All’inizio del Sinodo delle Chiese del Medio oriente è molto importante
analizzare il
discorso che
Benedetto XVI ha tenuto
ieri durante la solenne liturgia in san Pietro. Alcune sue sottolineature sono
fondamentali per comprendere la situazione sociale e ecclesiale della regione.
Chiese apostoliche
Il papa anzitutto accenna al fatto che il Medio Oriente ha visto “sempre, dai
tempi di Gesù fino ad oggi, la continuità della presenza dei cristiani”.
Il pontefice vuole sottolineare l’apostolicità delle chiese del Medio Oriente e
il fatto che sono Chiese vive. Chiesa d’Antiochia, laddove i cristiani per la
prima volto ricevono dagli altri questo nome (Atti 11,26). Chiesa di
Gerusalemme, che ha vissuto il fatto storico Gesù e ha conosciuto gli Apostoli.
Chiesa d’Alessandria, dove San Marco l’Evangelista è stato martirizzato. Non
sono Chiese che hanno ricevuto la fede da missionari venuti da Roma, ma dagli
apostoli stessi, e sono dunque testimoni del messaggio originale. Questo, per le
nostre Chiese, è una forza spirituale importante. Se spariscono, sarebbe una
perdita per l’insieme dei cristiani.
Pluralismo culturale e religioso: ricchezza ma anche particolarismo
Continua il papa: “In quelle terre, l’unica Chiesa di Cristo si esprime nella
varietà di tradizioni liturgiche, spirituali, culturali e disciplinari”.
Poi parla della varietà di tradizioni. Questa varietà va sottolineata: in
Oriente abbiamo addirittura sette Patriarchi e sette tradizioni liturgiche,
culturali, spirituali, disciplinari, e aggiungerei teologiche. Dogmaticamente
c’è unità, teologicamente c’è una grande varietà, che ne fanno la ricchezza. In
esegesi per esempio, con le due grande scuole d’interpretazione: quella di
Alessandria, più allegorica e mistica, con Origene già alla fine del secondo
secolo; e quella di Antiochia, più grammaticale e letterale.
Anche le posizioni teologiche sono sin dall’inizio multiple. La varietà
liturgica è ben nota; quella spirituale raramente si approfondisce; le varietà
culturali denotano una grande ricchezza, di lingue e di tradizioni. E’ la
diversità culturale dell’Oriente che ha creato un’immensa ricchezza ma anche
conflitti politici e teologici.
In Occidente invece c’era solo Roma, come città di profonda cultura. Le altre
non avevano peso, né politico, né culturale. Invece in Oriente, anche ben prima
del cristianesimo, c’erano centri importantissimi: Alessandria, Edessa,
Gerusalemme, Antiochia.
Questa varietà viene dalla struttura storica dell’Oriente. E le conseguenze si
sentono fino ad oggi. In Occidente l’unificazione (e forse l’omogeneità) andava
da sé, da noi invece è il contrario. Ogni Chiesa è fiera del suo passato anche
precristiano, sanno tutte di essere erede di civiltà prestigiose!
Questa varietà è una grande ricchezza, ma talvolta fa scivolare le Chiese nel
particolarismo, oppure nel nazionalismo e nelle divisioni interne che
indeboliscono.
Il papato e l’unità della Chiesa
Ed è anche il problema del Papato, che sarà sollevato, lo so, da alcuni vescovi.
Alcuni sentono che Roma interviene troppo nei loro affari, senza necessità,
semplicemente per abitudine di centralismo, oppure talvolta per convinzione che
la pratica romana è superiore a quella nostra. Altri sottolineano che ci vuole
una sola testa, soprattutto in caso di conflitti, che permette di risolvere i
problemi. Tutti dicono pero’ : rispettate le nostre diversità, le nostre
culture. In Oriente cattolico, per esempio, ci sono preti sposati e preti
celibi, e tanti punti …
E questo è uno degli aspetti che il papa vuole affrontare. Se non c’è comunione,
non c’è testimonianza. La nostra testimonianza viene dalla nostra comunione.
Come dice il Vangelo: da questo sapranno che siete miei discepoli, se vi amate
gli uni con gli altri (Giov. 13, 35). Se ognuno sottolinea troppo la propria
specificità si può arrivare alla divisione o alla dimenticanza degli altri per
salvare la propria cultura. L’Oriente insiste sulla particolarità più che
sull’unità : ci vuole un equilibrio.
Anche l’Occidente sta riscoprendo la particolarità: Germania, Francia, Spagna,
rivendicano modi specifici di credere e di governare la Chiesa, per non parlare
delle tradizioni africane e asiatiche.
Negli Stati Uniti vi sono tendenze particolaristiche riguardo alla relazione
uomo-donna, che mettono molte cose in questione. L’anglicanesimo si è spaccato
negli ultimi decenni perché le chiese africane hanno rifiutato le decisioni
americane o inglesi su questo punto. Come mantenere l’unità della Chiesa,
rispettando però la cultura di ognuno ?
Questo è un problema essenziale: esso riguarda lo scisma o l’unità, ed è su
questo che le Chiese d’Oriente possono dare un contributo. Perché siamo
orientali, con innumerevoli tradizioni, ma siamo cattolici, riconoscendo il
principio di unità che è rappresentato dal vescovo di Roma.
Questo modello delle Chiese d’oriente potrebbe essere un suggerimento per il
mondo dell’ortodossia. Se gli ortodossi vedono che la realtà cattolica è vissuta
in modo ricco e positivo, allora potrebbero avvicinarsi all’unità. E viceversa :
Un vescovo mi confidava ieri che se gli ortodossi vedono l’unità solo
testimoniata in modo burocratico, non come rapporto fra i patriarchi e il papa,
questo li allontanerebbe dall’unità.
I fedeli orientali emigrati in Occidente
Ad un certo punto del suo discorso, il papa parla dei fedeli della diaspora, e
questo solleva un problema dentro la Chiesa cattolica, perché spesso i vescovi
in Europa vogliono avere giurisdizione sui fedeli orientali emigrati. Per
esempio c’è una regola che vieta l’esistenza di preti orientali sposati in
occidente. Possono averli in Oriente, ma non nelle diocesi occidentali. Era
stato deciso - si è detto - per non scandalizzare i fedeli. Ma tutto questo deve
cambiare.
All’origine, i patriarcati erano geografici, ma ora il fatto dell’emigrazione
sta sollevando diverse questioni. Ieri il papa ha parlato di “tutti i fedeli
affidati alle loro (cioè dei Patriarchi) cure pastorali nei rispettivi Paesi e
anche nella diaspora”. É un piccolo punto, ma fondamentale. É un problema che
esiste anche con gli ortodossi, con la Chiesa di Mosca. Da chi dipendono gli
ortodossi della diaspora? Una volta era il Patriarca ecumenico che aveva la
responsabilità fuori, adesso vogliono restringere la sua responsabilità alla
sola Turchia.
“La salvezza è universale, ma passa attraverso una mediazione determinata,
storica”
Ad un certo punto Benedetto XVI commenta le letture della messa e racconta dei
due malati di lebbra, ambedue non ebrei [Naaman il siro (2 Re 5,14-17); il
samaritano (Luca, 17,11-19)], che guariscono perché credono alla parola
dell’inviato di Dio, e li guarisce. Commenta: “Guariscono nel corpo, ma si
aprono alla fede, e questa li guarisce nell’anima, cioè li salva”.
Il papa solleva il problema della conversione. Andando oltre egli afferma: “la
salvezza è universale”, tutti sono chiamati dall’amore di Dio a esser salvati.
Per noi cristiani questo ha un’importanza teologica essenziale nei confronti dei
musulmani. Non è una razza, un popolo, che è salvato: Dio vuole la salvezza
universale.
Ma dice che tale salvezza passa attraverso il giudaismo, e poi attraverso il
cristianesimo. “La salvezza è universale, ma passa attraverso una mediazione
determinata, storica”. E lo sottolinea usando la parola “porta”: “la porta della
vita è aperta a tutti”. In pratica Benedetto XVI riafferma che la salvezza è
solo in Cristo (2 Timoteo 2,10), e questo è un passaggio obbligato.
Nella teologia contemporanea vi è spesso opposizione. Qualcuno dice: la salvezza
è universale, quindi non c’è bisogno di Cristo; altri dicono: fuori dalla Chiesa
non c’è salvezza.
In una visione semplice, partendo dai testi biblici, Ratzinger risolve questa
opposizione: la salvezza è il Cristo, annunciato o preparato dall’Israele
storico, e prolungato dall’Israele spirituale che è la Chiesa. Il ruolo della
Chiesa è perciò indispensabile, anche se non assoluto.
Necessità della missione per ritrovare il senso della nostra fede
Tutto questo è importante per noi in Medio Oriente. Dal punto di vista
sociologico ci sentiamo nell’impossibilità di praticare la missione verso i
musulmani, che sono la maggioranza del nostro popolo, di invitarli a scoprire il
Vangelo e la salvezza assoluta che viene dal Vangelo, perché le leggi lo
vietano.
Ho visto ieri il vescovo di Algeri che mi diceva di aver passato due ore con il
ministro del Culto, su questa questione [leggi anti-proselitismo, che frenano la
libertà di annunciare]. Al punto che alcuni vescovi e tanti missionari si
rifiutano di battezzare musulmani che pure chiedono il battesimo da anni, per
paura di far loro perdere elementi della loro cultura!
Dal punto di vista teologico il discorso del papa corregge quelle teologie (come
alcune indiane e molte “teologie delle religioni” diffuse in Occidente) che
predicano che non è necessario il passaggio per il Cristo. Un missionario mi
diceva: il Concilio Vaticano II ha stabilito che tutti possono essere salvati
nella loro religione; perché dunque battezzarle?
Le nostre Chiese in Oriente hanno perso il senso missionario concentrandosi
sulla sopravvivenza. Ma la sopravvivenza di un corpo non avviene se sto solo a
guardare il problema fisico: diviene un’asfissia. Ed è quanto succede alle
nostre Chiese: siamo talmente interessati a salvare la nostra cultura, la nostra
particolarità, la nostra sopravvivenza, che alla fine ci occupiamo di
piccolezze, invece di vedere la nostra missione mondiale.
Anche in Europa stiamo morendo perché tutta l’epoca missionaria, quella in cui
dall’Italia e dalla Francia andavano dappertutto, non c’è più. Oggi siamo
talmente preoccupati di noi stessi e dei nostri problemi che si perde il senso
missionario. Dobbiamo ritrovare questo senso. Anche ridurre la nostra missione a
opere caritative, a impegno per lo sviluppo non è soddisfacente.
La terra
Proseguendo, Benedetto XVI parla di una salvezza legata alla terra: “Dio si
rivela così come il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (cfr Esodo 3,6), che
vuole condurre il suo popolo alla ‘terra’ della libertà e della pace”. Ma –
aggiunge – “questa ‘terra’ non è di questo mondo”.
Queste affermazioni sono importantissime per il Medio Oriente dove è diffusa
tutta una teologia e una politica basata sulla “terra”: la questione di
Gerusalemme, l’Israele di oggi (o quello dei sionisti, fino al Nilo e
all’Eufrate), la Palestina… Tutta la problematica della terra è fondamentale. E
ognuno la rivendica per sé. Gli ebrei rivendicano la Terra Santa in nome della
promessa divina della “terra”; i musulmani la rivendicano perché fa parte del
“Dâr al-Islâm”, la Casa dell’Islam. Ma il papa dice: è una terra non di questo
mondo.
Eppure, Gerusalemme, per i cristiani - più che per chiunque altro - è la terra
dove Gesù ha vissuto, ha predicato ed è morto. Ma la Chiesa cattolica non ha mai
rivendicato, almeno nei tempi moderni, che essa sia una terra cristiana. Ha solo
rivendicato la libertà di accesso, anche ai tempi delle crociate.
Invece gli ebrei nella loro maggioranza, dicono: No, questa terra non la
lasceremo mai (e ci sono anche coloni che lottano militarmente per occuparla!).
In verità va detto che vi sono pure ebrei che spiritualizzano il legame con la
terra. I musulmani a loro volta dicono che ciò che è stato una volta musulmano,
non si può più lasciare. I cristiani d’Oriente dovranno sempre sottolineare, che
questa “terra” non è di questo mondo. É un nostro contributo alla pace e alla
giustizia.
Il Medio Oriente, “terra” di tutti
Anche lo sguardo che Benedetto XVI ha sul Medio Oriente è speciale: “è la terra
di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; la terra dell’esodo e del ritorno
dall’esilio; la terra del tempio e dei profeti; la terra in cui il Figlio
Unigenito è nato da Maria, dove ha vissuto, è morto ed è risorto; la culla della
Chiesa, costituita per portare il Vangelo di Cristo sino ai confini del mondo”.
Questa enumerazione in cinque elementi è meravigliosa! Il papa collega questa
visione (“dall’alto”, secondo la prospettiva di Dio)
· alla fede di Abramo (in cui possiamo vedere anche l’inserimento dei musulmani,
per i quali Abramo è padre nelle fede, e più largamente a tutti quelli che
cercano Dio in cuor loro!);
· all’Israele storico: “la terra dell’esodo e del ritorno dall’esilio; la terra
del tempio e dei profeti”; ma forse anche di tutti quelli che “ritornano
dall’esilio” che sono oggigiorno innumerevoli;
· al cristianesimo storico: “la terra in cui il Figlio Unigenito è nato da Maria,
dove ha vissuto, è morto ed è risorto” (da notare che la passione è sempre
collegata alla risurrezione, senza la quale non ha senso);
· infine per sottolineare “la culla della Chiesa, costituita per portare il
Vangelo di Cristo sino ai confini del mondo”, cioè l’evangelizzazione. Ancora
una volta, la missione della Chiesa è di nuovo sottolineata con questo “per”.
Non possiamo escludere nessuna dimensione dal Medio Oriente, ma non possiamo
dimenticare che tutto questo è orientato alla missione. Questa meraviglia della
rivelazione dell’amore di Dio in Cristo non posso tenerla per me: anche i
musulmani hanno diritto a conoscere Gesù Cristo.
Conclusione : il disegno di Amore universale di Dio
Infine, un ultimo aspetto: guardare il Medio Oriente nella prospettiva di Dio
significa che esiste “un disegno universale di salvezza nell’amore”. La salvezza
nell’amore si esplica nella libertà e non può essere proselitismo. Tutto ha
compimento in Gesù Cristo, figlio di questa terra. Dal suo cuore e dal suo
spirito, la Chiesa è nata (allusione alla morte di Cristo sulla croce, col suo
costato aperto e l’acqua e il sangue che scorre); essa è pellegrina in questo
mondo, assume il suo ruolo universale salvifico: segno, e strumento, cioè
sacramento di Cristo. La Chiesa che ha come missione la comunione e la
testimonianza.
Il messaggio di salvezza è l’annuncio che Dio è amore. L’uomo, creato a immagine
di Dio, ha come compito di riconoscere la natura vera di Dio, e di salvarsi
vivendo l’amore e diffondendolo. La Chiesa è segno e strumento solo se vive la
comunione d’amore.
“La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza”, ecco il
motto di questo Sinodo, come l’ha sviluppato Benedetto XVI ieri nell’omelia.
[Fonte: AsiaNews 12 ottobre 2010]
Foto: CPP