valido e come vincolante per Chiesa. Certamente c'è una
mentalità dalla visuale ristretta che tiene conto solo del Vaticano II e che ha
provocato questa opposizione. Ci sono molte presentazioni di esso che danno
l'impressione che, dal Vaticano II in avanti, tutto sia stato cambiato e che ciò
che lo ha preceduto non abbia valore o, nel migliore dei casi, abbia valore
soltanto alla luce del Vaticano II.
Il Concilio Vaticano II non è stato trattato come una parte dell'intera
tradizione vivente della Chiesa, ma come una fine della Tradizione, un nuovo
inizio da zero. La verità è che questo particolare concilio non ha affatto
definito alcun dogma e deliberatamente ha scelto di rimanere su un livello modesto,
come concilio soltanto pastorale; ma molti lo trattano come se si fosse
trasformato in una specie di superdogma che toglie l'importanza di tutto il
resto.
Questa idea è resa più forte dalle cose che ora stanno accadendo. Quello che
precedentemente è stato considerato la più santa - la forma in cui la liturgia è
stata trasmessa - appare improvvisamente come la più proibita di tutte le cose,
l'unica cosa che può essere impunemente proibita. Non si sopporta che si
critichino le decisioni che sono state prese dal Concilio; d'altra parte, se
certuni mettono in dubbio le regole antiche, o persino le verità principali
della fede - per esempio, la verginità corporale di Maria, la Resurrezione
corporea di Gesù, l'immortalità dell'anima, ecc. - nessuno protesta, o soltanto
lo fa con la più grande moderazione. Io stesso, quando ero professore, ho visto
come lo stesso Vescovo che, prima del Concilio, aveva licenziato un insegnante
che era realmente irreprensibile, per una certa crudezza nel discorso, non è
stato in grado, dopo il Concilio, di allontanare un professore che ha negato
apertamente verità della fede certe e fondamentali.
Tutto questo conduce tantissima gente chiedersi se la Chiesa di oggi è
realmente la stessa di ieri, o se l'hanno cambiata con qualcos'altro senza
dirlo alla gente. La sola via nella quale il Vaticano II può essere reso
plausibile è di presentarlo così come è: una parte dell'ininterrotta, dell'unica
tradizione della Chiesa e della sua fede.
Non c'è il minimo dubbio che, nei movimenti spirituali dell'era
post-conciliare, vi è stato frequentemente un oblio, o persino una soppressione,
della questione della verità: qui forse ci confrontiamo con il problema oggi
cruciale per la teologia e per il lavoro pastorale.
La verità è ritenuta essere una pretesa che è troppo elevata, un trionfalismo
che non può essere assolutamente ancora consentito. Vedete chiaramente questo
atteggiamento nella crisi che colpisce la pratica e l'ideale missionario. Se non
facciamo della verità un punto importante nell'annuncio della nostra fede e se
questa verità non è più essenziale per la salvezza dell'uomo, allora le missioni
perdono il loro significato. In effetti la conclusione è stata tirata, ed è
stato tirata oggi, che in futuro dobbiamo soltanto cercare che i cristiani siano
buoni cristiani, i buoni musulmani dei musulmani, i buoni Indù dei buoni Indù, e
così via. E se arriviamo a queste conclusioni, come facciamo a sapere quando uno
è "un buon" cristiano, o "un buon" musulmano?
L'idea che tutte le religioni sono - a prenderle sul serio - soltanto i
simboli di ciò che finalmente è incomprensibile, sta guadagnando terreno
velocemente in teologia e già ha penetrato la pratica liturgica. Quando le cose
giungono a questo punto, la fede è lasciata alle spalle, perché la fede
realmente consiste nell'affidarsi alla verità per quanto è conosciuta. Dunque,
in questa materia, ci sono tutte le ragioni per ritornar sulla retta via.
Se ancora una volta riusciremo a evidenziare e vivere la pienezza della
religione cattolica circa questi punti, possiamo sperare che lo scisma di
Lefebvre non sia di lunga durata.