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Sintesi dell'Instrumentum laboris
L’Instrumentum laboris del Sinodo per il Medio Oriente, ovvero il documento
per il lavoro dell’assise sinodale,
consegnato oggi dal Papa, è pubblicato in 4
lingue: arabo, francese, inglese ed italiano. Il documento, di una quarantina di
pagine, è stato realizzato dall’elaborazione delle numerose risposte al
Questionario dei Lineamenta, pervenute dai Sinodi dei Vescovi delle Chiese
Orientali Cattoliche sui iuris, dalle Conferenze episcopali, dai Dicasteri della
Curia Romana, dall’Unione dei Superiori Generali come pure da tante persone
singole e gruppi ecclesiali. Ecco una sintesi del documento:
Nella prefazione, il segretario generale del Sinodo dei Vescovi,
l’arcivescovo Nikola Eterović, sottolinea che “la situazione attuale nel Medio
Oriente è per non pochi versi simile a quella vissuta dalla primitiva comunità
cristiana in Terra Santa” in mezzo a difficoltà e persecuzioni. “I primi
cristiani agivano in situazioni alquanto avverse. Trovavano l’opposizione e
l’inimicizia dei poteri religiosi del proprio popolo … la loro patria era
occupata, inserita all’interno del potente impero romano”. Ciononostante
“proclamavano integra la Parola di Dio”, compreso l’amore per i nemici,
arrivando a testimoniare “con il martirio la fedeltà al Signore della vita”.
Nell’Introduzione si ricorda che Benedetto XVI ha voluto personalmente
annunciare tale evento il 19 settembre 2009, accogliendo così “la richiesta di
numerosi confratelli nell’episcopato che di fronte all’attuale delicata
situazione ecclesiale e sociale” avevano proposto la convocazione di
un’assemblea sinodale (1). Due gli obiettivi principali del Sinodo:
innanzitutto, quello di “confermare e rafforzare i cristiani nella loro identità
mediante la Parola di Dio e i Sacramenti”; in secondo luogo quello di “ravvivare
la comunione ecclesiale tra le Chiese sui iuris, affinché possano offrire una
testimonianza di vita cristiana autentica, gioiosa e attraente” (3).
Sottolineati con forza anche l’impegno ecumenico e il dialogo con ebrei e
musulmani “per il bene dell’intera società” e perché “la religione, soprattutto
di quanti professano un unico Dio” diventi “sempre di più motivo di pace” (4).
Il Sinodo intende “fornire ai cristiani le ragioni della loro presenza in una
società prevalentemente musulmana, sia essa araba, turca, iraniana, o ebrea
nello Stato d’Israele” (6). La riflessione è guidata dalla Sacre Scritture
(7-12).
Il Primo capitolo tratta della Chiesa cattolica in Medio Oriente
ricordando che tutte le Chiese del mondo “risalgono alla Chiesa di Gerusalemme”
(14). Si afferma che le divisioni tra i cristiani (Concili di Efeso e Calcedonia,
nel quinto secolo, e separazione di Roma e Costantinopoli nell’undicesimo
secolo) furono dovute soprattutto a “motivi politico-culturali”. Tuttavia “lo
Spirito opera nelle Chiese per avvicinarle e far cadere gli ostacoli all’unità
visibile voluta da Cristo”. Nel Medio Oriente, l’unica Chiesa Cattolica è
presente in varie Tradizioni, in diverse Chiese Orientali Cattoliche sui
iuris. Oltre alla Chiesa di tradizione latina, vi sono 6 Chiese patriarcali,
ognuna con un suo ricco patrimonio spirituale, teologico, liturgico. “Queste
tradizioni sono, allo stesso tempo, una ricchezza per la Chiesa universale”
(15-18). Si ricorda che le Chiese del Medio Oriente sono d’origine apostolica e
“che sarebbe una perdita per la Chiesa universale se il Cristianesimo dovesse
affievolirsi o scomparire proprio là dove è nato”. C’è dunque la “grave
responsabilità” di “mantenere la fede cristiana in queste terre sante” (19).
Purtroppo si deve constatare che oggi lo “slancio evangelico è spesso frenato e
la fiamma dello Spirito sembra essersi affievolita” (20). “Se la Chiesa non
lavora per le vocazioni è destinata a scomparire” (21). La crisi delle vocazioni
è dovuta a varie cause: emigrazione delle famiglie, diminuzione delle nascite,
un ambiente sempre più contrario ai valori evangelici. Inoltre “la mancanza di
unità tra i membri del clero” costituisce “una controtestimonianza” mentre “la
formazione umana e spirituale di sacerdoti, religiosi e religiose talvolta
lascia a desiderare” (22). Anche “la vita contemplativa, pilastro di ogni vera
consacrazione … è assente nella maggior parte delle congregazioni” (23). Si
afferma quindi che i cristiani, nonostante il loro “numero esiguo”,
“appartengono a pieno titolo al tessuto sociale e all’identità stessa” di questi
Paesi. La loro scomparsa rappresenterebbe una perdita per il pluralismo del
Medio Oriente (24). I cattolici sono chiamati a promuovere il concetto di
“laicità positiva” dello Stato per “alleviare il carattere teocratico del
governo” e permettere “più uguaglianza tra i cittadini di religioni differenti
favorendo così la promozione di una democrazia sana, positivamente laica, che
riconosca pienamente il ruolo della religione, anche nella vita pubblica, nel
pieno rispetto della distinzione tra gli ordini religioso e temporale” (25). I
cristiani devono essere minoranza attiva, senza ripiegarsi su di sé “in un
atteggiamento ghettizzante” (28). La Chiesa incoraggia a formare famiglie
numerose e promuove l’educazione, “che resta l’investimento maggiore” (29): le
scuole e università cattoliche accolgono migliaia di persone di tutte le
religioni, così come i centri ospedalieri e i servizi sociali (40). Tuttavia, le
Chiese e le scuole cattoliche “potrebbero aiutare di più i meno fortunati” (29).
E’ infatti “soprattutto grazie alle attività caritative indirizzate non soltanto
ai cristiani, ma anche ai musulmani e agli ebrei, che l’azione delle … Chiese in
favore del bene comune è particolarmente tangibile” (30). C’è poi un “richiamo
alla trasparenza nella gestione del denaro della Chiesa, soprattutto da parte
dei sacerdoti e dei Vescovi, per distinguere ciò che è dato per uso personale da
ciò che appartiene alla Chiesa (31). Il documento sottolinea quindi che i
conflitti regionali rendono ancora più fragile la situazione dei cristiani.
“L’occupazione israeliana dei territori Palestinesi rende difficile la vita
quotidiana per la libertà di movimento, l’economia e la vita sociale e religiosa
(accesso ai Luoghi Santi, condizionato da permessi militari accordati agli uni e
rifiutati agli altri, per ragioni di sicurezza). Inoltre, alcuni gruppi
fondamentalisti cristiani giustificano, basandosi sulle Sacre Scritture,
l’ingiustizia politica imposta ai palestinesi, il che rende ancor più delicata
la posizione dei cristiani arabi” (32). I cristiani sono tra le principali
vittime della guerra in Iraq. “Ancor’oggi la politica mondiale non ne tiene
sufficiente conto” (33). “In Libano, i cristiani sono divisi sul piano politico
e confessionale”. “In Egitto, la crescita dell’Islam politico, da una parte, e
il disimpegno, in parte forzato, dei cristiani nei confronti della società
civile, dall’altra, rendono la loro vita esposta a serie difficoltà”. “In altri
Paesi, l’autoritarismo, cioè la dittatura, spinge la popolazione, compresi i
cristiani, a sopportare tutto in silenzio per salvare l’essenziale. In Turchia,
il concetto attuale di laicità pone ancora problemi alla piena libertà religiosa
del Paese” (34). I cristiani sono esortati a non tralasciare il loro impegno
nella società nonostante le tentazioni allo scoraggiamento (35). “In Oriente –
si rileva - libertà di religione vuol dire solitamente libertà di culto”, non
dunque “libertà di coscienza, cioè della libertà di credere o non credere, di
praticare una religione da soli o in pubblico senza alcun impedimento, e dunque
della libertà di cambiare religione. In Oriente, la religione è, in generale,
una scelta sociale e perfino nazionale, non individuale. Cambiare religione è
ritenuto un tradimento verso la società, la cultura e la Nazione costruita
principalmente su una tradizione religiosa” (37). Per questo “la conversione
alla fede cristiana è vista come il frutto di un proselitismo interessato, non
di una convinzione religiosa autentica. Per il musulmano, essa è spesso vietata
dalle leggi dello Stato”. D’altra parte, per quanto riguarda i cristiani, “in
alcuni casi, la conversione all’Islam non avviene per convinzione religiosa, ma
per interessi personali … A volte, essa può verificarsi anche sotto la pressione
del proselitismo musulmano”. Alcune risposte ai Lineamenta “affermano il
fermo rifiuto del proselitismo cristiano, pur segnalando che esso è apertamente
praticato da alcune comunità ‘evangeliche’. [non esclusi i neocatecumenali,
che
portano la rivelazione kikiana e non quella Apostolica in tutte le comunità
di Tradizione Orientale, inquinandone di fatto tradizione e Liturgia e fondando
comunità neocatecumenali che non si integrano mai con la Chiesa locale, a meno
che non la fagocitino, come avviene in tutte le diocesi del mondo. Esse,
stranamente, non hanno le stesse difficoltà dei veri Cattolici, molti dei quali
stanno abbandonando quelle Terre -ndR] Di fatto, la questione dell’annuncio
ha bisogno di una riflessione più approfondita” per arrivare ad affermare “il
diritto di ogni persona e la sua completa libertà di coscienza” (38).
L’estremismo islamico, nel frattempo, continua a crescere in tutta l’area
costituendo “una minaccia per tutti, cristiani, ebrei e musulmani” (41-42). In
questo contesto di conflittualità, difficoltà economiche e limitazioni politiche
e religiose, i cristiani continuano ad emigrare: “nel gioco delle politiche
internazionali – si sottolinea - si ignora spesso l’esistenza dei cristiani, i
quali ne sono le prime vittime; questa è una delle cause principali
dell’emigrazione (43-44). Si invitano le Chiese in Occidente a sensibilizzare i
governi dei loro Paesi a questa situazione (45). D’altra parte si rileva la
crescente immigrazione in Medio Oriente di lavoratori africani ed asiatici, tra
cui molti cristiani, “spesso oggetto di ingiustizie sociali … sfruttamento e
abusi sessuali” (49). In questo contesto i cattolici sono chiamati ad essere
“sempre più testimoni autentici della Resurrezione nella società” (52).
Il Secondo capitolo è dedicato alla comunione ecclesiale. Il documento rileva
che i fedeli del Medio Oriente “sono consapevoli del fatto che la comunione
cristiana ha per fondamento il modello della vita divina nel mistero della
Santissima Trinità. Dio è amore (cf. 1 Gv 4, 8), e i rapporti tra le persone
divine sono rapporti d’amore”. Così è necessario che, in seno a ciascuna Chiesa,
ciascun membro viva “la comunione stessa della Santissima Trinità. La vita della
Chiesa e delle Chiese d’Oriente deve essere comunione di vita nell’amore, sul
modello dell’unione del Figlio con il Padre e lo Spirito. Ciascuno è membro del
Corpo il cui capo è Cristo” (54). “Questa comunione in seno alla Chiesa
cattolica – leggiamo nel testo - si manifesta mediante due segni principali: il
battesimo e l’Eucaristia nella comunione con il Vescovo di Roma, Successore di
Pietro, corifeo degli apostoli (hâmat ar-Rusul), ‘principio e fondamento
perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione’” (55). “Per promuovere
l’unità nella diversità, occorre superare il confessionalismo in ciò che può
avere di limitato o esagerato, incoraggiare lo spirito di cooperazione tra le
varie comunità, coordinare l’attività pastorale e stimolare l’emulazione
spirituale e non la rivalità” (56). “La comunione tra i vari membri di una
stessa Chiesa o Patriarcato – si legge nell’Instrumentum laboris - avviene sul
modello della comunione con la Chiesa universale e con il Successore di Pietro,
il Vescovo di Roma. A livello della Chiesa Patriarcale, la comunione si esprime
mediante il sinodo che riunisce i Vescovi di tutta una comunità attorno al
Patriarca, Padre e capo della sua Chiesa. A livello dell’eparchia/diocesi, è
attorno al Vescovo che avviene la comunione del clero, dei religiosi e delle
religiose, come pure dei laici” (57). I cristiani sono invitati a sentirsi
“membri della Chiesa Cattolica in Medio Oriente, e non soltanto membri di una
Chiesa particolare”. I ministri di Cristo e i consacrati sono chiamati ad
“essere modello ed esempio per gli altri … molti fedeli auspicano, da parte
loro, una maggiore semplicità di vita, un reale distacco in rapporto al denaro e
alle comodità del mondo, una pratica edificante della castità e una purezza di
costumi trasparente” (58). “Il Sinodo deve incoraggiare i fedeli ad assumere
maggiormente il loro ruolo di battezzati promuovendo iniziative pastorali,
specialmente per quanto riguarda l’impegno sociale, in comunione con i pastori
della Chiesa” (60).
Il Terzo capitolo affronta il tema della testimonianza cristiana. Si ribadisce
innanzitutto “l’importanza della catechesi per conoscere e trasmettere la fede”
eliminando “il distacco tra la verità creduta e la vita vissuta”: sono elencati
alcuni metodi di catechesi (62-69). Per quanto riguarda la liturgia il documento
riporta l’auspicio di molti per “uno sforzo di rinnovamento, che, pur rimanendo
fermamente radicato nella tradizione, tenga conto della sensibilità moderna e
dei bisogni spirituali e pastorali attuali”. “L’aspetto più rilevante del
rinnovamento liturgico finora portato avanti consiste nella traduzione in lingua vernacola, principalmente in arabo dei testi liturgici” (70-75). Si ribadisce
l’urgenza dell’ecumenismo, superando pregiudizi e diffidenze attraverso il
dialogo e la collaborazione: a questo proposito “gioverà, inoltre, la
celebrazione dei sacramenti della confessione, dell’Eucaristia, dell’unzione dei
malati in una Chiesa diversa dalla propria, nei casi previsti dagli ordinamenti
canonici”. “Due segni sono di particolare importanza: l’unificazione delle feste
cristiane (Natale e Pasqua) e la gestione comune dei Luoghi di Terra Santa …
nell’amore e nel rispetto mutuo”. Si condanna “decisamente il proselitismo che
usa mezzi non conformi al Vangelo” (76-84). Si passano in rassegna quindi i
rapporti con l’ebraismo che trovano “nel Concilio Vaticano II un punto di
riferimento fondamentale”. Il dialogo con gli ebrei è definito “essenziale,
benché non facile” risentendo del conflitto israelo-palestinese. La Chiesa
auspica che “ambedue i popoli possano vivere in pace in una patria che sia la
loro, all’interno di confini sicuri ed internazionalmente riconosciuti”. Si
ribadisce la ferma condanna dell’antisemitismo, sottolineando che “gli attuali
atteggiamenti negativi tra popoli arabi e popolo ebreo sembrano piuttosto di
carattere politico” e dunque estranei ad ogni discorso ecclesiale. I cristiani
sono chiamati “a portare uno spirito di riconciliazione basata sulla giustizia e
l’equità per le due parti. D’altra parte, le Chiese nel Medio Oriente invitano a
mantenere la distinzione tra la realtà religiosa e quella politica” (85-94).
Anche le relazioni della Chiesa Cattolica con i musulmani hanno fondamento nel
Concilio Vaticano II. Vengono ribadite le parole di Benedetto XVI: “Il dialogo
interreligioso e interculturale fra cristiani e musulmani non può ridursi ad una
scelta stagionale. Esso è infatti una necessità vitale, da cui dipende in gran
parte il nostro futuro”. Si rileva che “è importante da una parte avere i
dialoghi bilaterali – con gli ebrei e con l’Islam – e poi anche il dialogo
trilaterale”. “Le relazioni tra cristiani e musulmani sono, più o meno spesso,
difficili – si legge nel documento - soprattutto per il fatto che i musulmani
non fanno distinzione tra religione e politica, il che mette i cristiani nella
situazione delicata di non-cittadini, mentre essi sono cittadini di questi Paesi
già da ben prima dell’arrivo dell’Islam. La chiave del successo della
coesistenza tra cristiani e musulmani dipende dal riconoscere la libertà
religiosa e i diritti dell’uomo”. “I cristiani sono chiamati … a non isolarsi in
ghetti, in atteggiamenti difensivi e di ripiegamento su di sé tipici delle
minoranze. Molti fedeli insistono sul fatto che cristiani e musulmani sono
chiamati a lavorare assieme per promuovere la giustizia sociale, la pace e la
libertà, e difendere i diritti umani e i valori della vita e della famiglia”. Si
suggerisce “la revisione dei libri scolastici e soprattutto di insegnamento
religioso, affinché siano liberi da ogni pregiudizio e stereotipo sull’altro” e
si invita al dialogo della “verità nella carità” (95-99). Nella situazione
conflittuale della regione i cristiani sono esortati a promuovere “la pedagogia
della pace”: si tratta di una via “realistica, anche se rischia di essere
respinta dai più; essa ha anche più possibilità di essere accolta, visto che la
violenza tanto dei forti quanto dei deboli ha condotto, nella regione del Medio
Oriente, unicamente a fallimenti e a uno stallo generale”. Si tratta di una
situazione “sfruttata dal terrorismo mondiale più radicale”. Il contributo dei
cristiani, “che esige molto coraggio, è indispensabile” anche se “troppo spesso”
i Paesi mediorientali “identificano l’Occidente con il Cristianesimo” recando
grande danno alle Chiese cristiane (100-102). Il documento analizza anche il
forte impatto della modernità che al musulmano credente “si presenta con un
volto ateo e immorale. Egli la vive come un’invasione culturale che lo minaccia,
turbando il suo sistema di valori”. “La modernità, del resto, è anche lotta per
la giustizia e l’uguaglianza, difesa dei diritti”. Le scuole cattoliche cercano
“di formare persone capaci di discernere il positivo dal negativo, per prendere
solo il meglio”. Ma “la modernità è anche un rischio per i cristiani”: le
società della regione sono infatti anch’esse “minacciate dall’assenza di Dio,
dall’ateismo e dal materialismo, e più ancora dal relativismo e dall’indifferentismo
… Tali rischi, al pari dell’estremismo, possono facilmente distruggere …
famiglie, società e Chiese (103-105). “Da questo punto di vista, musulmani e
cristiani devono percorrere un cammino comune”. I cristiani, da parte loro,
devono essere consapevoli di appartenere al Medio Oriente e di esserne “una
componente essenziale come cittadini”: anzi, “sono stati i pionieri della
rinascita della Nazione araba” e “il loro ruolo è riconosciuto nella società”
(106-108) anche se “con la crescita dell’integralismo islamico, aumentano un po’
ovunque gli attacchi contro i cristiani” (110). “Il cristiano ha un contributo
speciale da apportare nell’ambito della giustizia e della pace”; ha il dovere di
“denunciare con coraggio la violenza da qualunque parte essa provenga, e
suggerire una soluzione, che non può passare che per il dialogo”, la
riconciliazione e il perdono. Tuttavia i cristiani devono “esigere con mezzi
pacifici” che anche i loro diritti “siano riconosciuti dalle autorità civili”
(111-114). Il documento affronta quindi il tema dell’evangelizzazione in una
società musulmana che può avvenire solo attraverso la testimonianza: ma “si
chiede che essa sia garantita anche da opportuni interventi esterni”. Ad ogni
modo l’attività caritativa delle comunità cattoliche “verso i più poveri e gli
esclusi, senza discriminazione, rappresenta il modo più evidente della
diffusione dell’insegnamento cristiano”. Tali servizi spesso sono assicurati
solo dalle istituzioni ecclesiali (115-116).
Nella Conclusione, il documento rileva “la preoccupazione per le difficoltà del
momento presente, ma, al contempo, la speranza, fondata sulla fede cristiana”.
“La storia – si legge - ha fatto sì che diventassimo un piccolo gregge. Ma noi,
con la nostra condotta, possiamo tornare ad essere una presenza che conta. Da
decenni, la mancata risoluzione del conflitto israelo-palestinese, il non
rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani, e l’egoismo delle
grandi potenze hanno destabilizzato l’equilibrio della regione e imposto alle
popolazioni una violenza che rischia di gettarle nella disperazione. La
conseguenza di tutto ciò è l’emigrazione, specialmente dei cristiani. Di fronte
a questa sfida e sostenuto dalla comunità cristiana universale, il cristiano del
Medio Oriente è chiamato ad accettare la propria vocazione, al servizio della
società”. L’invito ai credenti è che “siano dei testimoni, consapevoli che
testimoniare la verità può portare ad essere perseguitati”. “Ai cristiani del
Medio Oriente – conclude l’Instrumentum laboris - si può ripetere ancora oggi:
‘Non temere, piccolo gregge’ (Lc 12, 32), tu hai una missione, da te dipenderà
la crescita del tuo Paese e la vitalità della tua Chiesa, e ciò avverrà solo con
la pace, la giustizia e l’uguaglianza di tutti i suoi cittadini!” (118-123).
fonte: Radio Vaticana
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